Libri, cari compagni d’un tempo

Difficile dire se il libro, come oggetto materiale, fatto di carta e di cartoncino, sopravviverà alla civiltà tecnologica avanzata.

Il primo assalto dell’informatica non è riuscito a distruggerlo, nonostante il dilagare dei libri informatici e dei periodici on line, perché i lettori si sono dimostrati più affezionati del previsto a quell’oggetto obsoleto, che riempie tanto spazio e che è tanto scomodo da potarsi dietro, specie per uno studente che ne ha cinque o sei nella borsa; si son mostrati più tradizionalisti, dal punto di vista dei cantori delle «magnifiche sorti e progressive».

Per adesso, dunque, il libro cartaceo ha resistito abbastanza bene e ha superato la prima bufera, riportando meno danni del previsto; però non è detto come andrà a finire. Gli effetti della tecnologia non sempre si misurano sul breve periodo, come è stato per il telefonino cellulare, che ha quasi fatto sparire i telefoni fissi e specialmente le cabine pubbliche; nessuno può dire se, alla lunga, la concorrenza del computer non spazzerà via anche gli ultimi sostenitori del buon vecchio libro d’un tempo, specie quando sarà il turno delle nuove generazioni, che non sono cresciute con quei ricordi, con quelle abitudini, con quel bagaglio affettivo.

Il libro cartaceo è un oggetto verso il quale si provava del rispetto: perfino maltrattare un libro vecchissimo e non più utilizzabile, per esempio per ritagliare le fotografie e incollarle sul quaderno delle ricerche, era un’azione che si compiva con un certo qual senso di colpa, con una segreta inquietudine, quasi come una profanazione. Raramente si vendevano i libri, compresi i libri di scuola: il vantaggio economico non era tale da compensare la perdita di una biblioteca minima ch’era divenuta patrimonio familiare, oltre che personale, con Dante, la Bibbia e Manzoni a far mostra di sé sopra qualche scaffale, sia pure impolverato.

Non era un oggetto usa e getta, ma un bene solo in parte materiale: aveva un nome, una storia, un proprietario, e soprattutto un significato che andava oltre l’apparenza, talvolta modesta, talaltra malconcia per via degli anni: la «Divina Commedia» del papà, il Vangelo della mamma, e, perché no, il «Pinocchio» del fratellino, o magari il «Sandokan alla riscossa» del fratello maggiore; e «Le piccole donne» della sorella, dove le mettiamo?

Quando era troppo vecchio, troppo logorato dall’uso, lo si portava a rilegare: e così tornava a casa come nuovo, con la copertina più robusta, con i fogli ben bene rilegati, e con il titolo e l’autore incisi in caratteri dorati sul dorso: una piacere a vedersi. Così come erano un piacere a vedersi i libri che si portavano in legatoria perché realizzati mettendo insieme le dispense settimanali che si acquistavano in edicola: quante famiglie hanno potuto così abbellire il salotto, negli anni Sessanta del secolo scorso, con l’edizione rilegata e sfarzosa delle opere complete di Dante, con la Bibbia illustrata, coi capolavori della letteratura straniera: «Don Chisciotte» di Cervantes, «Huckleberry Finn» di Mark Twain, «L’ultimo dei Mohicani» di Fenimore Cooper, «Tarass Bul’ba» di Gogol, «Il conte di Montecristo» di Dumas padre.

Ma per i lettori appassionati, per fortuna, c’erano le case editrici popolari, che mettevano in vendita le grandi opere di poesia, di narrativa, di teatro e di saggistica in edizioni economiche, forse non molto curate nella traduzione, senza alcun apparato di note critiche o di commento; ma, in compenso, con delle belle copertine colorate e, soprattutto, ad un prezzo veramente accessibile, grazie alla carta di qualità non proprio eccellente, ai minuti caratteri di stampa e alla modesta rilegatura in brossura. A partire da un certo punto, diciamo all’inizio degli anni Settanta, i tascabili apparvero anche nelle edicole del giornalaio: e quello è stato il grande momento della editoria popolare, che ha permesso a milioni di persone di leggere i maggiori autori italiani e stranieri, di aprire i propri orizzonti culturali con pochissima spesa, di far entrare nelle chiuse stanze un fresco vento carico d’aria nuova.

Il lettore appassionato ama i tascabili perché sono comodi da portar via: si possono leggere ovunque, stanno nella tasca della giacca; sono i compagni inseparabili di tante ore serene, sul treno, in corriera, durante una passeggiata, nelle pause del lavoro e perfino in caserma, alla sera, dopo cena, nella promiscuità della camerata.

