Lettera indirizzata il 2 settembre 1943 ad un alpino, Posta Militare 118:
«La situazione è sempre quella di cui vi parlavo nella precedente lettera. Gli alleati non vogliono accettare le condizioni di un armistizio il quale neutralizzi completamente il territorio italiano sì da renderlo inutilizzabile tanto agli uni che agli altri, condizioni che sarebbero accettate dalla Germania. Il programma degli alleati è di servirsi del nostro paese per continuare la guerra contro la Germania. Questa essendo la situazione, voi vedete che nessun armistizio, nessuna pace di capitolazione ci darebbe la vera pace, perché la guerra continuerebbe ugualmente e il nostro territorio diventerebbe il campo di battaglia fra tedeschi e anglo-americani. Bisogna adeguare gli animi, i propositi, le previsioni a questa drammatica realtà che può mutare soltanto per una resipiscenza, cioè per un diverso atteggiamento degli alleati».
Lettera indirizzata il 7 settembre 1943 a un caporal maggiore del 35° Raggruppamento artiglieria da posizione, 341.a Batteria, P. C. Posta Militare 150:
«Renditi interprete verso i tuoi compagni ed esortali, a mio nome, a continuare ad aver pazienza, costanza, coraggio e sangue freddo. Il miglior modo di sopportare questo tremendo perido è quello di armarci di tutto il coraggio di cui siamo capaci. La morte preferisce i deboli ai forti: è una massima che mi continua a ripetere un alpino della “Tridentina”, battaglione Morbegno, uno dei pochi che, nella ritirata dal Don, ha portato in salvo il “telaio”. La situazione è immutata. Gi alleati credono di avere il coltello per il manico e non si lasceranno certo commuovere dalle magnifiche espressioni e invocazioni del Sommo Pontefice il quale, questa volta, li ha duramente bollati e ha minacciato “l’ira di Dio” sulle teste di coloro che si rendono colpevoli di così atroci barbarie [ossia i bombardamenti terroristici su Milano dell’agosto 1943]. Il programma dei nostri nemici è sempre quello di “far fuori” l’Italia. Qualunque pace di capitolazione non sarebbe mai la vera pace fino a che i tedeschi non fossero completamente e definitivamente sconfitti. Per intanto la pace significherebbe trasformare il nostro territorio in campo di battaglia».
Lettera indirizzata l’8 settembre 1943 ad un sergente del 4° Gruppo cannoni da 149/35, X Batteria, Posta Militare 121:
«Mentre detto la presente, ho sotto gli occhi la tua del 16 agosto. Rilevo, tra le affermazioni che fai a nome degli amici tutti della batteria, che “non v’è da temere per il vostro morale”. Voi tutti “farete sempre fino all’ultimo il vostro dovere”. La mia famosa lettera del 27 luglio non ha fatto che rispecchiare la situazione quale si presentava all’esame di un osservatore obiettivo quale io sono sempre. Dopo di allora non vi sono stati sostanziali mutamenti. Il proposito degli alleati è tuttora quello di fare la guerra sul nostro territorio per cercare di colpire al cuore la Germania. Allorché gli alleati ci offrono la pace di capitolazione e ci fanno tante lusinghiere promesse per il poi, essi sanno benissimo che vogliono turpemente ingannarci. Quale vera pace potremmo avere quando alcune delle nostre più opime province fossero trasformate in un campo di battaglia? Una insistente azione di propaganda affidata agli agenti inglesi, che circolano a migliaia per le strade d’Italia, vuol convincere il popolo che comunque la Germania non può più rappresentare un pericolo perché essa è allo stremo delle sue forze e che, quindi, non ci sarebbe da temere una reazione anche qualora noi mettessimo tutte le nostre residue forze a disposizione degli alleati. Io sono di diverso parere. L’esercito tedesco è tuttora formidabile, e sono convinto che voi, da dove siete, me ne potreste dar nuova conferma mediante la testimonianza di ciò che vedete con i vostri occhi. L’armistizio e la pace non sarebbero che la continuazione della guerra: di una guerra in cui giustamente i tedeschi non avrebbero più alcun motivo di riguardo per noi».
