Il pensiero nell’epoca della post-verità

Un saggio filosofico di Bernard Stiegler 

Il filosofo francese Bernard Stiegler, scomparso nel 2020, è finalmente tradotto in italiano. L’ultima sua opera a comparire nelle nostre librerie è Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità. Il volume tradotto da Rosella Corda è stato curato dal Gruppo di Ricerca Ippolita per Meltemi  (per ordini: redazione@meltemieditore.it, pp. 365, euro 24,00). È un testo in cui lo sviluppo teoretico dell’argomentazione è sostanziato da pathos politico-esistenziale. Non potrebbe, del resto, essere diversamente: l’autore entra nelle vive cose del mondo contemporaneo con lo scopo dichiarato di voler osservare ciò che Michaël Foessel ha definito “la follia ordinaria del potere”, così come essa si manifesta nell’età del capitalismo computazionale: «Questa follia […] noi dobbiamo temerla effettivamente, ma dobbiamo anche e soprattutto osservarla e prendercene cura» (pp. 17-18). Allo scopo, è necessario richiamare il “coraggio della verità”  e dell’autentica parresia dei Greci, vale a dire il dovere di enunciare il vero in un’epoca in cui si assiste alla sua latitanza.

Nella società sono oggi presenti solo simulacri di parresia, mentre le anime autenticamente noetiche e pensanti, sono esposte, ab initio, all’oscillazione: «tra due poli di malattia e di cura, […] ciò che Simondon chiama diade indefinita» (p. 19). Stiegler è alla ricerca di un pensiero terapeutico nei confronti del deserto, ambientale ed esistenziale, prodotto dal Gestell nell’Antropocene. Egli è convinto dell’inevitabilità che il filosofare debba prendere le mosse dalla constatazione heideggeriana presente in Che cosa significa pensare?: «ciò che dà a pensare, nel nostro tempo che dà da pensare, è che noi non pensiamo ancora» (p. 23). Il problema è che Heidegger è andato incontro a un evidente inciampo teorico nel momento in cui, con la pubblicazione di Tempo ed Essere, rinunciò a fare del Da-sein, dell’Esser-ci, l’ente privilegiato dell’interrogazione ontologica. Ciò implica che il Da-sein deve pensare se stesso, al fine di aver cura dell’essere, a partire da qualcos’altro, che non è un’essente, ma il Gestell, l’Impianto della tecno-scienza. Si tratterà: «di curare il Gestell» (p. 29) e i suoi esiti. Il francese ricorda che il primo a percepire il mal-essere indotto dalla rivoluzione tecnologica del secolo XIX, con le sue ferrovie, il telegrafo e le industrie, fu Nietzsche.

Questi intuì che anche nel mondo capitalistico agiscono due funzioni, la tecnica e la giustizia: «Techne e dike dis-funzionano di concreto, ma la loro musica […] è diventata […] quanto meno dissonante» (p. 30). In tale condizione, l’Antropocene non può durare, esso richiede: «ciò che oltrepassa l’antropia come negantropia» (p. 32), al fine di pervenire al Negantropocene. Il farmaco che potrebbe consentire tale passaggio è lo Übermensch, colui che è capace di uno sforzo sovraumano. L’Oltreuomo va ripensato, suggerisce l’autore, attraverso la decostruzione teoretica della vulgata esegetica di Nietzsche e della stessa interpretazione di Heidegger, financo oltre le stesse posizioni espresse in tema dal pensiero transalpino di Guattari, Deleuze e Derrida. Nessuno di questi autori, a dire di Stiegler, ha compreso fino in fondo il problema: «Questo sapere […] è quello di una farmacologia positiva, attiva, per come la condiziona […] come sua antecedente, una farmacologia negativa, passiva» (p. 35). Solo tale considerazione permette di comprendere  ciò che Musil, Nietzsche, Heidegger e Guattari lessero quale imponente regressione, vale a dire l’affermarsi dapprima del moderno e poi dell’attuale società iperindustriale. Il contesto storico contemporaneo produce la denoetizzazione, l’incapacità di pensare-agire criticamente, il nuovo volto della banalità del male.

