Nel secolo XX il culto degli eroi ha conosciuto la sostanza di una vera religione pagana, rinata inopinatamente tra le maglie della società profana di massa. Anche se a volte necessariamente adattato alla pratica cristiana, anche se circonfuso qua e là di annebbiamenti o necessarie concessioni modernistiche, questo culto ha significato un’autentica riemersione di valori tipicamente pre-cristiani. Parliamo del nazionalismo popolare ed etnico, quello che in Italia si rifaceva alle migliori istanze del Risorgimento mazziniano di popolo e che, ad esempio in Germania, rientrava nel filone romantico e hegeliano: altra cosa dalla semplice idea di nazione liberaldemocratica di matrice anglosassone, che è sfociata nel generico patriottismo.
Dopo la Prima guerra mondiale, in virtù delle enormi perdite subite dagli eserciti europei, si sviluppò una mistica della morte eroica che andava dai sacrari ai monumenti, dai cenotafi ai bracieri votivi, dai solenni onori cerimoniali alle tombe, fino al pressoché costante abbinamento con la figura della madre, generalmente associata alla madre-patria (termine, di cui certo non sfuggirà la valenza androginica), ripetendo il tema della terra che accoglie pietosa le spoglie dei suoi figli caduti. George L. Mosse ha lungamente analizzato questa religione civile moderna, che ben presto si saldò all’ideologia nazionalista dei vari fascismi europei.
La figura materna, in questi contesti, era una costante: la madre del soldato, in particolare, divenne la santificazione del sacrificio come offerta dolorosa, ma serena della propria carne. Il suolo della nascita e il sangue versato dal combattente divennero due realtà inscindibili. In questa religione dell’eroe, il culto del Milite Ignoto si integrava in sacrari di marcata evocazione come i cimiteri di guerra, i monumenti ai Caduti, i Parchi della Rimembranza o edifici come il nostro Altare della Patria, pensati tutti in stretto contatto con la figura materna. Fu ad esempio la madre di un caduto nella Grande Guerra a scegliere la bara del soldato ignoto da deporre nel sacrario del Vittoriano, dopo un lungo viaggio mistico da Aquileia a Roma: si poté vedere la bara, montata su una carrozza di treno aperta, indurre al suo passaggio ali di popolo ad inginocchiarsi come davanti a un nume, a una divina spoglia protettrice. Simili liturgie di sacralizzazione appartengono, con ogni evidenza, ad una cultura pagana che seppe rinnovarsi con immutato vigore non solo tra minoranze colte, ma soprattutto nel popolo, in una specie di riemersione dal profondo di una pietà che riappariva intatta da tempi antichissimi.
Fu certo il trauma violento provocato dal contatto con le dimensioni gigantesche della guerra e della carneficina, a provocare questo risveglio collettivo della devozione verso l’eroe, la guerra e la morte in combattimento. Ma fu certo anche il fatto che, al di sotto della cultura in genere e di quella popolare in particolare, non si erano mai spente alcune faville, cui sarebbe bastato il contatto con avvenimenti incisivi per divampare di nuovo. Ma, più ancora, crediamo che alle spalle di questi fenomeni agisse la forza intima del moderno nazionalismo di saper muovere corde ataviche, enigmaticamente riemergenti in società altrimenti già fortemente dissociate.
