Nelle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, che costituisce l’opera poetica forse più nota di Gabriele D’Annunzio, pubblicata in cinque libri (il progetto ne prevedeva sette) nel 1903, il primo libro, Maia è la mitizzazione del suo viaggio in Grecia, da cui il poeta prende spunto per un’esaltazione panica della natura. Il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell’energia vitale ed un naturalismo pagano che fa ampio ricorso a riferimenti classici e mitologici. Ma c’è dell’altro.
Diverse sono le liriche famose dell’opera, come l’Inno alla vita, il Canto amèbeo della guerra, la Preghiera alla Madre Immortale, La quadriga imperiale, e L’annunzio. Proprio quest’ultimo componimento presenta particolarmente i tratti peculiari che accomunano il sentire dal poeta pescarese con la filosofia del “disvelamento dell’essere” sviluppata da Heidegger, e sinteticamente espressa in Che cos’è metafisica, del 1929, che costituisce una pubblicazione del discorso di apertura dell’anno accademico dell’università di Friburgo ove Heidegger ricoprì la cattedra come successore di Edmund Husserl.
Riprendendo i temi del precedente Essere e tempo, in questo contesto Heidegger descrive infatti il processo che, attraverso l’esperienza del Niente, porta l’uomo a una maggiore consapevolezza dell’esistenza, ossia a percepirne l’essenza, come Tutto magicamente esistente. Heidegger ebbe a parlare di una “comprensione media e vaga dell’essere” che, più che rivelare, occulta il fenomeno dell’essere. Innanzitutto, riteneva che la metafisica non presterebbe attenzione «all’avvenimento più degno di essere discusso, ossia al fatto che l’essere si schiude necessariamente al nostro comprendere». Così ci si dimentica dell’essere perché il suo concetto è ritenuto qualcosa di ovvio e di scontato. In maniera non dissimile da quella che si evince nelle cogitazioni del filosofo tedesco, il Vate pescarese scriverà ne L’annunzio della «Bellezza del mondo sopita», che si «ridesta» solo col canto dell’io poetante.
Ad Heidegger si deve l’aver mostrato il legame che unisce il velamento dell’essere alla volontà di potenza ed al nuovo senso della verità affermato dal mondo “romano – cristiano” che hanno condotto al tramonto la grecità originaria dell’Occidente. Inoltre Heidegger intende la vita quotidiana degli uomini come “deiezione”: essa è inautentica in quanto nella vita sociale ognuno non esiste realmente come sé stesso, ma vive sotto l’egida di un anonimo “Si” impersonale dettato dalle sovrastrutture (fedi, concezioni politiche, usi e costumi sclerotizzati), le quali imponendo una pre-comprensione del mondo, fanno sì che l’essere-nel-mondo dell’uomo si occulti ai suoi stessi occhi, rendendo inaccessibile la comprensione della sua natura essenziale. Similmente D’Annunzio, anche se presumibilmente ispirato da un paganesimo filtrato dalla tradizione risorgimentale (ricordiamo, una su tutte, la poetica del Carducci), canta che: «Tutte le creature udirono la voce vivente (del Tutto); ma non gli uomini cui l’ombra d’una croce umiliò la fronte.»
Del resto mentre per Heidegger gli dei greci sono intesi come «l’ essere stesso che guarda entro l’ente», e non sono “persone” invece il «Dio creatore e redentore… padroneggia e calcola ogni ente». Ed anche la scienza moderna è per Heidegger “un padroneggiamento conoscitivo” dell’ente, che nulla ha a che fare con il “disvelamento” dell’essere”. Fondamentale in questo processo di “disvelamento” è l’esperienza dell’angoscia: infatti, essendo una paura per qualcosa di imprecisato, una paura del niente, ci permette di fare esperienza del Niente, rivelatrice dell’Essere, o meglio del fatto che l’Essere sia, da Heidegger inteso come “mostruosamente spaesante”, qualcosa di molto simile al timor panicus cui farà cenno il D’Annunzio:«E il terrore sacro si propagò ai confini dell’Universo».
Heidegger a differenza di molti filosofi suoi contemporanei, ricordiamo fra di essi Carnap, con il quale entrò in polemica, fa capo ad una diversa concezione della filosofia, mentre questi ultimi cercano di stabilire le condizioni logiche della validità delle scienze filosofiche, ad Heidegger interessa aprire orizzonti di senso, anche andando contro la descrivibilità logica, pur di dare espressione all’ineffabile. L’intento del filosofo tedesco viene apprezzato da Wittgenstein, il quale in una nota su Heidegger, invita a pensare alla “meraviglia che qualcosa esista”. Il solo fatto che qualcosa esista piuttosto che Nulla, dirà nella Lecture on Ethics, suscita in noi una meraviglia che «non può essere espressa nella forma di una domanda» e a cui «non vi è neppure alcuna risposta».
Del resto dal punto di vista ‘logico’ è paradossale meravigliarsi che il mondo esista, sarebbe legittimo invece meravigliarsi di come esso è. Ma il fatto di meravigliarsi che qualcosa ci sia piuttosto che no, nondimeno accade. Wittgestein ritiene che ciò accada quando alle volte cessiamo di vedere il mondo attraverso la consequenzialità logico-descrittiva, e lo ammiriamo nell’ordine inspiegabile della magia e della meraviglia.
Il poeta come “pastore dell’Essere”
Heidegger sosterrà che il mistero dell’Essere si schiuda soprattutto nelle menti e nelle viscere dei poeti. Poiché essi sono “i più arrischianti” – a detta del filosofo – essi sono i “pastori dell’Essere”: «Dal silenzio senza parole a lungo custodito, e dall’accurata chiarificazione dell’ambito in esso diradato, viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte viene il nominare del poeta» (Poscritto a Che cos’è metafisica).
Così D’Annunzio fattosi nella sua poesia Vate e Veggente, cioè appunto Poeta, dirà: «Il mio canto vi chiama a una divina festa.» Il poeta diviene dunque il “pastore dell’Essere” annunciando agli altri esseri la loro divinità, che consiste nella straordinarietà della loro esistenza.: «Io vi dirò quel che da voi s’attende, le vostre sorti auguste, la deità che in voi splende».
«La sostanza del Sole era la mia sostanza. Erano in me i cieli infiniti, l’abbondanza dei piani, il Mar profondo» canta D’Annunzio, pervaso da sentimento panico e cosmico. Riprende: «Dissi: “Canterò i tuoi mille nomi [i nomi del Tutto] e le tue membra innumerevoli, perocché la fiamma e la semenza, l’alveare ed il gregge, l’oceano e la luna, la montagna ed il pomo son le tue membra, Signore; e l’opera dell’uomo è retta dalla tua legge».
Ma il poeta se vuol cantare il Tutto deve sacrificare se stesso: «E il dio disse: O tu che canti, io son l’Eterna Fonte. Canta le mie laudi eterne. Parvemi ch’io morissi e ch’io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi: Canterò, Signore». Allo stesso modo Heidegger dirà che: «Il sacrificio è di casa nell’essenza dell’evento in cui l’essere reclama l’uomo per la verità dell’essere» (Poscritto a Che cos’è metafisica).
Come possiamo vedere, in entrambi i casi, la metamorfosi rivelatrice passa dalla strettoia iniziatica della nientificazione, che appunto apre all’abbacinante fatto che l’Essere sia. Che così possa accadere per l’Occidente intero, dopo ch’esso sia passato integralmente sotto le “forche caudine” del nichilismo?
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