L’iconografia di Santa Claus e il significato delle feste invernali

Chi non è familiare con la figura di «Santa Claus», l’affabile vecchio vestito di rosso che ogni anno ritorna con la sua slitta trainata da renne[1] e un seguito di elfi, dispensando atti di bontà e scaldando i cuori durante il periodo del solstizio invernale? Assistiamo alla sua comparsa nelle feste di piazza per bambini, nei grandi centri commerciali, e in molte produzioni cinematografiche hollywoodiane, che ne fanno un’icona mediatica. Calcata sulla figura del «Sinterklaas»[2], giunta nel Nuovo Mondo con le migrazioni europee del XVII secolo, chiara “traduzione” olandese[3] del San Nicola di Bari[4] (Sanctus Nicolaus)[5], anche nota in altre parti del mondo – quale sorta di «universale fantastico»[6] – come Niklaherr o Sanda Klaus in contesto germanico, Père Noël nei paesi di lingua francese, Ded Moroz (“Nonno Gelo”[7]) in Russia, e Papá Noel in Spagna[8], chi sospetterebbe mai che dietro il suo sembiante bonario si celino aspetti poco chiari se non addirittura inquietanti?[9]

Quella di «Santa Claus» è in effetti solo l’ultima incarnazione di una figura che ha al suo fondo molteplici stratificazioni[10]: si è visto in essa infatti una tarda figurazione del dio Odino[11], al quale i figli degli antichi Germani erano soliti lasciare nottetempo i loro stivaletti alla finestra ripieni di foraggio per sfamare Sleipnir, il suo focoso cavallo a otto zampe (antenato della slitta di Babbo Natale, trainata da otto renne) in cambio di doni; altre ipotesi la collegano, sempre nell’alveo della mitologia norrena, a Thor, altra divinità vestita di rosso e con la barba bianca che viaggia sul suo carro trainato da capre; mentre l’etnologo Arnold van Gennep vide in lui una sopravvivenza del dio celtico Gargan, figura munita di cappuccio e stivali; in Svizzera troviamo un «Babbo Natale» vestito di rosso in compagnia della figura femminile di Santa Lucia, a volte rappresentata come la sua sposa, tradizione in cui è possibile rinvenire un’eco dell’antichissimo culto del «dio della vegetazione»[12]. E ancora: la si è posta in relazione con quella di Hellequin[13], il mefistofelico cacciatore nonché rapitore di fanciulli, capitano della «masnada dei morti»[14] delle rigide e magiche notti invernali dell’Europa medievale; e la si è vista associare alla figura del Krampus del folklore germanico, di cui soprattutto l’Austria[15] conserva una persistente tradizione: questi è un essere simile ai Mamuthones della tradizione carnascialesca sarda, munito di due escrescenze cornee sulla fronte, di lingua a penzoloni e di un sacco che usa per portar via i «bimbi monelli».[16] La tradizione folklorica germanica pone, in alcune formulazioni[17], questa sorta di demone in compagnia di San Nicola, che cerca dapprima di ridurlo ai ferri, poi di redimere costringendolo, per fare ammenda, a passare di casa in casa recando doni ai più piccoli. Dopo di che, convertito dal santo, il Krampus si unisce a una compagnia di elfi. In altre versioni, rinuncia al compito assegnatogli, tornandosene all’inferno nauseato dal dover esercitare tanta bontà.

Il moderno «Babbo Natale» è dunque un più o meno lontano parente di tutte queste figure e, ancora di altre e forse più inquietanti; come osservò Mario Praz in un articolo dedicato al folklore natalizio:

«i bambini fuggirebbero inorriditi alla sua vista se sapessero di quale figura di terribile divinità egli è l’addomesticato discendente: nientedimeno che di Moloch, la divinità cananea e cartaginese il cui ardente ventre di bronzo divorava i bambini che gli eran sacrificati»[18].