La sacralizzazione del caduto in battaglia era un omaggio al valore comunitario dell’offerta, era una controtendenza rispetto all’individualismo crescente della società moderna, e riproponeva temi e modi appartenenti agli antichi culti pagani dell’eroe e del guerriero. Che in Grecia, a Roma e nella società germanica erano al centro del solidarismo di comunità. L’amore del soldato per la propria madre, costantemente associata alla Patria, rimanda direttamente all’arcaica filiazione tra Uomo e Nascita, tra Eroe e Suolo, bagnando il quale col proprio sangue si celebra il mistico sposalizio tra il popolo e la sua terra. Noi, in Italia, abbiamo casi un tempo famosi – oggi completamente dimenticati – di poeti-soldati che fecero del loro legame con la madre, in quanto simbolo della Patria, il significato più interno della loro offerta volontaria al combattimento e all’olocausto. Si prenda Giosuè Borsi, poeta e drammaturgo, arruolatosi volontario e caduto al fronte nel 1915, la cui opera è tutta un inno religioso al sacrificio e al rapporto di viscerale intimità con una madre trasfigurata nel destino. La figura materna venne da lui mitizzata con accenti di una religiosità nazionalista, che enfatizzava i simboli dell’identità andando molto oltre i normali toni del languore filiale o del semplice sentimentalismo patriottico.
La salma di Borsi, ritrovata con indosso una copia della Divina Commedia lacera e inzuppata di sangue, parve riassumere, come meglio non si sarebbe potuto, il significato di prodigio eloquente, legato al dono della vita offerto per un’antica comunità di alta cultura, esaltando con tutti i crismi della sacralità il destino trasfigurante dell’eroe. E per tale venne avvertita e divulgata. Borsi, animato da un amor di Patria che definiva «sacro e furibondo», fu il tipico rappresentante di quella centuria di ferro costituita dai soldati volontari caduti in guerra, la cui memoria il Fascismo fece propria, inserendola nell’ideologia dell’eroismo e dell’azione guerriera, in qualità di aristocrazia scelta del popolo. Borsi, sebbene cristiano, lo era in modo evidentemente tutto particolare, se Massimo Bontempelli, ricordandolo nel 1941, scrisse che il «ragazzo pagano che s’era creduto un assetato di gioia e di vita, si trovò naturalmente e ingenuamente avvolto nelle sfere più oltremondane del misticismo».
Oppure, ricordiamo quell’altra nobile figura di poeta-soldato che fu Vittorio Locchi, morto nel 1917, che partecipò l’anno precedente alla cruenta battaglia per la presa di Gorizia, di cui fece un epico episodio di volontà eroica nello sfidare la morte con animo imperturbabile e sereno. Egli fu autore di un poemetto sulla Sagra di Santa Gorizia, piccolo capolavoro ai tempi famoso, in cui la città irredenta appare con i tratti dell’amante prigioniera di un mostruoso nemico, quasi un drago. Essa infine, dopo aver tanto bramato il suo sposo-liberatore, si offre nuda e fremente all’eroe e alle nozze di sangue, in uno spasimo di fusione erotica che è prossimo alle estatiche visioni della mistica medievale: «Amore, amore dolce, mi vedi? Amore dolce, mi senti? – chiede l’amata – Quanti tormenti ancora, quanti tormenti prima degli sponsali?». È un misticismo di visionaria trance guerriera, che certo rinnova esplicitamente gli arcaici connubi di Eros e Thànatos. Ed è in un trionfo di celebrazioni al benigno destino, alla vita che vince la morte, alle armi che liberano lo spirito, che avviene alla fine l’apoteosi trasfiguratrice dell’unione tra la città-femmina, finalmente liberata, e il vittorioso guerriero liberatore.
Altrove, sempre in Locchi, è la terra stessa nel suo insieme, come dimora del popolo da difendere ad ogni costo, ad esser vista sotto la forma della sposa e amante, muta, fedele e paziente, adorna di ogni virtù: e allora sarà il soldato caduto a faccia in giù, con la bocca riversa a contatto con la terra, come in un ultimo bacio di passione, a rappresentare plasticamente l’arcaicissimo tema dell’unione fisica tra l’eroe, che versa il suo sangue, e la sposa-terra, il cui grembo è irrorato come in un atto di sacra fecondazione: seme di sangue, secondo la mistica tellurica pagana legata alla fecondità e alla genealogia, quale fu ripresa anche da Tertulliano. In Locchi si ritrovano temi e tipi del classico nazionalismo moderno – ma che attingevano all’epica o alla prosa degli storici greco-romani – nel dipingere il proprio sacrificio come fatto nel nome mitizzato di una civiltà superiore.
