La pedagogia platonica ebbe un preciso inveramento durante il Terzo Reich, quando, ancor più radicalmente che non nel Fascismo italiano o in altri esperimenti nazionalpopolari del Novecento, si crearono le condizioni per un nuovo primato della comunità sull’individuo. Ma secondo un’eguaglianza gerarchica. I membri del popolo sono tutti uguali, ma anche tutti diversi, solo la qualità decidendo le gerarchie di comando e l’onore di rango.
Questo approccio totalitario alla formazione del popolo costituisce uno scandalo soltanto oggi, nell’era grigia dell’uniformità globale e del rinnegamento dei valori di legame etnico-territoriali. Per la verità, la storia della pedagogia europea ha lungo i secoli puntato sempre al medesimo doppio obiettivo: supremazia del bene comune su quello individuale e, al tempo stesso, selezione delle individualità migliori. Per questo, la pedagogia eroica e comunitaria – dalla paideia greca alla Bildung tedesca – ha sempre avuto nella storia europea un ruolo centrale nella formazione delle giovani generazioni. Si tratta non solo di istruire, ma di educare: pensiamo al semplice fatto che durante il Fascismo si aveva un Ministero dell’Educazione Nazionale, mentre oggi se ne ha uno della Pubblica Istruzione. Le parole hanno un senso: nel primo caso si punta alla formazione della personalità e del carattere secondo la cultura e la tradizione della nazione; nel secondo, quando va bene, alla semplice informazione ad uso di un mondo giovanile avvertito banalmente come “gente”, come “pubblico”.
Il Terzo Reich fu un regime simile alla Grecia antica in molti campi, da quello sociale a quello politico, fino a quello razziale, militare e educativo. Come ci ricorda la vicenda di Socrate, ad Atene un’accusa di “corruzione dei giovani” attraverso la divulgazione di idee individualiste e anarcoidi portava semplicemente alla condanna a morte. La gioventù, considerata il fulcro della comunità popolare, non doveva essere distolta dalla via della tradizione, ma anzi continuamente rinsaldata nei principi di devozione alla cultura, alla religione, alla società e alla stirpe dei padri. La morale aristocratica ellenica e l’educazione eroica avevano il fine di porsi al servizio del popolo: le due tensioni, quella verso l’individualità eroica e quella verso la comunità, si conciliavano nella pratica gerarchica. Pericle, come sappiamo, fu l’artefice politico di tale equilibrio. Ora, all’articolo 2 della legge del dicembre 1936 sull’istituzione della Hitlerjugend, si leggeva che «Tutta la gioventù tedesca, fuori della famiglia e della scuola, deve venir educata nella Hitlerjugend fisicamente, spiritualmente e moralmente nello spirito del nazionalsocialismo per servire il popolo e la comunità popolare». Quest’idea del servizio era il centro della concezione tanto greca quanto nazionalsocialista: il politico precede il privato, dato che l’uomo è essenzialmente un «animale politico», come diceva Aristotele. Un concetto che ad esempio Alfred Baeumler ripeteva, duemilatrecento anni dopo, definendo l’uomo per l’appunto ein politischen Wesen, un essere politico. Baeumler fu uno dei principali educatori del Terzo Reich, un famoso studioso di Nietzsche che, quando fu chiamato alla cattedra di Pedagogia Politica di Berlino nel 1933, non mancò di trasporre le categorie del carattere e della personalità, presenti nel pensiero di Nietzsche, nei programmi scolastici del nuovo regime, al fine di realizzare quello che già la Grecia dorica conosceva: la valorizzazione dell’uomo come soldato politico.
Ritroviamo alcune considerazioni sul progetto educativo di Baeumler e di altri teorici nazionalsocialisti nel recente libro di Sabine Koesters Gensini Parole sotto la svastica. L’educazione linguistica e letteraria nel Terzo Reich (Carocci), in cui proprio la figura di Baeumler viene affiancata a quelle di quanti fecero “tendenza” pedagogica nella Germania dell’epoca, a cominciare da Hitler (il cui Mein Kampf è pieno di riferimenti all’educazione dei giovani), fino a Ernst Krieck, a Rosenberg o ad altri personaggi, professori e accademici, di minor fama. Circa Baeumler, la Gensini rimarca che il suo ideale educativo non era «di sottomettere la pedagogia alla politica, ma di realizzare una pedagogia compiutamente politica». In questi contesti, infatti, per “politico” non dovrebbe intendersi tanto “ideologico”, come si tende a fare modernamente, quanto piuttosto “sociale”. La socializzazione dell’uomo, la sua responsabilizzazione nei confronti del prossimo, era infatti il fine della pedagogia nazionalsocialista, non meno di quella greca antica, che tendeva a fare di ogni aspetto della vita un momento sociale e di confronto pubblico. Tale politicizzazione era dunque più di tipo tradizionale che ideologico in senso moderno. A riprova di ciò, e nonostante che studi come quello della Gensini puntino molto a stigmatizzare la pratica nazista di inculcare “ideologia”, stanno importanti testimonianze. Ne forniamo una. Nel suo libro Nazismo e società tedesca 1933-1945 pubblicato da Loescher nel 1982, e da tempo un classico in materia, basato soprattutto su documentazione d’epoca, Enzo Collotti inserì la testimonianza post-bellica di un allievo delle Scuole Adolf Hitler – la massima istituzione educativa del regime, la sua punta di diamante “ideologica”, si direbbe – nel proposito di dimostrare l’indottrinamento, la coercizione e l’omologazione dei giovani praticata radicalmente nel Terzo Reich. Sorprendentemente, e non colta dal curatore, ne scaturiva un’affermazione sbalorditiva. Il giovane nazionalsocialista, infatti, che aveva vissuto l’amosfera, immaginiamo, molto surriscaldata di un centro di formazione dei migliori allievi d’élite, se ne usciva tranquillamente con l’affermazione che «non ricordo un indottrinamento ideologico. Alla fine del corso ci fu letto un giudizio in cui si parlava soprattutto di cameratismo, di impegno e di senso dell’onore». Ma come, nelle Scuole Adolf Hitler non si insegnava l’ideologia hitleriana senza discussioni, magari col pugno di ferro? Evidentemente, proprio no.
