In questo articolo su Ernst Jünger intendo riferirmi soprattutto alla figura del Ribelle, la quale, rispetto a quella del Lavoratore e a quella del Milite ignoto, è perlomeno la più politicamente connotata (tradurre Waldgänger con Ribelle coglie dunque nel segno, quantomeno in larga misura).
La mia analisi sarà tuttavia circoscritta. Sfiorerò appena la tematica del qui e ora dell’epoca della tecnica moderna (caratterizzante il Ribelle in modo essenziale). Di conseguenza, non tratterò in modo approfondito il tema della differenza tra chi è a bordo del Titanic (il grigio uomo comune moderno, lo schiavo, la macchina), e il Waldgänger (colui che passa al bosco, però – va specificato – il bosco della modernità). Quest’ultimo è l’uomo libero, l’uomo senza paura.
Il Ribelle è spontaneamente nemico di ogni Leviatano: sovversivo in contesti capitalistici (o comunque, attivamente avverso a poteri forti e corruzione), è eversivo in contesti anticapitalistici.
Data la necessità di offrire una rappresentazione concreta del Ribelle, lo immaginerò calato in una situazione sociale, economica, politica di socialismo reale (quando Jünger scrive, nel 1951, il Trattato del Ribelle, il comunismo mondiale era ancora nel pieno delle sue forze). Trovo interessante l’interpretazione che l’intellettuale tedesco fornisce di tale tipo di regime di sinistra.
Per il resto cercherò di far emergere, nel modo più esaustivo, la generale visione del mondo jüngeriana (la quale, forse, è estrapolabile sulla sola base di un’attenta e meditata lettura del Trattato).
Immaginiamo un contesto interamente statalista, in cui ad ognuno è assicurato il necessario. Immaginiamo poi il Ribelle ideale (alcuni martiri cristiani – vi si fa riferimento nel Trattato – hanno forse incarnato tale ideale). Ovvero, l’uomo assolutamente libero, l’uomo completamente privo di paura. Un simile individuo, ad esempio, scenderà in piazza per manifestare contro la proprietà statale, a favore della proprietà privata (correndo magari il pericolo di una dura repressione poliziesca). Vuole più del necessario.
Jünger scorge una stretta connessione tra volontà di assoluto dominio tecnico, paura, odio, malvagità. Credo che per il pensatore tedesco, l’uomo dotato di etica, rispetto all’uomo immorale, sia più timoroso. Massimamente avverso al dolore, non può che odiare massimamente chi glielo potrebbe procurare. Da un odio viscerale, non potrà che seguire la più acuta spietatezza verso la persona odiata. Il Ribelle, il diverso (in quanto individuo non reificato) – direi – se viene condannato all’iniezione letale da parte del Leviatano capitalista, dal Leviatano comunista verrà addirittura mandato al rogo.
Certamente, vivere nel suddetto ideale contesto socialista, è meno rischioso e precario che vivere in un contesto politico di segno opposto. Tuttavia, sul piano sia politico che sociale, l’oppressione della libertà, il livellamento ad etici automi, a gregge addomesticato, costituiscono un clima oltremodo pesante e angusto, nonché arido, insomma irrespirabile.
Per raccordarmi alle riflessioni filosofiche generali su Jünger, che fra breve andrò ad esporre, descriverò, a titolo di esempio, una certa situazione in cui il Ribelle ideale, potrebbe venire a trovarsi. Partecipe della resistenza contro un qualsiasi tiranno, costui, se catturato, sarà in grado di sopportare le più atroci e orribili torture, nonché l’idea della morte che ne potrebbe seguire. Il Ribelle non parlerà, non tradirà i suoi principi. In ciò avrà avuto piena ragione del nemico. Può lottare addirittura da solo (si pensi a Socrate), non essendo disperato.