Queste lettere straordinarie, che testimoniano una eccezionale capacità di giudizio nel momento in cui l’intera classe dirigente italiana, politica e militare, sembrava colta da una sorta di offuscamento collettivo, sono state scritte da Carlo Silvestri: un uomo tanto lucido nelle sue analisi quanto coraggioso nella sua volontà di testimonianza civile.
Giornalista prestigioso, animatore della stampa di opposizione nel momento più aspro degli anni Venti, quello dell’Aventino, e implacabile accusatore di Mussolini per il delitto Matteotti; incarcerato e mandato al confino per lunghi anni, legato mani e piedi come il peggiore dei malfattori; socialista senza retorica e senza minimamente subire la sinistra influenza del marxismo e dello stalinismo; cristiano pronto al perdono, così come intransigente nel denunciare soprusi ed ingiustizie: Silvestri aveva tutte le carte in regola per diventare uno dei grossi nomi della Resistenza e, soprattutto, dell’Italia repubblicana e democratica dopo il 1945.
Così non è stato, perché egli ha preferito seguire sempre la propria coscienza; e, in un’Italia di gattopardi, non solo non si è unito al coro di quanti volevano scaricare ogni colpa su Mussolini e sullo sconfitto regime, ma si è addirittura avvicinato al Duce nel periodo della Repubblica Sociale, lo ha frequentato a lungo, ha modificato le sue idee su di lui: fino a convincersi che egli non sia stato affatto il mandante del delitto Matteotti, ma, al contrario, il destinatario di una sporca manovra ideata da quanti volevano impedirgli di gettare un ponte verso i socialisti, in vista di un programma di riconciliazione nazionale, cosa ancora possibilissima nel 1924.
Non già che Silvestri si sia convertito al fascismo; semplicemente, si è prodigato per una pacificazione degli animi; e molti partigiani ha sottratti alle grinfie delle SS nel 1944, come poi ha confermato in sede giudiziaria il capo della resistenza socialista, Bonfantini. Poi, a guerra, finita, ha tentato di fare quello che Giuseppe Prezzolini ha chiamato “un necrologio onesto” del fascismo: astenendosi dal rovesciare ogni colpa su di esso e riconoscendo che non si è trattato, come Croce imperterrito sosteneva, di una “invasione degli Hyksos”, ma dell’emergere di tendenze e aspirazioni insite nella storia italiana dei decenni precedenti.
Tanto è bastato perché un alone di sospetto, di disapprovazione e di malcelato disprezzo scendesse sulla sua persona e sui suoi scritti, in un’Italia che aveva fretta di dimenticare e di ricominciare i vecchi intrallazzi, le vecchie cattive abitudini, il vecchio conformismo borghese (anche se sotto le bandiere di una nuova ideologia). Si è voluto vedere in lui un personaggio ambiguo, senza principî, senza credibilità; lo si è insultato, calunniato, diffamato; il suo richiamo al perdono e alla pacificazione degli animi è stato accolto con risa di scherno o con un sordo digrignare di denti dai predicatori dell’odio di classe e dell’odio ideologico.
Quegli stessi sinistri figuri che non hanno battuto ciglio mentre migliaia di Italiani venivano infoibati nella Venezia Giulia; che avrebbero voluto cedere a Tito sia Gorizia, sia Trieste e forse anche Udine; che, davanti al colpo di stato comunista in Cecoslovacchia, non coglievano alcuna analogia con le vicende del 1938-39, ma anzi applaudivano il sorgere di una nuova “Repubblica popolare”, amica fraterna di tutti i lavoratori e nemica implacabile degli sfruttatori del popolo: quegli stessi sinistri figuri, dicevamo, non si sono vergognati di vomitare tutto il loro astio e tutta la loro insofferenza verso un antifascista che, dopo aver pagato con anni di carcere e di confino la propria fedeltà al testamento ideale di Matteotti, aveva poi pronunciato parole di riconciliazione nazionale, mentre ovunque risuonavano le scariche di mitra dei partigiani comunisti i quali, a guerra già finita, trucidavano sommariamente un numero imprecisato di fascisti o supposti tali, ivi compresi i sette disgraziati fratelli Govoni, che tutti sembrano aver dimenticato (mentre non c’è Italiano che non sappia il nome dei sette fratelli Cervi).