Anche in area germanica si sono avuti esempi del genere. Quando i romanzi di un Walter Flex si aprono a scenari in cui, ad esempio, i morti sui campi di battaglia potevano essere risvegliati affinché contribuissero al riscatto della nazione dei vivi (esatta trasposizione dell’arcaica concezione che gli eroi morti si destano dalle tombe per soccorrere i discendenti del loro popolo), o quando si narra della vedova di guerra che si suicida per il dolore, e che viene resuscitata dopo aver incontrato la schiera dei soldati caduti, si hanno quelle situazioni in cui la gloria del martire ricopre il ruolo di un anello di ferro che stringe la catena dei vivi e dei morti, facendo di questi ultimi altrettante presenze numinose tra i viventi, in non poca assonanza con la mentalità antico-pagana. È proprio Mosse, infatti, a ricordare che, nella devozione tedesca per i caduti della guerra 1914-1918, si trova l’idea della «catena d’oro che univa il cielo, i vivi e i morti in un’unica fratellanza germanica», esattamente allo stesso modo in cui Tito Livio e molti sapienti dell’antichità avevano detto esser avvinti il cielo e la terra dalla catena dell’essere. Quando, come ad esempio al termine del romanzo di Hans Zöberlein Fede nella Germania, – pubblicato nel 1931, libro all’epoca celebre in Germania, sull’esperienza bellica della guerra 1914-18 – si afferma: «Io giuro davanti a Dio Onnipotente di non rimanere mai privo di fede, nella tempesta, nella battaglia, in guerra come in pace […] e infine: noi dobbiamo portare la luce in questo mondo oscuro», allora si ha tutta la percezione che l’esperienza di guerra, la Fronterlebnis, era sentita come una missione, una dimensione di fedeltà assoluta al popolo, oltre i confini della vita. Qualcosa che andava al di là della memorialistica ed anche delle crude descrizioni di tenacia guerriera, del tipo di Ernst Jünger o Ardengo Soffici.
L’architettura sacra dedicata ai soldati morti è un altro capitolo di questa rinascita del culto pagano degli eroi in epoca moderna. Ad esempio, i famosi Totenburgen, le severe fortezze dei morti, erano in Germania quei cimiteri di massa – «chiese panteistiche» le definisce Mosse – la cui conformazione estetica rimandava al cameratismo di guerra come fondamento della comunità nazionale. In questi edifici sacri c’era la volontà – erede dell’ideologia eroica pagana – di rendere evidente che l’eroe non è mai un individuo a sé stante, non è mai solo, ma è eroe di popolo, che da questo è nato e su di esso vigila. Aree sacre come gli Heldenhein, i boschi degli eroi in cui pietre e massi venivano disposti a ricreare la Urkraft, la potenza originaria del popolo, erano veri e propri testimoni del prevalere della comunità sull’individuo, secondo l’ideologia nazionalista. Questi spazi, come ha scritto Mosse, «non lasciavano alcun dubbio sul fatto che i morti in guerra erano non soltanto compagni d’arme, ma anche, e soprattutto, membri della nazione piuttosto che individui».
Tratto da Linea del 5 dicembre 2008.
Nerio
Dobbiamo fondare un culto nazionale degli Eroi e dei Santi Numi Vigilanti della Patria Immortale, trasponendo in chiave “neoclassica” ed “etnomistica” la venerazione dei Lari aviti e degli Angeli Etnarchi. Per far questo è necessaria la costituzione di un Ordine di Templari della Nazione (paragonabile al Khalsa dei Sikh) e una rete di santuari, ispirati, per quanto riguarda l’organizzazione pubblica al culto imperiale dell’antica Roma e per quanto concerne la struttura esterna, al tempio etrusco italico di Alatri.
Alere flammam et signa inferre usque ad mortem et ultra.