Nato nel 1868 ad Aalst, nelle Fiandre Orientali, Franz Cumont fu archeologo e filologo fra i più insigni del suo tempo, capace di esercitare un’influenza determinante sulla moderna scuola di storia delle religioni attraverso studi fondamentali, in specie quelli dedicati alla diffusione dei culti orientali nell’impero romano. Fondante la sua opera dedicata ai Misteri di Mithra, che attirò l’attenzione anche di Julius Evola.
Di formazione internazionale, molto risentirà sia della peculiare “civiltà della conversazione”, che ebbe il suo apice nella cultura francese, che della grande tradizione filologica tedesca; studioso fervido e appassionato di Roma antica, Cumont ebbe a coltivare un forte legame anche con il nostro Paese: amico di Maria-José del Belgio, futura regina d’Italia, era solito fare con lei lunghe passeggiate per le rovine dell’Urbe e fu assiduo frequentatore del salotto culturale di Ersilia Caetani Lovatelli, prima donna ad entrare a far parte dell’Accademia dei Lincei e amica di Gabriele d’Annunzio e Theodor Mommsen.
Contribuirà alla redazione di numerosi studi di carattere enciclopedico e si adopererà in molte “ricerche sul campo”: importanti i suoi viaggi in Turchia, Armenia, Ponto e quello effettuato durante la difficile congerie politica e culturale entre-deux-guerres sulle rive dell’Eufrate, a Dura-Europos, sito che per il suo ottimo stato di conservazione il suo amico e collega Rostovtzeff non esiterà a definire una “Pompei del deserto”.
La sua concezione laica dell’esistenza non gli impedì di interessarsi, da un punto di vista scientifico, all’astrologia, dalla predominante cultura positivista del tempo ritenuta niente più che una aberrazione infantile non degna di analisi, mettendo in luce attraverso i suoi studi quanto essa avesse invece molto a che vedere con la scienza e fosse alla base di molta parte della letteratura greco-romana, in alcuni casi inintelligibile senza fare ricorso alle sue concezioni.
Fra le pratiche cultuali di cui il filologo belga ebbe ad occuparsi, una delle più interessanti è certamente quella del taurobolium, di cui è stata di recente edita da Aragno la prima traduzione in lingua italiana dello studio ad essa dedicato. Originario dell’Asia Minore, il rito del taurobolium si diffuse a Roma a partire dal II secolo d.C., consistendo in un cruento rito sacrificale che prevedeva l’uccisione di un toro, al cui sangue versato erano attribuite virtù redentrici. Riporta il cristiano Prudenzio che colui che vi si sottoponeva era acclamato dalla folla dei fedeli come “rinato in eterno”.
Il taurobolio fu connesso a Roma al culto della dèa Bellona, divinità che nella mitologia romana incarnava la guerra nella sua più elementare, basica realtà, e la cui iconografia dal genio dei poeti antichi fu assimilata a quella delle Furie.
La parola greca composta da ταῦρος “toro” e βάλλω “colpire”, da cui la parola tardo-latina taurobolium, indicò nel mondo greco-romano un culto in cui un devoto veniva introdotto in una sorta di cella sotterranea (fossa), coperta da un pavimento di legno a graticcio, mentre un sacerdote sacrificava un toro proprio al di sopra del graticciato, in modo tale che il sangue della vittima scorresse sul devoto, che sotto attendeva di essere irrorato da quella pioggia di sangue cui si attribuivano virtù purificatrici, redentrici, rivitalizzanti.
Il rinvenimento di alcune immagini su altari connessi al taurobolium (si ricordi quelle rinvenute su altari a Lione o ai resti del Frigiano vaticano che sorgeva proprio dove ora c’è la Basilica di San Pietro), pur senza darci una chiara rappresentazione dell’atto del sacrificio e del “battesimo”, ci forniscono alcune informazioni riguardanti l’apparato cerimoniale utilizzato. Apprendiamo, ad esempio, come l’arma impiegata per immolare la vittima fosse una spada corta e appuntita, a doppio taglio, con una punta ritorta ad uncino. Tale particolare conformazione permetteva che una volta conficcata nel petto della vittima, la manovra che il victimarius doveva praticare per estrarla, andasse ad allargare la ferita, determinando così una più veloce e violenta fuoriuscita di sangue.
Ma la cerimonia del taurobolio, che godette di così sorprendente seguito durante il declino del paganesimo, non è degna di nota solo per la somiglianza delle speranze che suscitava con certe credenze cristiane. Si tratta di un prodotto molto caratteristico di quelle religioni orientali, dove le rozze tradizioni, sopravvivenze di un barbaro passato, furono poste al servizio di una teologia molto avanzata: nella fattispecie quella dei Magi persiani. Il rito in sé è un bagno di sangue che ricorda un’orgia di cannibali; la sua presunta efficacia risponde alle più alte aspirazioni dell’uomo verso la purificazione spirituale e l’immortalità.
Franz Cumont, Il taurobolio e il culto di Bellona, a cura di Giovanni Balducci, Aragno, Torino 2023, pagg. 93, 13 euro.
paolo martinelli
Ci sono connessioni anche con il mitraismo?