Ma di Carlo Silvestri e della sua coraggiosa battaglia per la verità, ci ripromettiamo di parlare un’altra volta.
Qui ci limiteremo a mettere a fuoco una questione ben precisa, così come essa appare dalle tre lettere che abbiamo riportato all’inizio (tratte dal libro di Silvestri Contro la vendetta, Milano, Longanesi & C., 1948, pp. 57-59): se, cioè, le promesse di pace all’Italia, fatte dalla propaganda alleata nel 1943, dopo la conclusione della campagna d’Africa, fossero in buona fede; e se fu saggio, da parte italiana, prestarvi fede, come di fatto accadde.
La Vulgata storiografica politicamente corretta,ossia quella democratico-resistenziale, ha sempre presentato l’occupazione tedesca di tre quarti del territorio italiano, nel settembre del 1943, come una sorta di fulmine a ciel sereno, o meglio, come il colpo di coda del nazismo agonizzante, ormai consapevole di non poter più vincere la guerra, ma ben deciso a far perire Sansone con tutti i Filistei, vale a dire a trascinare nella sua rovina quanti più popoli possibile.
Si dimentica che i Tedeschi erano nostri alleati fin al principio della guerra: anzi, in seguito alla firma del Patto d’Acciaio, fin dal 22 maggio 1939; che ci avevano aiutato e “salvato” in numerose occasioni, dalla Grecia alla Cirenaica; che ci avevano portato a un soffio dal successo strategico in Nordafrica, con l’avanzata fino ad El Alamein; che ci avevano consentito di compensare i penosi rovesci della marina nel Mediterraneo, riportando i successi aereonavali delle battaglie di Mezzo Giugno e Mezzo Agosto 1942; che ci avevano sostenuto fino all’ultimo nella strenua difesa della Tunisia e, infine, che si erano assunti il peso principale della lotta nella battaglia di Sicilia, ovvero nella difesa del nostro suolo nazionale invaso dal nemico.
Sì, perché gli Alleati erano i nostri nemici: ed erano nemici spietati, che usavano sistemi di guerra “nazisti”, anzi ancor più feroci di quelli nazisti, allorché bombardavano Amburgo e le altre città tedesche con le bombe al fosforo liquido, per bruciare viva la popolazione inerme; e lo mostravano bombardando Napoli, Roma, Milano e le altre città italiane non solo prima del 25 luglio 1943 (caduta di Mussolini e del fascismo), ma anche – e con particolare efferatezza – fra il 25 luglio e l’8 settembre (governo Badoglio), accanendosi non già sulle installazioni militari o sui nodi strategici delle comunicazioni, ma sui quartieri popolari, allo scopo terroristico deliberato di fare migliaia e migliaia di vittime.
Valga per tutte, in particolare, il tremendo monito di Zara: Zara, letteralmente distrutta dalle bombe dei “liberatori” angloamericani in quel famigerato 1943: e non nell’estate, prima della seduta del Gran Consiglio, né durante i quarantacinque giorni di Badoglio; ma nel novembre, quando l’Italia era un Paese alleato e aveva già da un pezzo dichiarato guerra alla Germania. Perché gli Alleati vollero distruggere Zara? Forse per rendere un favore a Tito, e indirettamente a Stalin, creando le premesse per facilitare l’annessione della città dalmata alla Jugoslavia a guerra finita, mediante l’eliminazione fisica della presenza italiana sull’altra sponda dell’Adriatico?