Moloch non è che il Saturno-Baal o Baal-Hammon cartaginese, un dio cornuto a cui si offrivano sacrifici umani di bambini, assimilato dalla tradizione ebraica alla stessa figura di Beelzebub, il demoniaco “Signore delle mosche”; da questa antica quanto crudele tradizione si sarebbe poi sviluppata l’usanza romana di scambiarsi doni di piccole bambole (le cosiddette sigillaria), addomesticate effigi dei vetusti sacrifici umani[19].

Solo l’americano «Santa Claus» giunge ad indossare i panni più rassicuranti del generoso vecchio corpulento e rubicondo, pur restando, mutatis mutandis, come le sue poco raccomandabili precedenti incarnazioni, una figura chiave del processo di «inculturazione» dei piccoli, giudice vindice della loro condotta, del loro conformarsi o meno allo stereotipo di «bimbi buoni», futuri buoni borghesi.

L’avvicendarsi stagionale scandiva la vita delle antiche civiltà, secondo l’idea di un «tempo ciclico» e «qualitativo» per cui gli eventi celesti e atmosferici erano ritenuti strettamente connessi alle vicende umane. In questo modo di concepire gli avvenimenti, i “giorni della festa” erano visti come momenti di «sospensione del tempo»; ciò nei Saturnalia assumeva la forma di un «rovesciamento» – sebbene istituzionalmente controllato – dei «ruoli» e dell’«ordine sociale»[20]. Durante questo ciclo di festività religiose, dedicate al dio Saturno e alla mitica «Età dell’oro»[21], caratterizzate da grandi banchetti e sacrifici, ma anche dallo scambio di auguri e doni (strennæ), gli schiavi divenivano pro tempore uomini liberi e vi era l’elezione, designata tirando a sorte, di un «princeps»: sorta di caricatura dell’imperatore – un «re di Carnevale»[22] – cui erano assegnati «pieni poteri», che vestiva di rosso, colore degli dèi e dei re[23], e indossava una buffa maschera. In esso doveva vedersi la personificazione di una divinità infera, come Saturno o forse Plutone, cui era tradizionalmente attribuita la custodia delle anime dei morti ma anche la protezione dei campi e dei raccolti.

Si credeva al tempo che tali «divinità dei morti»[24], spuntate dal sottosuolo, si mischiassero per tutto il periodo invernale ai vivi; mentre la terra incolta era immersa in un mistico sonno, avvolta dalle brume, a causa della rigidità atmosferica. Dinanzi a tali divinità, il popolo riteneva necessario correre ai ripari, per placarle e convincerle a ritornare nell’Ade, mediante l’offerta di doni e celebrazioni in loro onore. In epoche arcaiche, al termine delle festività dedicate a queste divinità infere, si ricorreva persino al sacrificio dell’effimero re estratto a sorte, come tributo finale per assicurarne il ritorno ordinato nell’Ade.

A monte delle feste invernali e di fine anno, dai Saturnali al Natale, con tutte le sue figure – di cui San Nicola e Babbo Natale non sono che le più riconoscibili e vicine –, si celerebbe dunque un antico rituale di esorcismo, un atto coraggioso di sfida al “buio”, al “male” e alla “morte”: forze oscure che si annidano tanto nella natura quanto nell’intimo dell’uomo.

Essendo la coscienza arcaica immersa in un mondo dove il confine tra il “macrocosmo” della natura e il “microcosmo” umano si fondono, ecco emergere la pratica ancestrale di placare gli spiriti maligni attraverso l’offerta di doni, che diventa poi il ponte tra la fase “pre-sociale” dell’infanzia e l’ingresso nella “vita sociale” dei piccoli. È un’antica danza tra il mondo dei vivi e dei morti, un rituale di transizione che abbraccia la luce per sconfiggere l’oscurità, in cui emergono come protagonisti i “morti” e i “bambini”, in un connubio di opposti complementari.

Non dovrebbe sorprenderci una simile danse macabre, se riflettiamo sulla profonda radice delle antiche società umane, dove la fede nella “preesistenza” di un “principio spirituale prenatale” era robusta.

