Esaminando due famose opere shakespeariane e un’importante commedia di Marlowe emergerà come i due grandi esponenti del teatro elisabettiano abbiano negato l’esistenza effettiva dell’umanità. Vedremo tuttavia come quest’ultimo abbia addirittura negato l’effettività di ogni altro tipo d’esistenza.
Senza entrare nel dettaglio della nota vicenda dell’Amleto, ne estrapolerò i significati più importanti anche facendo riferimento ad alcuni dei suoi più emblematici personaggi.
La visione del mondo che è alla base del celeberrimo dramma di William Shakespeare è estremamente tragica e inattuale. L’umanità esisterebbe solo in apparenza, mentre l’animalità, quale condizione originaria e primitiva dell’uomo, continuerebbe a costituirne il modo d’essere.
Carattere essenziale dell’uomo animalesco, disumano, consisterebbe nell’impossibilità di obbedire, di aderire, ad un qualsiasi tipo di norma o legge. L’impossibilità di essere coerente sarebbe dunque costitutivo dell’uomo. L’infrazione delittuosa di ogni legge condizionerebbe fatalmente la sua condotta.
Il più essenziale principio da contraddire è quello legato al valore che attribuisce alla propria vita. Se ciò non fosse in lui vi sarebbe della coerenza. L’impossibilità da parte dell’uomo di agire eticamente, in modo tale da salvaguardare la propria pelle nel modo più ottimale, è indicativo dell’assenza in esso, persino di quel minimo indispensabile di civile attitudine che lo differenzierebbe dagli animali. Anche l’etica è dunque arte, artificio, ovvero tratto meramente esteriore tipicamente umano. Shakespeare nega in modo radicale la possibilità della sua esistenza. Del resto vi è anche un gusto estetico per ciò che ci è egoisticamente utile, che ha fra l’altro quasi carattere onanistico.
Ma il più ingenuo e pieno ottimismo umano è rappresentato dal consigliere del re usurpatore Claudio, Polonio, che incarnerebbe il punto di vista della cultura scolastica, sopravvivente dal medioevo ai tempi del drammaturgo inglese e forse anche imperante. È fra l’altro mio parere che, sia Platone che Aristotele, siano stati dei pensatori tanto mentalmente dotati quanto ingenui. Ebbene, l’umanità che fa storicamente la sua comparsa, nel suo essere massimamente differente rispetto all’animalità, è al meglio rappresentata dalla filosofia dei due suddetti greci. Non so, fra l’altro, se Aristotele abbia sostenuto l’idea di una parziale evoluzione umana. Certamente interpreta il pensiero dei presocratici come meno progredito rispetto alla sua filosofia.
Presso molti pensatori i presocratici avrebbero avuto la tragica coscienza dell’inattualità della condizione umana. Né per coscienza, né per conoscenza, l’uomo si sarebbe per questi ultimi distanziato dalla sua condizione primitiva. Ebbene, credo che Shakespeare abbia recuperato tale pessimistica visione delle cose. Alle spalle di cultura e civilizzazione (che è essa stessa cultura), quali tratti tipicamente umani, c’è l’uomo nel suo nudo e crudo, primordiale, inalterato, modo d’essere.
L’assenza di coscienza costituirebbe dunque un contenuto essenziale della tragedia shakespeariana in esame. Che Amleto nel suo celebre monologo asserisca il contrario denoterebbe a mio parere come Shakespeare non si identifichi con il protagonista del dramma (vedremo chi è il vero alterego del letterato anglosassone). Amleto non sarebbe che uno dei personaggi-funzione, per quanto fondamentale e in buona parte esprimente la mentalità dell’autore, dell’opera. Esprimerebbe cioè un punto di vista che non coinciderebbe a pieno con quello del drammaturgo inglese. Amleto è allora funzionale ad esprimere il senso complessivo dello scritto shakespeariano.
Ma torniamo a Polonio. Crede infantilmente che l’uomo sia nobile e altruista, saggio e avveduto, amorevole e disinteressato, capace di vera scienza, insomma che sia tutto ciò che gli consente di avere una coscienza soddisfatta, del tutto serena e ottimista. Una vigliacca e volgare accortezza sembra, in aggiunta, connotarlo (tale aspetto di mediocrità potrebbe del resto logicamente sussistere assieme a quello della genuina bontà).