Jünger parla di nichilismo in due accezioni, l’una negativa, l’altra positiva. Nel primo caso può anche corrispondere ad una concezione materialistica. Il nichilismo va allora inteso, principalmente, quale assenza di autentica moralità. Il nichilismo positivo è al contrario caratterizzato da quest’ultima (forse in parte). Jünger parla di un’indole creatrice, ma anche distruttrice, del Ribelle. Quest’ultimo contribuisce, in primo luogo, alla formazione di uno Stato che non sia il Leviatano.
Certamente il nichilismo è, per il filosofo tedesco, vero valore (almeno parzialmente, dunque).
Tale valore, è genuino amore? Se così fosse, si avrebbe una prospettiva di tal genere.
Poniamo che ci si possa contraddire liberamente. Il dolore sarà allora repulsivo (infelice), eppure verrà affermato. Ciò sarebbe disinteresse, assenza di egoismo. L’amore è auto-sacrificio. Nel mondo – logicamente – tutto tende a confliggere con tutto (sebbene siano quantomeno concepibili vicendevoli rinunce. Una rinuncia è, per così dire, una ferita inferta a se stessi).
L’amore autentico è davvero altruista, è libero dall’egoismo. Negando radicalmente il nostro egoismo, permettiamo all’Altro (necessariamente), per così dire, di travolgerci (qualora non ci ami).
La situazione appena descritta è dunque autenticamente non-egoistica. Non è infatti compassione e colpa a orientare la condotta di chi ama. L’amore per l’Altro (ovvero, il valore che gli attribuiamo), non si esprime in stati emotivi, ma è interamente testimoniato dalla più radicale rinuncia.
Ora, è possibile coniugare amore ed egoismo? Possiamo tralasciare di rispondere a tale interrogativo.
Jünger parla, dunque, di nichilismo e di individuo. Chi ama davvero è libero dall’egoismo, ma è comunque vincolato ad una necessità (alla cosa). È reificato. La cosa che lo vincola è l’Altro, cui attribuisce valore: il nichilismo non è amore (sia pure vero amore).
Il mondo è rappresentazione. Nulla ha valore. La condotta del nichilista sarà tale da sacrificare sia se stesso che l’Altro. In quanto individuo (non-cosa), la sua libertà non potrà che essere indicibile contingenza (sia nel preservare, sia nel distruggere). Credo fermamente che Jünger abbia offerto una sua interpretazione della materia prima. L’averla, perlomeno in parte, moralizzata, è la peculiarità di tale esegesi (personalmente, invece, ritengo che materia prima e relativismo siano inscindibilmente connessi).
L’auto-sacrificio nichilistico è, presso Jünger, differenziante (qualitativamente) dovere. Non solo non è egoismo, ma è libertà nel senso più proprio. Proprio per questo, svincolata da tutto, è Grandezza.
Non lo è l’autentico amare, in quanto condizionato (non gratuito). Il contingente dovere, per essere grande, non deve avere nulla di egoistico o felice. Esso richiede allora il dolore (se quest’ultimo venisse meno, verrebbe meno anch’esso).
Ciò, per quel che riguarda il sacrificio di sé.
Ma il nichilismo è anche (si è detto) sacrificio dell’Altro. Affinché ciò sia possibile, deve darsi attenuazione dell’imprescindibile dolore. Il che, necessariamente, non potrà che aversi a discapito dell’alterità.
L’uomo libero che mangia una mela, non lo fa poiché agito dall’appetito: lo fa in modo contingente. Può provare dolore, o un più gradevole sollievo. Che provi l’una o l’altra delle sensazioni anzidette, gli è indifferente.
Contingenza e rappresentazione è, dunque, tutto quanto si offre. Se ho fame, da uomo libero, posso gratuitamente astenermi dal saziarmi, oppure, altrettanto gratuitamente, posso mangiare.
Tuttavia, credo che Jünger intenda l’agire contingente nei termini dell’esempio che andrò ora a esporre. L’uomo libero non è un ingordo: a un certo punto si raffrena.
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