In merito alle ultime disposizioni in materia scolastica che ci giungono da Palazzo Chigi, la prima cosa che ci viene da fare è rispolverare con spirito futurista il celebre pamphlet Chiudiamo le scuole di Giovanni Papini, e quanto sostenuto nel Manifesto del Futurismo da Marinetti & Co. contro la cultura accademica in genere. Quindi a fronte della “buona scuola” di Matteo Renzi e della ministra Giannini, l’unica vera buona scuola per noi sarebbe quella chiusa.
Ma si sa, non siamo più nell’Ancient Règime e l’istruzione di massa è uno dei capisaldi dell’ideologia illuminista e neo-illuminista che domina già da qualche secolo l’occidente. Lontani sono i tempi in cui durante un censimento voluto da Federico II di Prussia un nobile poté vantarsi d’essere “analfabeta per via dell’alta nobiltà”. Oggigiorno un esercito di maestrine dalla penna rosa invece ci obbliga a passare tra i banchi di scuola gran parte della nostra giovinezza, con il pretesto dell’alfabetizzazione di massa e il miraggio di elevarci socialmente attraverso lo studio.
Nella realtà dei fatti però le cose stanno diversamente e la scuola in quanto a garanzia di mobilità sociale e su molti altri punti si rivela sempre più una barca che fa acqua da tutte le parti. Certo, si è cercato di correre ai ripari: le riforme della scuola tese a puntellarla, se non proprio a rattopparla, ormai non si contano più. Dal ventennio fascista ad oggi saranno state sette o otto e tutte piuttosto che migliorare il sistema scolastico, l’hanno peggiorato.
Ma partiamo per gradi, agli albori del secolo scorso il filosofo Giovanni Gentile, nel saggio Il concetto scientifico di pedagogia, avvia una rifondazione in senso idealistico della pedagogia, che sarà attuato nella famosa riforma del sistema scolastico che appunto dal filosofo prenderà il nome. Gentile afferma che l’oggetto specifico della pedagogia è l’educazione, diretta a “fare lo spirito”, identificando così la pedagogia con la filosofia. Per quanto riguarda i suoi contenuti culturali, la scuola che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è legata alla tradizione umanistico-letteraria. Relativamente alla sua organizzazione, essa è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Si tratta di una scuola aristocratica, pensata per gli “studi di pochi, dei migliori”, e suddivisa per quel che riguarda il livello secondario, in un ramo classico-umanistico per preparare le future classi dirigenti e in uno professionale per avviare al lavoro manuale e meccanico.
La riforma Gentile, come sappiamo si è attirata gli strali della cultura progressista che la accusava di essere fautrice di un tipo di cultura nozionistico, distante dalla prosaicità della vita quotidiana. Con questi presupposti, e con il pretesto che la scuola gentiliana difendesse un tipo di società patriarcale e padronale, con il ’68 le si sono inferti colpi mortali, così studenti ed insegnanti hanno protestato, scioperato, manifestato, sino a condurre la scuola alla situazione in cui ora versa.
Si è protestato negli ultimi anni contro i ministri dei governi di centro-destra, accusati di voler riportare in auge l’antico regime gentiliano, fatto sta che la scuola italiana continua ad essere inadeguata alle esigenze dei ragazzi, sempre più in difficoltà nel trovare un posto nella società e nel mondo del lavoro una volta usciti dalle mura degli istituti scolastici.
Tante e gravi sono le pecche dell’odierno sistema scolastico: si può innanzitutto dire che ad un tipo d’insegnamento di carattere qualitativo se ne è sostituito uno quantitativo, si è di fatto sostituita la memoria all’intelligenza in una concezione della cultura puramente verbale, che di fatto rimpinzando il discente di concetti non tenta di spiegare la loro connessione e le loro conseguenze. Altro che nozionismo gentiliano, almeno il modello gentiliano che prediligeva un tipo di cultura umanistico, fondato sui classici, riusciva nel dare una visione d’insieme della cultura e della vita. Ciò unito all’osservanza cieca di quello pseudo-principio rappresentato dall’uguaglianza, ha fatto sì che ad ognuno fossero impartiti gli stessi insegnamenti, e che si finisse col pretendere di insegnare a tutti applicando lo stesso metodo, in una completa ignoranza delle naturali differenze insite in ognuno. Poi, la credenza diffusa che tutti, per il solo fatto di desiderarlo possano ascendere socialmente, ha fatto sì che molti studenti con pochi mezzi intellettuali, e magari anche pochi mezzi economici, fossero spinti dalle loro famiglie e dai loro insegnanti a continuare gli studi controvoglia, a causa di un malcelato arrivismo diffuso dalla propaganda progressista.
Questo appiattimento sociale, unito alla meccanicizzazione del sapere, il “calcolo senza pensiero” come ebbe a definirlo Martin Heidegger, ha condotto molti giovani ad intraprendere strade errate, non confacenti a ciò che intimamente è la loro reale vocazione, e a quelle che sono le loro necessità sociali, pur di aderire ai diktat del mercato richiedenti oggi più che mai una mercificazione del sapere, di un sapere, per altro, che non è più sapienza, ma al massimo mera erudizione, un sapere che non mira a creare uomini padroni delle proprie conoscenze, ma automi in serie da sfruttare come materiale umano.
Ecco che molti giovani brancolano nel buio, non avendo sane linee guida da seguire per affrontare le dure prove della vita, questo unito all’imperante pensiero debole, che tende ad abolire ipocritamente ogni differenza, ha creato intere generazioni di uomini sviati, senza più valori, e succubi di un mondo che ha eretto ad unico discrimine il successo economico. Che per altro per la gran massa degli studenti, diplomati e laureati, si rivela un vero e proprio miraggio, tant’è che i molti titolati piuttosto che star meglio dei loro genitori o dei loro nonni, i quali all’età in cui loro discutono la loro brava tesi di laurea erano già belli e sistemati, versano in una condizione di cronico precariato. Ma lo spirito del nostro tempo è quello ben sintetizzato dal rapper americano 50 Cent: “Get rich or die tryin”, (Diventa ricco, o muori provandoci).
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