Un concetto che ricorre più volte nell’Amleto è quello di sorte, da intendersi più nel senso di fortuna, di buona sorte, che nell’accezione di destino, di condizione negativa cui l’uomo soggiace fatalmente. Ebbene, secondo Shakespeare, chi favorirebbe la fortuna? Colui che maggiormente attrae, affascina, avvinghia a sé, gli uomini. E chi amerà davvero ogni essere umano se non se stesso, nella sua più nuda e comune natura (e dunque chi gli assomiglia)? Ad avere successo nella vita saranno allora le persone criminose, dai costumi immorali ed infine – proprio perché del tutto prive di legge – anche e soprattutto ipocrite. Ovvero, l’uomo, che non sarebbe tale prescindendo dalla dimensione della cultura, fa di quest’ultima qualcosa di interamente ipocrita, facendo, di conseguenza, di se stesso un’animale-simulatore per essenza. Quando non sia – è il caso di Polonio – un essere stupidamente folle, dalle vedute erronee e incapace di fare corrette valutazioni.
Il personaggio con cui l’autore del dramma si identifica maggiormente è a mio parere Ofelia. È mia opinione che Shakespeare sia stato una persona estremamente femminile. La calorosità dei più puliti sentimenti, l’attaccamento agli affetti, siano essi di tipo materno, siano essi rivolti a una persona amata che si desidera ricambi, il tenere all’amore vero, saldo, profondo, durevole, è quanto si esprime nella delicatezza dei modi di quelle donne che mostrano la più leggiadra femminilità.
Ofelia nutre dell’amore sincero per Amleto e spera di esserne corrisposta. Il principe danese, con l’uccisione di suo padre Polonio, la calpesta, contraccambiandola con un gesto per lei terribile. La cruda realtà delle cose, il loro vero volto che si mostra ora senza veli alla ragazza, annienta le sue più vitali, indispensabili, aspirazioni. La follia di Ofelia prorompe quale effetto di una lacerante traumatizzazione esistenziale. Il suo delirare esprime tale toccante poeticità in modo molto eloquente.
Diversa è la reazione di Laerte, suo fratello, all’uccisione del padre. Nutre un senso di vendetta ancora più virile rispetto a quello covato da Amleto nei confronti di suo zio Claudio, uccisore di suo padre, nuovo sposo di sua madre Gertrude e nuovo re di Danimarca. Nel rancore di Laerte c’è solo dell’egoismo e della voluttà legata all’oltraggio personale subito.
Nel Macbeth Shakespeare fa del suo pensiero tragico, espresso metaforicamente dalla tenebrosa vicenda in esso narrata, il contenuto poetico di questo dramma. Comunica al lettore un senso di sofferenza derivante dalla strangolante consapevolezza della fatale condizione umana.
La temeraria violenza in battaglia dell’aristocratico scozzese Macbeth viene presa per nobile eroismo e contraccambiata con un nuovo possedimento baronale. Shakespeare nel dramma in questione denuncia l’insussistenza e la conseguente inefficacia del valore della fedeltà (la capacità di tener fede ai patti) e dell’onorabilità che contraddistingue chi aderisce inflessibilmente a tale norma. Il dramma non a caso si svolge in età medievale nel corso della quale il modo di fare politica era interamente fondato su detto valore. Ma Shakespeare sembra anche polemizzare contro la politica dei tempi a lui coevi, poco mutata, con i suoi intrighi, rispetto ai tempi trascorsi.
Con l’appoggio e lo sprone di sua moglie, la perfida Lady Macbeth, ucciderà senza farsi scoprire re Duncan divenendo il nuovo re di Scozia, anche grazie alle sue doti di bieco simulatore. Ma Macbeth opera anche con il favore delle forze del male. Si è detto come la meschinità sia foriera di successo a questo mondo. Macbeth divina le sue future fortune sulla base dell’atteggiamento in tutto e per tutto malvagio che è pronto ad assumere, soprattutto, dunque, su incitamento della moglie.
Ma la cieca malvagità e l’attitudine al tradimento rendono la sua favorevole situazione precaria. Le sue armi di successo gli si ritorceranno contro. Sia lui che Lady Macbeth moriranno. Malcolm, l’erede legittimo al trono, confesserà, soprattutto a se stesso, di non essere una persona migliore dell’usurpatore suo avversario, anche se poi si rimangerà quanto affermato. E i nobili cui Macbeth ha fatto uccidere i familiari gli si rivolteranno contro animati da quel sentimento di vendetta di cui ho discusso in precedenza. Insomma, Shakespeare sembra lasciar intuire come nulla cambierà in Scozia nonostante la sconfitta e l’uccisione del suo illegittimo sovrano. Per il drammaturgo, in altre parole, il mondo non avrebbe storia, non potendo neanche minimamente progredire.