Il pharmakon del pensiero: «è previsto come Gefahr, “pericolo dove cresce anche ciò che salva”» (p. 40), e implica le questioni rimosse da Heidegger: entropia, entropia negativa e anti-entropia. L’“ultimo uomo”, per Stiegler abitatore della società computazionale in cui tutto è ridotto alla media del calcolo, vive di “risentimento”. Tale stato emotivo-esistenziale trasforma il potenziale pharmakon, in pharmakos, capro espiatorio: è l’inganno in cui è caduto Heidegger, nota il filosofo francese e ciò spiega il suo antisemitismo e la sua adesione al nazismo. Il risentimento è in atto nella governance, perfettamente rappresentato da Trump e Macron. Il pharmakon-pensiero, inteso come espressione del divenire è esso stesso entropico, ma al medesimo tempo preserva istanze anti-entropiche. Lo fa quando sia in grado di inscrivere nel processo diveniente della storia, un avvenire possibile, mai compiuto definitivamente, ma promettente. Insomma, il nichilismo attivo è ciò che oltrepassa il nichilismo passivo ed è possibile: «solo a condizione di considerare ciò che nel divenire può e deve biforcare quasi-casualmente come da venire (messianicamente, direbbe Derrida)» (p. 49).

Tale lettura centrata su un Übermensch dal tratto utopistico, “terapeuta” della dismisura transumanista, se giudicato con il criterio attualmente dominate del calcolo della probabilità, è latore di un Nuovo Inizio dal tratto assolutamente improbabile. La rivoluzione neo-liberista e transumanista, chiosa Stiegler, tende ad annientare le ritenzioni terziarie provenienti dal passato attraverso le quali costruiamo il “nostro” mondo, tende ad abbattere qualsivoglia rilievo. Antropia e negantropia necessitano, per rispondere al deserto imposto dall’Antropocene, di una nuova topologia che riconsideri il cosmo nei livelli: «microcosmici, mesocosmici e macrocosmici attraverso cui l’immanenza si presenti in rilievi» (p. 123): la loro rilevanza consente di credere in questo mondo, senza ricorre a fughe trascendenti simili a quelle in cui è incorso Heidegger dopo la Kehre.

Risulta, inoltre, altrettanto importante, tener conto delle indicazioni di Toynbee per comprendere lo stato attuale delle cose. Questi individuò, quale tendenza degli esorganismi complessi, giunti alla fase civilizzazionale, la propensione all’autodistruzione. L’Antropocene è caratterizzato dall’aumento generalizzato della tendenza entropica, dalla dissipazione dell’energia, dalla distruzione delle biodiversità e delle noodiversità. Da qui, o l’immane tragedia finale o un avvenire imprevisto.

Lo stesso avvenire intuito da Musil. Nell’austriaco, la questione entropica diviene: «possibilità del possibile […] come possibilità di un sogno possibile e realizzabile […] l’avvenire come Storia potenziale» (p. 269). Il problema è che l’ideatore della Cacania: «ignora la questione dell’esosomatizzazione che Lotka formulerà […] nel 1945» (p. 271) e di cui, al contrario, ha contezza Stiegler. L’assimilazione di ciò che si decompone (l’Impero) si “sedimenta” prima di decomporsi a sua volta. Oggi il Leviatano è digitale e la tecnosfera è eminentemente computazionale, inumana in quanto paradossalmente troppo antropica. Per uscire dall’empasse statistica bisogna praticare il coraggio dell’impossibile. Un libro importante, soprattutto per l’analisi della rete attraverso la quale si dispiega il potere economico-politico nella società contemporanea. Più debole, ci pare, la pars construens, in quanto improntata di messianesimo, ennesimo esempio di storicismo.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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