Prigioneri del silenzio

La più vivida descrizione dell’isola di Sant’Elena non la si trova nel maestoso Memoriale vergato sotto dettatura da Emmanuel de Las Cases, l’attendente che ha seguito Napoleone nel suo ultimo approdo, ma nella testimonianza in presa diretta che un reporter inglese contemporaneo, Simon Winchester, ha affidato alle pagine di una delle sue prose di viaggio più evocative.

Scrittore itinerante dal temperamento irrequieto e dalla prosa barocca, celebre per un tour de force di quattromila miglia lungo lo Yangtze che sarà lo spunto per quello che forse è il suo capolavoro, ovvero Il fiume al centro del mondo, rientrato in Europa inappagato, decide di assecondare nuovamente la sua vocazione omerica e, seguendo una rotta che dalle Faer Oer lo condurrà fino alle Falkland, ripercorre in nave le principali rotte dell’Atlantico, registrando strada facendo, con il piglio dell’antropologo di mestiere, impressioni, suoni, colori e profumi. Un percorso a ritroso sulla scia della memoria lungo il quale Longwood House è tappa obbligata.

Imbarcatosi a Portland sulla RMS “St. Helena”, un postale adibito anche al trasporto passeggeri, sbarca a Jamestown, capitale dell’isoletta sperduta al centro dell’oceano, dopo una settimana di navigazione. L’impressione che i suoi occhi ne ricavano, mentre la lancia si accosta lentamente al pontile, è quella di una scena bucolica uscita da un quadro del Settecento: lungo le mura turrite che danno accesso all’abitato si apre un arco sul quale campeggia ancora lo stemma della Compagnia delle Indie Orientali, scolpito nella pietra e dipinto di rosso, bianco e argento. L’unica strada percorribile, lastricata con cura, s’inerpica verso le colline tra due file ordinate di villette in stile coloniale immerse in un tripudio di iacarande, piante di lino e cespugli di bambù dai quali fanno capolino gigantesche testuggini pluricentenarie, che molto probabilmente erano già lì ai tempi di Napoleone. Poco o nulla sembra essere cambiato da quando il piccolo grande Còrso vi è stato esiliato dalle Potenze europee che, dopo averlo sconfitto a Waterloo, si sono spartite il mondo fingendo che nulla fosse accaduto. Il trascorrere delle ore a queste latitudini è così lento che, ironia della sorte, il tricolore francese svetta ancora, con beffarda aria di sfida, sulla dimora in cui il Prometeo incatenato ha trascorso i giorni amari del suo declino forzato.

Viene da chiedersi quale segreto moto dell’animo possa indurre uno scrittore ad intraprendere un viaggio senza dubbio avaro di comodità per recarsi in nave a Sant’Elena nel 2010. La risposta potrebbe risiedere, forse, nella particolarissima ermeneutica dei luoghi che, in ogni tempo, contraddistingue il microcosmo insulare: le difficoltà connesse agli approvvigionamenti, l’esercizio eroico di un’agricoltura di sussistenza costretta a contendere con fatica porzioni di terra coltivabile ad un ambiente poco propenso a concedere i propri frutti, le continue incursioni nemiche, hanno inoculato attraverso i secoli in coloro che risiedono sulle isole in pianta stabile una sorta di sindrome dell’assedio tale per cui il mare, lungi dall’essere avvertito come una via di comunicazione foriera di opportunità e dispensatrice di ricchezze, è invece vissuto, a livello di psicologia del profondo, come un limite invalicabile, un ostacolo che separa gli isolani dal consorzio umano trasformandoli in un ecosistema con regole proprie, irriproducibili altrove, la cui fragile specificità deve essere tutelata da ogni ingerenza esterna perché possa mantenersi inalterata. Le isole hanno quindi un’innata vocazione claustrale, sono il luogo privilegiato in cui gli spiriti inquieti possono fare perdere le proprie tracce, come accade al nostro Giovanni Battista Cerruti che nell’ultimo scorcio dell’Ottocento sceglie di voltare le spalle al mondo per vivere tra i cacciatori di teste del Borneo, e dove la società civile relega di norma gli indesiderati, gli indocili, i reietti.

Giunto sull’isola di Sachalin nel 1890 per visitare la colonia penale ivi istituita dallo Zar Alessandro II, Anton Cechov viene subito colpito dal silenzio lunare che incontrastato regna in questo luogo posto ai margini della Russia e costantemente flagellato dal vento gelido che giunge dal circolo polare artico. “Un silenzio assoluto cui ci si abitua subito” – scrive nel diario redatto in quei giorni uscito da noi presso Adelphi – “interrotto soltanto dal clangore ritmico delle catene, dall’eco della risacca e dal ronzio dei cavi del telegrafo: suoni che intensificano la sensazione di un silenzio di morte”. Suggestioni molto simili a quelle immortalate sulla carta da un altro scrittore, Paolo Zappa (1899 – 1957) il quale, provvisto di documenti falsi, il 29 settembre 1933 s’imbarca come infermiere sulla “Martinière”, la galera che, salpando dal porto di La Rochelle in Aquitania, trasporta a Saint Laurent de Maroni nella Guyana francese i detenuti condannati ai lavori forzati sulla famigerata isola del Diavolo. Un viaggio senza ritorno le cui liturgie sono scandite, anche in questo caso, dal ferreo rispetto della regola silenzio la quale, come ha scritto Carl Schmitt in Ex captivitate salus, consente di cogliere in tutta la sua estensione “la desolata vastità di un’angusta cella”. Per indole e predisposizione d’animo i due scrittori non potrebbero essere tra loro più diversi: Anton Cechov è un intellettuale puro, introverso, tormentato, animato da un senso del tragico che solo i Russi possiedono in quella particolare tonalità. Paolo Zappa, al contrario, è un fegataccio, coraggioso e sconsiderato, un avventuriero prestato alla letteratura che non esita ad arruolarsi in un reparto di marciatori della Legione Straniera per poter osservare in prima persona, documentandola, la repressione delle rivolte berbere nel Sahara marocchino. Nondimeno entrambi colgono, con sorprendente affinità d’intenti, la natura ultimativa, disperante, concentrazionaria dell’universo carcerario che accomuna all’insegna della medesima sorte sorveglianti e detenuti, uomini di legge e malfattori, aguzzini e contrabbandieri. Sulla scia di Anton Cechov, L’ergastolo navigante può essere letto come una sorta di trattato di psicologia criminale che anticipa le argomentazioni del Michel Foucault di Sorvegliare e punire. Un suppliziario diversamente dantesco che in definitiva vuole essere, anche, una ricognizione del dolere, una riflessione sui sentimenti e sui comportamenti di chi quei supplizi li subisce o li impone.

Paolo Zappa, L’ergastolo navigante, Oaks Editrice, Sesto San Giovanni, 2023; pag. 266 € 20,00.

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