Il destino di afflizione senza sbocchi cui l’uomo è dannato è anche legato alle idee di femminilità negativa e di virilità che emergono nel Macbeth. La prima è espressa da Lady Macbeth, personaggio antitetico rispetto ad Ofelia, che è al contrario il simbolo della grazia femminile. L’infrazione di ogni legge, tra cui vi rientra, come si è detto, anche l’ipocrisia, connota ogni donna che sia negativamente tale. Il maschile non è tuttavia rappresentato da Macbeth, quanto piuttosto dagli assassini da lui assoldati, i quali affermano di non nutrire più alcun senso di rispetto e di benevolenza nei confronti dell’umanità, per via della troppe sofferenze subite nel corso della loro disgraziata esistenza. Costoro, insomma, non mentono più ipocritamente a se stessi, non fingono più di avere una morale. Ebbene, virilità e femminilità, secondo Shakespeare, si distinguerebbero unicamente sulla base della presenza o meno di insincerità all’interno dell’animo di qualcuno. Per il resto, uomo e donna, sarebbero identicamente caratterizzati da una medesima abiezione. Potremmo anche dire che la differenza tra maschio e femmina non viene a dipendere da azioni di diverso tipo che discriminerebbero reciprocamente i due generi.
Alla luce di ciò, Macbeth non è del tutto virile in quanto esitante, internamente combattuto, moralmente perplesso circa quanto andrà comunque inesorabilmente a compiere. E la moglie per ciò lo rimprovera, quasi prendendolo per una donnicciola.
La donna è criminale per antonomasia. Per esserlo del tutto deve anche mentire a se stessa, fingendo il contrario. Ora, se prendesse atto di essere un’ipocrita non infrangerebbe più ogni possibile regola. Ovvero, in qualcosa sarebbe coerente. Viceversa, l’immoralità consapevole è tipica dell’uomo.
Maschio e femmina provano concomitantemente odio e amore (o meglio, attrattiva sessuale) reciproci. Si odiano e si amano simultaneamente. Si odiano poiché in un mondo inconciliabile l’uno travolge, offende, l’altro, lo danneggia inevitabilmente. Si amano perché in fondo sono identici: non si può che amare la propria natura, il modo in cui si è fatti. La persona virile, autentica, non menzognera, esterna la sua immoralità: la donna che gli presta ascolto non può che esserne contrariata, colpita. Non ammetterà mai di essere lei stessa immorale. Ma proprio perché ferita a fondo (avverte nell’animo il peso di questo tipo d’offesa) e proprio perché ama l’offesa in generale (e dunque chi offende) allora sarà attratta da colui che gliel’ha provocata.
Lo scontro amoroso finisce alla pari e scontenta entrambi. La donna odia l’uomo poiché l’ha colpita nel suo unico punto debole. L’uomo, a causa della sua vita travagliata e traumatizzata, non ama più nessuno e dunque neanche la donna. Da puri nemici si soffrono reciprocamente (già nel provare vicendevole antipatia. Ma il peggio è che se ne potrebbero combinare di tutti i tipi).
Shakespeare, attraverso il Macbeth, ci comunica con estrema amarezza quest’infernale situazione di glaciale solitudine di ogni essere umano.
Nella commedia Il Dottor Faust di Christopher Marlowe, ambientata ai tempi di Carlo V, il protagonista è un erudito tedesco che attraverso la pratica della magia nera entra in contatto con Mefistofele. Il demone asseconderà ogni sua brama in cambio della sua anima. Ma Faust ha soprattutto desiderio di conoscenza.
Tralascio di considerare la centrale polemica antipapale consistente nella denuncia di come la chiesa abbia la presunzione infondata di avere il monopolio della conoscenza del senso di ogni cosa, così come cosa rappresenti la figura del suddetto imperatore asburgico. Prescinderò inoltre dal delineare con precisione (più che altro con sicurezza) il modo di pensare del drammaturgo britannico in quanto nel Dottor Faust non mi sembra emergano elementi sufficienti a tanto. Chiarirò soprattutto il significato della figura del suo protagonista Faust.