Spesso il lettore appassionato, ma disordinato, è un giovane: ha grandi sogni, è un formidabile onnivoro, vorrebbe conoscere tutto, esplorare tutto; impaziente, divorato dalla curiosità intellettuale, inesperto, mastica, tritura e digerisce tutto: il romanzo d’appendice e quello classico; le poesie e le storie poliziesche; la saggistica storica e filosofica, così come la fantascienza e la narrativa di viaggi o delle imprese alpinistiche.

Ama il libro in maniera viscerale, quasi fisica: come il personaggio d’un romanzo di Elias Canetti, se lo tiene in tasca, lo accarezza, gode a sentirne la forma, la consistenza, attraverso il tessuto della giacca; fantastica su quale libro vorrebbe avere con sé nel caso di una catastrofe improvvisa che gli precludesse il ritorno a casa; rimugina su quali opere dovrebbero formare la biblioteca ideale di dieci volumi, di cinque volumi, da portarsi sempre dietro, a bordo di un veliero durante il giro del mondo in solitario, oppure nella baita in montagna ove trascorrere un lungo periodo di isolamento volontario e di meditazione, come Thoreau sulle rive del lago Walden, sprofondato in mezzo all’arcana magia della natura selvaggia.

E poi, perché non dirlo, c’erano anche i tascabili un po’ audaci, magari più nel titolo o nella illustrazione di copertina, che nella sostanza: romanzi gialli, per lo più, ma quasi sempre con una bella ragazza dai capelli al vento; libri che avevano uno speciale alone di proibito, un delizioso profumo di trasgressione, ma senza alcun cattivo gusto; niente a che vedere con certa pornografia, a fumetti specialmente, che dilagava nelle edicole come un virus alieno e inarrestabile.

Quanti ricordi, sfogliando uno di quei cari, vecchi tascabili dell’adolescenza, un po’ ingiallito dal tempo, che costavano appena trecentocinquanta lire e ti facevano sentire ricco, ricco e appagato, ricco e felice, quando entravi dal giornalaio a sceglierli con cura, e poi venivi fuori col tuo minuscolo tesoro in mano, stracciando il cellophane per poterlo finalmente annusare, per dare un’occhiata alla presentazione o all’indice, così, lungo il marciapiede, senza nemmeno attendere di essere arrivato a casa.

Un pomeriggio di settembre, con una spesa doppia di settecento lire – ma sempre conveniente -, perché i volumi erano due, è rimasto impresso nella mia memoria per l’acquisto di Così parlò Zarathustra di Nietzsche, il pensatore tedesco appena scoperto a scuola, dove però era stato trattato in maniera estremamente sbrigativa; due bei volumi azzurri, con il busto del filosofo sulla copertina del primo e, su quella del secondo, un giovane Dioniso con il flauto in mano, seduto ai piedi d’un gran faggio dalla chioma che si staglia contro la luce del tramonto: una meraviglia.

Mio fratello, più grande, me l’aveva consigliato: ed ora camminavamo insieme lungo la strada che portava in campagna, nella sera già tendente al rosso, con gli alberi e le siepi ancora pregni del recente splendore estivo e le ultime case della città, case coloniche, con le stalle e i fienili accanto, basse, circondate dagli orti e dai frutteti; camminavamo e scherzavamo, e intanto parlavamo di quello strano autore; e l’autunno imminente pareva più caldo e accogliente, anche su quelle strade lontane dalla nostra amata città natale, nel profumo del fieno e nello splendore dei grappoli d’uva.

Che strani baffoni adornavano il viso del filosofo: talmente lunghi e cespugliosi che – osservammo – per mangiare doveva di sicuro adoperare un pettine, o un cucchiaio, per tirarli su ed evitare di sporcarseli ad ogni boccone; e che aspetto serio, intransigente, da vero ufficiale prussiano. Il suo modo di fare filosofia, fatto di aforismi sibillini e di una prosa poetica dal sapore vagamente biblico, era estremamente affascinante: niente a che vedere con la fredda, noiosa, insopportabile pedanteria professorale di Kant o di Hegel, accidenti a loro! Finalmente un filosofo che non si nasconde dietro le sue formule, che non gioca a fare lo scienziato…

E che strani discorsi, che strane riflessioni, che strane immagini, scaturivano da quel libro dove tutto era inconsueto ed esotico, a cominciare dal titolo; dove tutto era diverso da come ci si aspetterebbe in un libro di filosofia; dove tutto era nuovo e profumava di ribellione contro l’ipocrisia borghese, contro la saccenteria degli eruditi, contro il conformismo degli spiriti pigri.

Certo non ci avevo capito molto; diciamo meglio: non ci avevo capito praticamente nulla. Avevo capito solo che quel Nietzsche mi stava simpatico: quel suo fare filosofia con scintillanti immagini poetiche, e poi, d’un tratto, quel suo sentenziare a colpi di martello: che meraviglia! Faceva sentire un po’ speciale anche il suo giovanissimo lettore, come se un frammento di quella geniale ribellione aristocratica si riflettesse anche sui suoi lontani seguaci e ammiratori. Eppure, si diceva, erano le parole di un pazzo: ebbene, tanti peggio per i savi!