Gli Alleati, dunque, non combattevano soltanto per distruggere il fascismo, ma per distruggere l’Italia come compagine statale, come potenziale industriale e militare, come potenza coloniale e navale: insomma al preciso scopo di “punirla” per aver perseguito una politica autonoma da grande potenza, specialmente a partire dalla guerra di Etiopia; mentre prima gli elogi al Duce e alla sua politica si erano sprecati, sia da parte di Churchill che di Roosevelt. Bisognava “far fuori” l’Italia per ridurla non solo allo Stato di potenza minore, ma per disonorarla e poterla poi tenere, a tempo indefinito, in uno stato di ricatto psicologico, in modo che il suo popolo non osasse mai più guardare da pari a pari le nazioni vincitrici.
C’è modo e modo, infatti, di perdere una guerra: la si può perdere con dignità, accettando il destino degli sconfitti; o la si può perdere con viltà, saltando all’ultimo istante sul carro dei vincitori. E questo non solo sul piano internazionale, ma anche su quello interno; come quando avviene che tutto un popolo, dopo aver seguito e osannato un determinato uomo politico, un determinato partito, da un giorno all’altro si scopre vergine e anzi “da sempre” segretamente ostile ad essi, e quindi pienamente legittimato a voltar pagina e far sparire ogni traccia del suo precedente consenso, magari affogandolo in un bagno di sangue fraterno.
Così l’Italia è uscita dalla guerra e così si sono create le premesse per la sua “rinascita” a guerra finita: con un popolo che ha creduto di purificarsi mediante il sacrificio cruento del “tiranno”, nonché martoriandone e insultandone il cadavere; e con una classe dirigente che ha dimenticato in fretta le sue corresponsabilità nella ventennale dittatura e nella guerra medesima, ritornando al potere con una gigantesca operazione di camaleontismo politico: con speciale beneficio di quelle lobbies e di quei gruppi di potere occulto, dalla Massoneria ai circoli filoinglesi dell’industria, della finanza e dell’esercito, che sono tuttora saldamente insediati al vertice.
È una operazione eccessivamente dietrologica quella di far notare come la classe dirigente italiana, ancor prima della nascita del proprio Stato nazionale, ossia durante il Risorgimento, sia stata largamente finanziata e sostenuta dalla Gran Bretagna, ad esempio tramite la centrale operativa della “Giovine Italia” di Mazzini a Londra, oppure mediante il sostegno indiretto della Royal Navy quando Garibaldi sbarcava in Sicilia e, poi, in Calabria? Finanziamenti e sostegni che i servizi segreti inglesi e la Massoneria inglese – così ci vorrebbero far credere i nostri paludati storici di professione – sarebbero stati offerti al “popolo italiano” così’, per pura simpatia e solidarietà umana, senza nulla aspettarsi in cambio e senza nulla pretendere, né allora, né per gli anni a venire, da parte del neonato Stato italiano.
Ma torniamo al settembre del 1943, il momento storico più tragica e vergognoso della nostra vicenda nazionale.
Come è noto, con la Conferenza di Casablanca del gennaio 1943, Roosevelt, Churchill e Stalin avevano proclamato che la guerra contro il Tripartito (Germania, Italia e Giappone) sarebbe continuata fino ala “resa incondizionata”, unconditional surrender) e che, pertanto, nessuna resa parziale sarebbe stata presa in considerazione, nessuna resa a specifiche condizioni: se essi avevano voluto rendere impossibile ogni ipotesi di ottenere che i membri minori della coalizione nemica (Finlandia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria) si “sganciassero”, con quell’annuncio vi erano perfettamente riusciti.
“Resa incondizionata” significava, per l’Italia, non soltanto subire l’occupazione completa del proprio territorio, ma anche divenire campo di battaglia per le ulteriori operazioni alleate – aeree, terrestri e navali – contro la Germania. A quel punto, la Germania avrebbe avuto altra via da percorrere, che non fosse quella di occupare l’Italia per prima e di tenere il più possibile lontani dal proprio territorio gli eserciti e le flotte aeree e navali nemici? Oppure avrebbe dovuto stare tranquillamente a guardare, mentre essi compivano un balzo in avanti di oltre 1.000 chilometri, dalla Sicilia alle Alpi, per poi, da queste ultime, lanciare l’offensiva finale contro il cuore del proprio territorio?