Note
[1] La renna è un tipico animale che denuncia le origini (parzialmente) nordeuropee di questa figura ed è tradizionalmente connessa alla dea Disa, la «Grande Madre» degli Scandinavi, oltre ad essere un simbolo lunare e ad avere il ruolo di «psicopompo».
[2] Sinterklaas è una figura di vecchio munita di un cavallo bianco, col quale vola sui tetti, e di aiutanti che si calano giù per i comignoli per portare doni ai bambini. Il collegamento tra questa figura e San Nicola è, oltre che dal nome, resa evidente dal fatto che la distribuzione tradizionale dei regali venga compiuta da Sinterklaas il 6 dicembre.
[3] Questo personaggio della tradizione germanica giunse in America assieme ai bastimenti olandesi, dunque prima dell’instaurarsi del dominio inglese.
[4] La tradizione riguardante San Nicola in Europa avrà a diffondersi con la traslazione delle reliquie del santo da Myra a Bari, ad opera di alcuni mercanti, nel 1087. Vescovo cristiano del IV secolo nella città di Myra, nella provincia dell’Impero bizantino della Licia, si narra che San Nicola rinvenne e riportò in vita tre fanciulli, che erano stati rapiti e uccisi, e per questo venne considerato come protettore dei bambini.
[5] Dal quale ebbe a ereditare gli abiti episcopali, come la cappa scarlatta e la mitra in capo.
[6] Concetto della filosofia di Giambattista Vico, per cui forme del vissuto divengono «immagini poetiche» di valore universale.
[7] Il personaggio russo di “Nonno Gelo” in origine parzialmente differiva dalla usuale iconografia moderna di «Babbo Natale», in quanto indossava un cappotto azzurro; inoltre egli ha per aiutante non un elfo ma la sua nipotina Sneguročka, possiede uno scettro di grandi dimensioni, la sua slitta è trainata da cavalli anziché da renne, porta i suoi doni il 31 dicembre e la sua dimora è ubicata nella cittadina di Veliky Ustyug, in Russia.
[8] In Spagna, ma anche in Linguadoca e Provenza, paesi dalla forte tradizione cattolica, il ruolo di «portatori di doni» viene anche attribuito ai Re Magi, che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio lasciano i loro presenti nelle case dove i bimbi hanno lasciato del cibo per rifocillare i cammelli dei Tre Re. In Italia tale ruolo, soprattutto a Roma e dintorni, spetta anche alla figura femminile della Befana, strega buona che giunge volando sul manico di scopa la notte dell’Epifania.
[9] Si pensi, a titolo di esempio, alla figura presente nella tradizione folclorica tedesca di «Pelznickel» o «Belsnickle» (Nicola Peloso), il quale va a trovare i bimbi cattivi nei loro letti, di cui una estremizzazione è costituita dalla figura del «Blackman», un uomo oscuro che uccideva i bambini nei sogni. Similmente, un altro fenomeno connesso all’infanzia, la “favola”, presenta sovente molteplici elementi raccapriccianti. Si pensi ai grandi favolisti francesi del Grand Siècle, tra i quali Perrault, che farà dell’occultista dedito ai sacrifici di bambini, Gilles de Rais, il suo Barbablù, o alle notissime fiabe dei fratelli Grimm, rielaborazione di antichissime tradizioni orali indoeuropee proprie del folklore dei popoli germanici, raccolte sotto il nome di Saghe germaniche, in cui è sovente rinvenibile del granguignolesco.
[10] Lévi-Strauss invita in tutti i casi a non cercare un’unica origine per «Babbo Natale», ma a vedere una fusione sincretica di numerosi miti, leggende e pratiche in una figura sempre dinamica Cfr. C. Lévi-Strauss, Le Père Noël supplicié, in «Les Temps Modernes», 77,‎ 1952.
[11] Ancora oggi, in alcune zone dell’area germanica, Babbo Natale o San Nicola viene rappresentato a cavallo e sotto le sembianze di un fiero vecchio barbuto dall’espressione enigmatica. Odino e San Nicola differiscono solo in quanto il dio era orbo.