Non conoscevo il tedesco, ma che importa? La bellissima versione italiana di Liliana Scalero aveva una freschezza, una potenza di suggestione, che pareva far vedere quei paesaggi, quel mare azzurro, quei cieli sconfinati, quei boschi mediterranei, quelle rocce a strapiombo, quei sentieri di montagna che di colpo s’innalzavano verso le vette: e sentivi mescolarsi l’aroma caldo del Sud con il profumo delle vallate alpine, con lo spettacolo delle grandi montagne che si stagliano altissime, i fianchi rosseggianti di rododendri e costellati di pini mughi.

Silenzio, vastità sconfinate; e, in quella solitudine incombente, spessa, quasi disumana, ecco l’anziano Zarathustra alzarsi e dirigersi verso il sole al tramonto, con passo tranquillo e sicuro, ad annunciare agli uomini la grande notizia: che il vecchio mondo è finito e il nuovo sta nascendo, e bisogna costruirlo adesso; e che, nello stesso tempo, bisogna prendere anche l’uomo e rifarlo, rifarlo da capo a piedi, perché l’uomo che abbiamo sinora conosciuto è solo una povera creatura incerta e tremebonda, una triste caricatura di se stesso.

Quanti malintesi, in quella lettura disordinata da autodidatta, senza la guida di un insegnante; quanti anni mi ci sarebbero voluti per cominciare a capire, per sviluppare un atteggiamento critico, per cogliere le debolezze, le assurdità di molti passaggi: però restando intatto il fascino della poesia, quello strano fascino di un mondo crepuscolare pieno di sorprese, pieno di magia, con quel vecchio profeta che si rivolge agli uomini ed anche agli animali, che cerca di strappare un serpente dalla gola di un pastore addormentato e che infine, impotente a liberare la vittima, le grida di mordere, di mordere la testa del serpente, di morderla e sputarla via.

Quella scorpacciata adolescenziale mi ha fatto più male che bene, come a tanti altri giovani, suppongo; ma che importa? L’importante non è questo: c’è tempo per crescere, per riflettere, per cominciare a capire; l’importante è avere incominciato, aver preso l’iniziativa, essere andati fuori dal seminato, fuori dall’orticello delle letture consigliate a scuola; aver fatto una scoperta personale; essersi misurati, per la prima volta, con una lettura veramente adulta e, per certi aspetti, sconvolgente, palpitante d’una bellezza da mozzare il fiato.

Anche adesso, che son passati tanti anni, quel ricordo è rimasto intatto: il ricordo di quella magia, di quella scoperta, di quell’innamoramento. Tante persone care non ci sono più; non c’è più nemmeno quella strada che andava verso la campagna, risucchiata dal cemento, come la via Gluck della canzone di Adriano Celentano. O meglio, c’è ancora: ma quanto cambiata, divenuta irriconoscibile. Dove prima c’erano le case rurali, con la stalla e il fienile, ora ci sono le villette a schiera; il fosso con la siepe è scomparso, insieme al profumo del fieno, sostituito da un moderno marciapiede; e il fondo in terra battuta è ora asfaltato e percorso da automobili che corrono veloci.

Sono successe tante cose; tutto il mondo è cambiato. Indiani, marocchini, albanesi si muovono qua e là, escono dai portoni: si stenta a credere che, fino a una trentina d’anni fa, anche meno, queste strade e questi borghi non avevano mai visto uno straniero, se non casualmente, di tanto in tanto; né mai nell’aria si era diffuso questo odore di aglio fritto; né sui tetti delle case si sarebbe mai immaginata una simile foresta di antenne paraboliche. Si andava in banca a metter giù i risparmi, sapendoli al sicuro; e non ci si sentiva proporre l’acquisto di cedole o titoli dai nomi mai sentiti prima, per non vederseli divorati dall’inflazione.

Le cose erano più semplici. Anche le letture erano più semplici: più ingenue, probabilmente, ma con una loro chiarezza elementare, con una loro aspra franchezza; prendere o lasciare, bando alle chiacchiere e agli arzigogoli che servono solo ai professori per scaldare le sedie universitarie.

Oggi bisogna fare più fatica per capire: manca il retroterra, i giovani avanzano in una terra di nessuno ed esempi, dagli adulti, ne hanno pochi; non parliamo poi di coerenza o di chiarezza.

Eppure quel pomeriggio di settembre, quella strada con il libro in mano, sono ancora qui, ben vivi…

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Angiolo
    | Rispondi

    Bellissimo pezzo, che altro dire (e con le lacrime agli occhi, poi). Dopo di noi il diluvio, dunque. Meglio così, per noi che abbiamo vissuto (non vegetato).

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