Mille e una Russia

Un’antica leggenda, raccontata per secoli dalle guide locali ai rari visitatori occidentali di passaggio per Samarcanda, popolare al punto da essere ancora in auge nelle scuole per l’infanzia ai tempi dell’Unione Sovietica, riferisce che Tamerlano, deciso a fare della sua residenza la città più sfarzosa della terra, prima di partire per una nuova spedizione militare diede disposizioni perché in sua assenza fosse costruito un grande complesso con due moschee, una scuola coranica e un ostello per i pellegrini, omaggio di pietra fatto erigere dal Signore del Mondo in favore della sua prediletta, la principessa mongola Bibi – Khanum. Costei era di una così sfolgorante bellezza che l’architetto chiamato a sovrintendere i lavori finì per innamorarsene perdutamente, minacciando di non portare a termine l’incarico affidatogli se la ragazza non avesse ceduto alla sua corte. Preoccupata che Tamerlano, assai poco incline a mostrare tolleranza verso coloro che disattendevano i suoi ordini, tornasse dalla guerra senza che il monumento al quale tanto teneva fosse stato ultimato, la fanciulla accondiscese a concedere le proprie grazie allo scriteriato spasimante il quale, nella foga dell’estasi amorosa, le assestò un bacio così appassionato da lasciarle una bruciatura sul collo! Per nascondere allo sguardo di occhi indiscreti la scottante prova della sua infedeltà Bibi – Khanum decise di coprirsi il volto con un velo. Rientrato a Samarcanda, l’Emiro non intese ragione: preso atto del tradimento consumatosi alle proprie spalle fece seppellire viva la sua concubina all’interno della moschea appena ultimata, trasformandola così in un sepolcro, e impose a tutte le donne del suo vastissimo Impero di portare da quel giorno un velo a celare il viso. Questa, almeno secondo la leggenda, l’origine del chador.

Sarà forse motivo di stupore per chi legge apprendere che a riferire il celebre apologo non sono stati, come sarebbe lecito supporre, gli anonimi estensori delle “Mille e una notte”, bensì Aleksandr Nikolaevic Afanas’ev (1826 – 1871), antropologo e linguista che, seguendo le orme dei fratelli Grimm, nell’Ottocento ha provveduto alla ciclopica e meritoria opera di trascrizione dell’immenso patrimonio favolistico del popolo russo. Dalla viva voce della sua testimonianza veniamo inoltre a sapere che nello stesso luogo teatro della drammatica immolazione di Bibi – Khanum sorge un grande leggio di pietra dove anticamente veniva esposta a scadenze regolari, per essere mostrata al popolo come oggetto devozionale, una specialissima copia del Corano rilegata in oro, la stessa che Osman, genero di Maometto e terzo successore del Profeta, stava leggendo nel momento in cui fu assassinato: le gocce del suo sangue, rimaste sulle pagine, ne facevano una reliquia preziosissima, alla quale le popolazioni turcomanne del Caucaso attribuiscono ancora poteri taumaturgici. Quando nel 1868 i cosacchi di Alessandro II espugnarono Samarcanda, il cartaceo talismano prese la via di San Pietroburgo, con il resto del bottino, per entrare a far parte del tesoro personale dello Zar, dove sarebbe rimasto, protetto dalla Cortina di Ferro, fino alla dissoluzione del blocco sovietico.

Le anime candide che oggi inorridiscono al pensiero che le milizie cecene di Kadyrov e reparti scelti dell’esercito siriano di Bashar – al – Assad combattano in Ucraina sotto le insegne di Mosca quasi fossero gli Haradrim di tolkieniana memoria, ignorano (o fingono di ignorare) la secolare dialettica instaurata dal Cremlino con l’Islam che preme lungo i confini meridionali della Russia.