[12] A parte quella di «Babbo Natale», anche un’altra tradizione del periodo natalizio, di contesto anglosassone, può certamente ricondursi al mondo romano arcaico: quella del «pettirosso», che compare sulle cartoline di auguri natalizi. Questi, riporta Praz: «non è che un sostituto dello scricciolo d’un’anteriore costumanza: quest’uccello si cacciava e uccideva il giorno di santo Stefano, e solo in quel giorno dell’anno. Dopo la caccia, il misero uccelletto era portato in processione per le strade, talvolta su una minuscola bara, e questa costumanza era a sua volta un surrogato del sacrificio umano, la morte del vecchio sacerdote-re, su cui il Frazer ha scritto il famoso testo di folklore, Il ramo d’oro». Questo re-sacerdote è il «rex nemorensis», di cui ebbe appunto ad occuparsi diffusamente James George Frazer. Il titolo di «rex nemorensis» veniva attribuito al sacerdote destinato a vigilare sul bosco sacro di Diana Nemorensis, situato sui colli Albani nei pressi del Lago di Nemi, in Lazio. La dignità di «re del bosco sacro» del sacerdote era strettamente connessa alla sua capacità di proteggere l’albero che gli era richiesto di sorvegliare ininterrottamente, i cui rami era severamente proibito spezzare. Questo albero era tradizionalmente insidiato da chi avesse ambito a prendere il posto del sacerdote, cosa concessa solo ad uno schiavo fuggitivo, al quale era consentito di staccare impunemente un ramo dall’albero sacro, ma che dopo aver compiuto questo gesto, secondo l’inveterata regola, avrebbe dovuto sfidare il «rex nemorensis» in un duello all’ultimo sangue per subentrargli. Frazer vide in questa tradizione una trasposizione del «culto della fertilità» sviluppatosi sia nell’antica Europa che in altre parti del mondo, che vedeva di fianco al culto di una dèa principale la figura di un «paredro» connesso ai cicli di morte e rinascita della natura. Secondo Frazer, il re-sacro rappresentava lo «spirito della vegetazione», il quale nasceva in primavera, regnava durante l’estate e moriva ritualmente dopo il raccolto, per poi ripullulare nel solstizio d’inverno. In tal senso ebbe ad interpretare divinità quali Osiride, Adone, Dioniso, Attis e altre figure consimili di dèi che muoiono e risorgono delle antiche mitologie.
[13] Dal germanico «Hölle König», letteralmente «re dell’inferno».
[14] Il più antico riferimento scritto alla «masnada di Hellequin» è rinvenibile nella Historia ecclesiastica di Orderico Vitale, scritta tra il 1123 ed il 1137. La tradizione parla di un «exercitus mortuorum», guidato da un gigante a cavallo di nome Hellequin, forse trasposizione medievale di Odino. «Caccia selvaggia», «caccia infernale», «masnada di Hellequin», «processione dei morti», furono tutti nomi che stettero ad indicare questo fenomeno.
[15] Ma questa figura è diffusa anche nel Tirolo e in Alto Adige.
[16] Nella stessa Austria c’è la tradizione di preparare dei biscotti dalla forma di omuncoli chiamati con questo nome: gli «Spitzbuben», letteralmente bambini o ragazzi monelli.
[17] Una simile tradizione è rinvenibile in Olanda, ma qui il santo è accompagnato dal personaggio di «Zwarte Piet» (Pietro il Nero), omologo del nostro «Uomo nero», un Moro che minaccia di picchiare i bambini con una verga e di portarli con sé nella Spagna moresca.
[18] M. Praz, Candele a pranzo, in Id., Geometrie anamorfiche. Saggi di arte, letteratura e bizzarrie varie, a cura di G. Pulce, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 166.
[19] Questo nel contesto delle feste dei Saturnalia.