Ritengo che per Marlowe la vita non abbia alcun significato. Il valore che si attribuisce ad essa è cioè del tutto vanesio. Il vivere, ovvero il sentire, sarebbe pura questione di libidinale vanità.
Tentando di esplicitare tale punto di vista partirò dal considerare la forma di vita più semplice, ovvero quella animale. I suoi basilari problemi di senso consistono in primo luogo nel mantenersi vivi (si attribuisce cioè importanza alla propria esistenza) oppure, ad esempio, nel cercare nutrimento quando lo stimolo della fame si fa sentire. Già l’animale interpreta i suoi elementari bisogni come la molesta azione contrariante di un’entità che lo sovrasta, di un destino persecutorio e avverso. Ed è unicamente ciò che lo sprona ad agire.
Immaginiamo ora una situazione esistenziale più evoluta, quella di antichi popoli ancora barbari. Le questioni di senso della vita si incrementano, ovvero presso costoro sorgono dei problemi assenti nel mondo animale. Poniamo che, oltre a mantenere una condotta vitalistica, siano moralmente orientati ad essere, ad esempio, eroici. Non adeguandosi a tale norma comportamentale temeranno il biasimo sociale oppure il castigo dei loro dei pagani.
Un uomo più moderno sarà più conformista. Faccio un esempio riduttivo ma indicativo. Presso i barbari non vigevano ancora le buone maniere per cui essendo maleducati non si veniva giudicati.
Infine tale uomo più evoluto del barbaro tenderà ad astenersi dall’azione, a contemplare piuttosto che ad agire.
Ebbene, Faust rappresenterebbe proprio l’uomo moderno, conformista e ascetico.
Da un lato, come ho accennato, costui preferisce infatti conoscere piuttosto che avere delle donne, dall’altro, quasi contraddittoriamente, vorrebbe l’amore di Elena di Troia, che nella commedia viene presentata come la donna più bella di tutti i tempi.
Se l’uomo, anzi la vita (senziente) in genere, è femminea, tale tratto è esasperato nell’uomo moderno.
Innanzitutto nel Dottor Faust la spinta alla conoscenza non sembra rispondere ad esigenze vitali. Ovvero, l’uomo vuole conoscere per il puro gusto di conoscere. In altre parole la conoscenza cui aspira è fine a se stessa. L’uomo si evolverebbe nella direzione di un puro incremento di coscienza.
Credo che Marlowe concepisca due sole modalità d’azione. L’odio e l’indifferenza. Anche Marlowe avrebbe, in certo qual modo, una concezione radicalmente dialettica delle cose. Ma allora che si provi astio nei nostri confronti è l’unica forma di riconoscimento cui possiamo aspirare. Chi ci detesta ci conferisce valore, ci conferisce esistenza (almeno per lui, esistiamo. E nella filosofia scolastica l’essere e il bello coincidono). Ovvero tiene a noi. In fondo ci ama.
Tanto maggiore dunque è l’odio che qualcuno prova per noi, tanto più ci soffre, ovvero tanto più ci dà importanza. La sofferenza, provata empaticamente e simultaneamente dall’offensore e dall’offeso, è voluttà. Ci si gonfia. Tanti nemici, tanto amore (si potrebbe dire).
Perché l’uomo moderno è ascetico? Quando due persone che si attraggono hanno consumato l’atto sessuale, l’interesse che provano reciprocamente si affievolisce nell’una come nell’altra. L’uomo moderno è dunque particolarmente libidinoso, bisognoso d’amore.
Concludendo, si può affermare che Marlowe sia stato un ironico nichilista? In tal caso il Dottor Faust, più che una ridanciana commedia, è da considerarsi uno splendido esempio di teatro comico.
Marlowe informa il lettore che nessuno ce l’ha con lui. Niente infatti esiste (essendo quindi costui oggetto di indifferenza): né Dio, né gli uomini. Non deve cioè temere né giudizio e castigo divini per le sue azioni, né, in fondo, la severa e opprimente critica da parte della società per ciò che è e che fa. Faust avrebbe per alterego Robin il clown. Tale buffonesco e stolto personaggio della commedia è una nullità che si crede chissà cosa. Ma secondo Marlowe ogni uomo, senza saperlo, agirebbe gratuitamente, accidentalmente?
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