Proiettando l’anima sulle immagini di un grande Vico

Quello che Ernst Jünger proponeva per uscire dall’aria soffocante del materialismo e del razionalismo moderni, cioè il pensare per immagini, l’affidare al simbolo e all’intuito la potenza della mente umana, lo descrisse duecento anni prima Giambattista Vico: un sistema semidivino di comprendere il mondo.

Si trattava di guardare le cose in grande. Pensare la storia come una gigantesca rappresentazione. Creata e mossa dalla capacità umana di dare vita alla ricchezza dell’immaginale. Nel bel mezzo del secolo razionalista, nel punto di collegamento fra Cartesio e l’Illuminismo, Vico diceva che è la fantasia a stabilire ciò che è reale. La sua fu propriamente una contro-cultura, che faceva delle origini, anzi dei primordi dell’essere e del sapere, la fonte dell’identità dell’uomo. Isaiah Berlin, che studiò a lungo Vico, sottraendolo all’oblio a cui era stato condannato dalla modernità, e che lo considerò come l’Herder italiano, cioè colui che aveva riscoperto le radici del popolo, scrisse che «Vico tenta di ricostruire i mondi, da lungo tempo perduti, dei miti». E questi miti, ricchi di metafore e simboli, non erano frutto di invenzione, ma rappresentavano la storia dell’uomo, il potere, i cambiamenti: erano dunque immagini reali e veritiere.

Geniale analista della lingua come codice di segni, Vico vide nella capacità poetica dei popoli la loro prima struttura di comunicazione. L’uomo primordiale aveva poteri sconosciuti a quello moderno: dava vita ad ogni cosa del mondo, costruiva metafore, animava le parole, indicava significati nascosti. Gli antenati “antidiluviani” erano guidati da un sapere superiore, da una élite di sapienti che custodiva quel patrimonio di cultura popolare (poemi, ballate, oracoli, leggende) che è andato perduto per l’insipienza materialista e per la degenerazione delle epoche razionaliste. Secondo Berlin, proprio questa capacità di Vico di riconoscere la qualità segreta del popolo, al quale riconosceva di possedere un’identità esoterica, costituisce il maggior titolo di originalità di Vico, che anticipò di parecchio gli attuali linguisti, semiologi e antropologi. La sua fu una visione differenzialista dei popoli, in base alla quale di ognuno si poteva riconoscere l’anima interiore, secondo quel Volksgeist, quello spirito popolare che parlava attraverso il mito, e che la cultura romantica ottocentesca riscoprì in chiave di patrimonio popolare e nazionale.

Soltanto da pochi decenni questa straordinaria figura di isolato visionario che fu Vico è stata portata alla conoscenza della cultura mondiale, divenendo ormai un paradigma della via intuitiva alla conoscenza storica. Sorta di Spengler del XVIII secolo, Vico concepì la storia come un succedersi di fasi, in cui la civiltà si dava strutture via via sempre più regressive, secondo la celebre formula ternaria delle età dell’uomo: da quella divina a quella eroica a quella umana. Entro questo disegno, ciò che viene illustrato è la folgorante capacità dell’uomo delle origini di convivere col sacro e di pensare il mondo secondo categorie collettive, così da dar corpo, nel vero senso della parola, a tutte le cose: agli dèi, alle sensazioni, agli stati d’animo, alle energie di natura.

Oggi un libro di Stefano De Rosa, Vico precursore della nuova storia. Tre secoli di visioni geo-temporali, pubblicato dalle Edizioni Settimo Sigillo, contribuisce ad allargare la visuale sul pensatore napoletano, fornendo delle importanti precisazioni a proposito del gran numero di problemi che Vico affrontò per primo e in maniera straordinariamente lucida. Ciò che De Rosa intende segnalare è tanto la capacità della filosofia vichiana di incidere su orientamenti di storiografia e di riflessione per così dire ufficiali – come la francese Ècole des Annales che fu di Marc Bloch e Lucien Febre, oppure la “teoria delle catastrofi”, che interpreta vichianamente la storia universale in chiave di accadimenti epocali – quanto la sua eccezionale capacità di affondare lo sguardo nelle cose profonde, quasi dall’interno. Così che proprio Vico è stato considerato, ad esempio dallo junghiano James Hillman, come un anticipatore della psicologia del profondo. Il ricorso della moderna psicologia junghiana alla concettualizazione di categorie mitologiche, come di archetipi della mente umana, non è che un riflesso dell’intuizione vichiana in base a cui i miti degli dèi erano tutti incardinati sulla personificazione di immagini presenti nella maniera umana di ragionare e di immaginare: «In numerosi passaggi della Scienza Nuova, Vico presenta alcuni tipici aspetti della mente umana sotto forma di universali fantastici o di immagini universali come il mito», precisa De Rosa.

C’è da dire che Vico definiva l’immaginativa dell’uomo come universale, comune cioè a tutte le culture. Ma, nondimeno, attribuiva ad ogni cultura un suo aspetto, una sua struttura, tanto che egli parla diffusamente delle diverse nazioni gentili come di contesti in cui i medesimi concetti possono avere significati diversi. Non solo. Egli ravvisò la diversificazione anche all’interno dei popoli. Ad esempio, quanto sottolineato da Nicola Baldoni, che in Vico si trova la descrizione del diritto naturale come padronanza degli arcana iuris – i simboli del potere – da parte delle élites dominatrici, fondate sulla gestione della forza del diritto. Oppure, come rilevò anni fa Gianfranco Cantelli, in Vico troviamo una consapevolezza quasi razzialista di una duplice natura umana: quella divina, nobile ed eroica, e quella sub-umana, servile e volgare: due progenie, quella figlia di Giove, creativa e dominatrice e questa figlia della selva, ferina e abbrutita, formata dai fàmoli, creature semibestiali ignare di mito, di linguaggio, di poesia. E medesima natura ignobile viene attribuita a coloro che Vico chiama gli empi vagabondi, esseri «che sono ancora dei non-uomini». Il disegno macro-storico di Vico, che giustamente De Rosa inquadra nella storiografia comparata di cui il filosofo fu anticipatore, comporta anche una diversa nozione di tempo, per cui si ha la prefigurazione della diacronicità dei tempi storici: ogni cultura ha i suoi ritmi di sviluppo, i suoi stadi che non necessariamente coincidono. Di qui deriva la contestazione della linearità progressiva della nozione di tempo – tipica del cristianesimo e di ogni idea finalistica della storia – e di qui deriva anche la sensibilità per il relativismo in base al quale forze impersonali (il popolo, la tradizione, la storia) decidono gli eventi. Ciò che, come sottolinea De Rosa, implica «la critica all’unidirezionalità dello sviluppo sociale ed economico», che Vico riferiva ad esempio alla conquista del Nuovo Mondo. Abbattuta la categoria-tempo che appartiene alla mentalità progressista, si capisce che si apre la strada per la nozione ciclica della storia: l’origine primordiale può dunque essere ancora un destino. Un’idea con implicazioni potenzialmente rivoluzionarie. Che dobbiamo a Vico.

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Tratto da Linea del 7 marzo 2010.

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  1. Simon Friedrich
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    Bello che avete citato Ernst Jünger all'inizio del articolo. Infatti, il protagonista di Eumeswil (Martin Venator) ha un maestro che si chiama Vigo, anche lui °isolato visionario°, che quasi sicuramente era ispirato dalla figura di Giambattista Vico.

    Simon

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