In quel momento, la situazione politico-strategica dell’Italia assomigliava in modo impressionante a quella dell’Impero austro-ungarico nell’ultima fase della prima guerra mondiale, particolarmente dopo la morte di Francesco Giuseppe e l’ascesa al trono di Carlo I d’Asburgo. Come è noto, questi si era reso conto della impossibilità di vincere la guerra e aveva anche tentato di avviare delle trattative segrete di pace con l’Intesa, tramite il principe Sisto di Borbone; trattative che erano state bruscamente interrotte allorché l’alleato germanico ne aveva avuto sentore e il governo francese, poco saggiamente oltre che poco cavallerescamente, ne aveva rigettato tutta la responsabilità sul giovane imperatore austriaco.
È noto che, in quella occasione, lo Stato Maggiore germanico aveva preso seriamente in considerazione la possibilità di occupare, con mossa fulminea, il territorio dell’Austria-Ungheria, ben sapendo che, se l’alleato si fosse arreso all’Intesa, questa ne avrebbe fatto un trampolino per minacciare da sud la stessa Germania. Ed è esattamente quanto stava per avvenire ai primi di novembre del 1918, quando le armate italiane, ottenuta la resa dell’Austria a Villa Giusti, si preparavano a sferrare un’offensiva contro il territorio germanico, secondo i piani del generale Diaz, per affrettare il crollo definitivo del Reich tedesco.
Dunque, solo una persona sommamente ingenua e sprovveduta, oltre che sommamente ignorante, nell’Italia del 1943, poteva sperare, specialmente dopo l’annuncio di Casablanca, che la resa agli Alleati avrebbe significato la fine della guerra, la fine dei bombardamenti, la fine delle sofferenze; ma non certo chi avesse un minimo di senso della realtà.
Che l’opinione pubblica italiana si sia abbandonata, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio (il quale, giova ribadirlo, non fece assolutamente niente per prevenire la catastrofe: non richiamò un fante dai Balcani o dalla Francia, non organizzò neppure la difesa di Roma, pur disponendo di forze assai maggiori di quelle germaniche), a una siffatta illusione, a un tale sogno voluttuoso, il sogno del “tutti a casa”: ebbene, questo lo si può anche comprendere, e non solo per la stanchezza dovuta all’impari e ormai troppo lungo conflitto, ma anche per l’opera subdola di migliaia di spie alleate e per l’opera irresponsabile e antinazionale dei dirigenti dei partiti antifascisti, comunisti e socialisti in testa.
Ma che a un tale sogno, a una tale illusione, a una tale ebbrezza si siano abbandonate, tutte intere, le classi dirigenti; che nessuno, nell’apparato militare, in quello politico e nel campo della stampa e della radio, si sia reso conto di quel che avrebbe significato la resa senza condizioni e che cosa avrebbe comportato per il futuro dell’Italia: questo è il delitto imperdonabile, del quale stiamo ancora pagando le conseguenze, sia a livello internazionale che a livello interno.
La guerra non sarebbe finita con la resa agli Alleati; sarebbe entrata in una fase nuova, ancora più crudele, ancora più inumana; e, con ogni evidenza, sarebbe diventata una guerra civile, somma sciagura che ogni popolo degno di questo nome ha sempre paventato come il peggiore dei mali e rispetto al quale ogni altro sacrificio, ogni altra sofferenza, ogni altro compromesso è sempre e comunque apparso preferibile.
Qualcuno riesce a immaginarsi il popolo inglese o il popolo americano che si rallegrano all’idea di una resa incondizionata che spianerà la strada alla doppia invasione del proprio territorio nazionale, da parte degli ex nemici diventati “liberatori” e degli ex amici diventati nemici, e che aprirà le vie della guerra civile, fomentata e alimentata, con armi e con denaro, dalle due opposte parti in lotta, solidali nel disegno di annichilire ogni sentimento di dignità nazionale? Non è forse vero che, davanti alla tremenda serietà di una guerra (e di quella guerra, poi!), l’unica filosofia possibile, per un popolo cosciente di sé e dei propri doveri verso se stesso e verso le generazioni future, è quella sintetizzata nella frase: «Right or wrong, it’s my country»?