C’è una spiegazione. Ciò che noi oggi intendiamo per “ideologia” – la formulazione razionale di una dottrina precostituita – in determinati contesti di tipo tradizionale non viene affatto avvertita con questo significato. La cultura politica nazionalsocialista pensava se stessa, più che come “ideologia” rigida e dogmatica, come Weltanschauung e come Bildung, come concezione del mondo e come formazione. Questo viene attestato anche da una pubblicazione come quella della Gensini, che pure si ripromette sin dalle prime pagine di operare la più dura critica al cosidetto autoritarismo della pedagogia nazionalocialista. Quando si tratta di dare conto di una tale ferrea e prevaricante pratica, che ci si immagina come la più dogmatica possibile, si viene a sapere che le cose stavano all’opposto: «non esiste una sola teoria educativa nazionalsocialista: analizzando le opere dei più noti rappresentanti della pedagogia ufficiale degli anni Trenta e Quaranta, infatti, si notano importanti differenze…». Così importanti, che lo stesso Hitler, che si considerava il primo teorico della politica formativa tedesca, cui aveva dedicato interi paragrafi del Mein Kampf, di fatto non aveva il monopolio delle scelte in materia: «il leader politico… era certamente considerato un’autorità anche in campo pedagogico, ma è altrettanto certo che la discussione teorica non si fermava alle sue indicazioni».
Ma come, non era il Terzo Reich un monolitico regime basato sull’indottrinamento di massa? Niente “pensiero unico”? Esisteva dunque una dialettica interna, la possibilità di scambiare opinioni, di misurare tra loro i vari punti di vista? Ma non è il contrario di quanto viene detto dalla retorica storiografica circa il feroce regime repressivo?
La Gensini, che scandaglia a fondo libri di testo, programmi, scuole e corsi legati soprattutto allo studio della lingua tedesca – dai nazisti considerata un bene fondamentale del popolo e in quanto tale da difendere da ogni imbarbarimento – ci assicura che il materiale didattico in uso negli anni del Terzo Reich presentava «testi di notevole valore storico». Non ne dubitiamo. Inoltre, ci tiene a sottolineare che la pedagogia nazista non inventò nulla, ma agì semplicemnte sulla scorta della tradizione nazionale precedente. Lo sforzo educativo e scolastico per plasmare il carattere del popolo, e in particolare quello dell’élite dirigente, era già all’opera, con all’incirca i medesimi intendimenti, già ben prima del 1933: «il pathos di rinnovamento nazionale con cui si presentava il movimento hitleriano non era affatto nuovo, neanche nel clima culturale e pedagogico degli anni Venti e Trenta», poiché «una parte della concezione pedagogica adottata come ufficiale durante il nazionalsocialismo era stata sviluppata già parecchi anni prima del 1933». Allora noi di nuovo ci chiediamo: ma non fu il Terzo Reich un monstrum di tutte le nefandezze? Come si concilia questo dogma col fatto che la gran parte del suo pensiero politico ed educativo era già all’opera da un pezzo, in epoche magari “democratiche” come la Repubblica di Weimar?
Oltre a ciò lo studio della Gensini, pur non volendolo e anzi attestandosi su un’acuta demonizzazione della materia trattata, apre la porta a ulteriori revisioni di certezze artefatte. La germanistica, la linguistica, la letteratura tedesca, su cui si appunta l’attenzione della studiosa, appaiono come uno dei terreni su cui si dispiegò la volontà della dirigenza nazionalsocialista di proteggere e potenziare l’identità popolare. A questo compito non presero parte fanatici o esaltati, come si potrebbe pensare, ma il meglio dell’intellettualità tedesca dell’epoca. Anzi, si direbbe che l’ideale gramsciano di un primato della cultura politica venisse realizzato proprio dove meno ce lo aspetteremmo: «una quantità enorme di intellettuali – nel senso ampio, gramsciano, del termine – a loro modo e secondo le loro possibilità si sono mossi all’interno delle coordinate ideologiche nazionalsocialiste e ne hanno fatto la sostanza dei loro studi e delle loro attività». “A loro modo e secondo le loro possibilità”: quindi proprio nessuna coercizione dell’individuo e nessuna imposizione di un “sapere esterno”… e il tutto in ossequio – testimonia ancora la Gensini – agli storici presupposti della Sprachpflege, cioè la protezione della lingua già preconizzata da personaggi del calibro di un Leibniz o di un Humboldt.
Il fatto è che un regime politico come il Terzo Reich – esclusivista verso l’esterno, ma fortemente solidaristico verso l’interno – non fece che riproporre in chiave moderna i medesimi presupposti della cultura europea tradizionale. Come in Grecia, come a Roma, anche in Germania il giovane era visto come il bene più prezioso per un popolo, di cui rappresenta il futuro. L’educazione ai valori comunitari non intendeva spegnere la personalità del singolo, ma esaltarla incanalandone le potenzialità non verso l’affermazione egoistica dell’Io, ma verso il benessere comunitario. Davvero non si potrebbe immaginare caso più lontano dagli attuali programmi di allevamento di moltitudini di giovani abbandonati alla solitudine sociale e addestrati a rinnnegare le proprie radici.
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Tratto da Linea del 22 maggio 2009.
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