[20] Esiodo nelle Opere e i giorni scrive di una degenerazione delle epoche umane, dall’«Età dell’oro» – l’«Età di Saturno» – all’«Età del ferro». Nei primordi sussisteva un’età felice in cui l’uomo era in perfetta simbiosi con la divinità e non aveva bisogno di lavorare perché il cibo gli veniva offerto spontaneamente dalla natura. Nell’«Età del ferro», l’uomo comincia a delimitare la proprietà, nasce la proprietà privata, nascono le guerre, le rivalità, le navi vengono utilizzate per il commercio e per le guerre, e c’è una decadenza che assume la fisionomia della degenerazione nei rapporti di parentela.
[21] Si svolgevano tra il 17 e il 20 dicembre, giungendo sino al 24 in età imperiale. Questo periodo può certamente mettersi in rapporto con i giorni che intercorrono tra il solstizio di inverno e il Capodanno, o tra la notte del 24 dicembre e quella del 6 gennaio, oggetto di una persistente tradizione cui ebbe a fare riferimento lo stesso Shakespeare ne La dodicesima notte e in cui l’antropologo Arnold van Gennep ha potuto rinvenire un «non tempo» in cui la quotidianità è «sospesa». Durante questo «ciclo dei dodici giorni» verrebbe ad instaurarsi un rapporto particolare tra i vivi e i morti, rappresentato dalle numerose tradizioni che vedono la comparsa di vari personaggi singolari tra cui la cosiddetta «Befana», che giunge a recare doni ai bambini proprio durante la «dodicesima notte» dopo il Natale, quando i Romani celebravano «Anna Perenna», personificazione del perpetuo rinnovarsi dell’anno dopo la crisi del solstizio e il seguente periodo di «interregno» e «sospensione temporale» delle feste invernali, cui seguiva gennaio, il mese dedicato a Giano, dio delle «porte» e dei «passaggi», rappresentato come «bifronte», con una faccia rivolta al passato e un’altra con cui scruta il futuro.
[22] Ciò si è tramandato nell’Europa medievale, in cui era consuetudine durante il periodo natalizio che dei giovani eleggessero il loro “abate” – l’Abbas Stultorum – il quale presiedeva a ogni tipo di comportamento trasgressivo che veniva temporaneamente tollerato dalle autorità civili ed ecclesiastiche. Figura nota in Francia anche come Abbé de la Malgoverné e in Inghilterra come Lord of Misrule.
[23] Nell’antica iconografia di Babbo Natale il suo «ruolo regale» è molto più evidente. Ad esempio, nella vecchia Inghilterra, indossava sul capo una ghirlanda di agrifoglio.
[24] Saturno stesso, dio dell’«Eta dell’oro», ma anche divoratore dei suoi stessi figli, ha il suo omologo nella divinità indiana del tempo e dei morti Yama, il «primo morto», signore del mondo infero, deva preposto al controllo e al trapasso delle anime da questo mondo all’altro, di cui si afferma: «in verità Yama è la morte. Egli si accinge a divorare tutto» (Jaiminīya-Brāhamana, I, 28). Gli è quasi identica, tra le altre, la figura dell’Ymir norreno.

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  1. Helmut Lazina
    | Rispondi

    Hinter all diesen durchaus zutreffenden Bemerkungen sollte die historische Figur des hl. Bischofs Nikolaus von Myra nicht in Vergessenheit geraten. Im katholischen Raum trägt die Figur die Insignien eines katholischen Bischofs (Mitra, Bischofsstab, Stola, Rauchmantel).
    Im nördlichen Teil Europas wurde mit der Reformation die Figur aller katholischen Attribute entkleidet und säkularisiert und verschmolz mit autochthonen Elementen zum “Weihnachtsmann” etc. Allerdings hielt sich trotz abgeschaffter Heiligenverehrung die Bezeichnung “Santa Claus”, obwohl dort vermutlich kaum noch jemand dabei an den hl. Nikolaus v. Myra denkt.

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