Eppure fu quello che accadde da noi; con i dirigenti socialisti e comunisti, Longo e Togliatti in testa, entusiasti all’idea di aprire una tale svolta della guerra, trasformandola in guerra civile, senza alcun riguardo per qualsiasi ipotesi di riconciliazione nazionale, anzi, ben decisi a trattare da traditore chiunque osasse anche solo nominare una tale espressione. Per questo venne messa a tacere la voce del filosofo Giovanni Gentile, eliminandolo fisicamente; per questo venne compiuta la strage di Porzùs, ai danni di quei partigiani “bianchi” che non gradivano l’idea – cara, invece, ai partigiani comunisti del P. C. I. di Udine – di cedere a Tito tutta la Venezia Giulia e, magari, anche un bel pezzo del Friuli, Gorizia e Trieste comprese.
Una quantità di film vergognosi e denigratori, sia italiani che stranieri, hanno poi suggellato le piccole e grandi viltà, le incoscienti furberie e l’assoluta mancanza di dignità nazionale e di senso dello Stato, mostrate dagli Italiani nel terribile frangente dell’estate 1943. Valga per tutti l’esecrabile Il colonnello von Ryan, di Mark Robson (1965), interpretato dal noto mafioso italo-americano Frank Sinatra, quasi a suggello della perversa alleanza realizzatasi tra la mafia italo-americana e lo Stato Maggiore statunitense alla vigilia dell’invasione della Sicilia; mentre ufficiali italiani codardi e senza onore (come il capitano interpretato da Sergio Fantoni) non aspettano altro che di calare le braghe e di consegnarsi, armi e bagagli, al vincitore di turno.
Questa è l’immagine alla quale il popolo italiano è stato inchiodato dagli eventi dell’armistizio dell’8 settembre: armistizio voluto dalla Massoneria, dalla grande industria, dalla mafia, dagli alti comandi dell’esercito e della marina e anche da settori della Chiesa cattolica: tutti allo scopo ben preciso di riconquistare le posizioni di preminenza e di privilegio che avevano raggiunto sotto l’Italia liberale; che avevano conservato, a prezzo di qualche compromesso, durante il ventennio; e che avevano seriamente rischiato di perdere con la nascita della Repubblica Sociale.
Fino a quando dovremo portarci addosso questa gogna mediatica, questa infamia culturale, che ci tiene perennemente legati ad un passato che non passa, il quale non fu voluto dal popolo italiano, ma dalle solite élite privilegiate ed egoiste?
Certo non se la meritano i figli e i nipoti di quei soldati semplici, di quei graduati, di quei sottufficiali i quali, nell’estate del 1943 (e ben lo attestano le lettere riportate da Silvestri) avevano ben chiara quale fosse la posta in gioco e perché, in simili condizioni, non vi fosse nemmeno da pensare a un armistizio separato. Non se la meritano i morti di Bir el Gobi, di Cheren, di Culqualber, di El Alamein; né quelli di Capo Matapan o le migliaia di marinai periti nella traversata del Mediterraneo, per portare i necessari rifornimenti all’esercito di Libia.
Parlare di queste cose, oggi, è divenuto tabù: sarebbe considerato come una deprecabile forma di nazionalismo, di esaltazione della guerra e, magari, del fascismo.
Parlare con orgoglio dei propri morti in guerra è un diritto che spetta solo ai vincitori: loro sì, che possano inondare le nostre librerie e le nostre sale cinematografiche con libri e con pellicole che esaltano i loro sacrifici, il loro valore e che denigrano sistematicamente la memoria dei nostri caduti.
Perfino nel mondo dei giocattoli, i nostri bambini sono costretti a giocare con i soldatini che indossano le uniformi inglesi e americane: ossia di quegli eserciti i quali, nel 1943, con il pretesto di venirci a “liberare” (e da chi, poi? da noi stessi?), riuscirono a toglierci non solo il frutto di tanti sacrifici stoicamente sopportati, ma anche l’onore ed il rispetto dovuti a noi stessi.
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