Un dialogo articolato e complesso ma costante, culminata nella recente visita di Vladimir Putin in Iran, che ha visto alternarsi momenti di assimilazione forzata a fasi di apertura e affonda le proprie radici molto indietro nel tempo. A riprova di quanto gli eventi seguano spesso percorsi carsici lontanissimi dalle vie maestre, basti pensare che ad introdurre nei territori dell’Asia Centrale russofona la parola del Profeta fu, alla fine del XVIII secolo, un avventuriero di origini piemontesi, Giovanni Battista Boetti. Inviato a Mosul dall’Ordine dei Domenicani al quale apparteneva per adempiere alla professione di medico, si convertì all’Islam e, autoproclamatosi sceicco con il nome di Al Mansur (il Vittorioso), si trasferì in Cecenia dove, grazie ad una predicazione particolarmente suggestiva, chiamò a raccolta le popolazioni delle montagne contro Caterina II, radunando intorno a sé un esercito di ottantacinquemila uomini del quale i Russi riuscirono con fatica ad avere ragione. Catturato vivo e trascinato in catene ai piedi della Zarina, quest’ultima, colpita dal suo ardimento, lo graziò e ne fece il proprio consigliere privato ed amante, assicurandogli un appannaggio mensile e imponendogli quale unica limitazione alla propria libertà personale l’obbligo tassativo (ma di sicuro assai poco gravoso per il diretto interessato) di non lasciare Mosca. Senza voler minimamente sminuire la capacità di persuasione quasi eccezionale della volitiva sovrana,  punta di diamante della politica espansionistica russa nel Caucaso resta tuttavia la firma dello storico Trattato di Turkmanchay, siglato a Teheran nel 1828 alla presenza dello Schah di Persia Fath Alì Qajar da Aleksandr Sergeevic Griboedov (1795 – 1829), singolare figura di musicista e letterato prestato alla perigliosa arte della diplomazia a cui lo scrittore Jurij Tynjanov (1894 – 1944) ha dedicato un monumentale omaggio postumo, La morte del Vazir Muchtar. Pubblicato in Russia ad un secolo esatto di distanza dalle tragiche vicende che lo hanno visto protagonista, il romanzo torna oggi in libreria, nella classica traduzione di Giuliana Raspi, per i tipi delle Edizioni Settecolori, grazie alla rabdomantica intuizione di Manuel Grillo.

La cifra particolarissima di questo libro decisamente inusuale, che si legge d’un fiato nonostante la mole considerevole, non riposa tanto nell’impietosa descrizione dell’aristocrazia moscovita, avviluppata nella soffocante ragnatela delle convenzioni sociali e minata nel profondo da una naturale familiarità con lo spirito cospiratorio, quanto piuttosto nell’assoluta estraneità del protagonista rispetto a quel mondo al quale pure appartiene per diritto di nascita. Scampato fortunosamente alla deportazione in Siberia solo perché le autorità inquirenti non sono riuscite a dimostrare il suo diretto coinvolgimento nella rivolta decabrista, Griboedov affronta il viaggio verso Tabriz, sede della remota legazione che gli è stata assegnata, come fosse una sorta di percorso iniziatico a ritroso nel tempo: nella spietata, esasperante inclemenza del clima e nella ruvida semplicità delle genti di una terra collocata ai limiti dell’Impero e quindi di quella che ai suoi occhi appare come la Civiltà, l’antieroe di Tynjanov spera di trovare un antidoto che contribuisca a lenire lo spleen che gli artiglia l’anima. Si immerge come in un lavacro lustrale in usi e costumi antitetici rispetto a quelli in nome dei quali ha vissuto, al punto da sposare una donna del posto. Smarrirsi nella ricerca dell’Altrove non basterà tuttavia a proteggerlo dagli strali della Storia. Inconsapevole pedina di un gioco molto più grande di lui, Griboedov morirà combattendo contro la folla inferocita che cinge d’assedio l’ambasciata russa a Teheran, lugubre prefigurazione del più celebre assalto al Palazzo d’Inverno, con la sola consolazione di un elogio funebre pronunciato dall’amico Aleksandr Puskin, secondo il quale rievocare la sua vita “invidiabilmente burrascosa dovrebbe essere compito degli amici. Ma da noi – chiosa il Poeta – le persone straordinarie scompaiono senza lasciare traccia”. Qualcuno, facendo eco alle sue parole, ha scritto che la Russia non si può comprendere con il metro della Ragione, poiché essa è in definitiva un fatto di Fede. E la Fede, si sa, spesso esige vittime di rango.

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Jurij Tynjanov, La morte del Vazir – Muchtar, Edizioni Settecolori, Milano 2022; pag. 583 € 26,00.

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