San Pietroburgo, inverno 1916. Le acque gelide della Neva restituiscono il cadavere di un uomo dalla corporatura possente e dai lineamenti ieratici incorniciati da una folta barba irsuta, l’identità del quale è ben nota al commissario della milizia cittadina accorso sul posto per il riconoscimento: si tratta di Grigorij Efimovic Rasputin, il mistico e guaritore, da molti acclamato come un santo e da altri esecrato quale incarnazione di Satana stesso, che da qualche tempo è accolto a corte come intimo confidente, confessore e guida spirituale dello Zar Nicola II e della Zarina Aleksandra, i quali, come in una fiaba triste di Afanas’ev, affranti e inconsolabili, vegliano e pregano in sua compagnia al capezzale del piccolo Aleksej, il fragile erede affetto dall’emofilia ricevuta in dote per via matrilineare dalla bisnonna Vittoria d’Inghilterra, che, com’è noto, non siederà mai sul trono di Russia. Accantonata ad un primo sommario esame l’ipotesi della tragica fatalità, nella mente degli inquirenti cominciano ad affastellarsi congetture sempre più allarmanti che convergono su un unico quesito, anzi due: chi ha ucciso lo stregone? E perché?
Nel tentativo di sciogliere l’intricato bandolo di questa matassa Dmitrij Miropol’skij, scrittore con alle spalle una solida carriera di drammaturgo e sceneggiatore, nato nel 1964 nella stessa città che fa da sfondo alla torbida vicenda narrata la quale, nel frattempo, è tornata a fregiarsi del nome del suo fondatore, nel romanzo L’ultimo inverno di Rasputin ricostruisce le conclusive sequenze di vita dell’enigmatico predicatore, offrendoci nel contempo uno spaccato a tutto tondo della Russia colta nella delicata fase di passaggio dall’Autocrazia alla Rivoluzione.
Originario di Pokrovskoe, piccolo villaggio di contadini dediti alle unioni morganatiche sperduto nel cuore della Siberia, un passato da ladro di cavalli, Rasputin scopre la fede in tarda età e comincia a far parlare di sé per le prodigiose capacità mnemoniche che gli consentono di recitare a memoria le Sacre Scritture, per le sue doti divinatorie e taumaturgiche, oltre che per gli eroici pellegrinaggi compiuti pedibus calcantibus nei principali luoghi di culto dell’Ortodossia. Giunto a San Pietroburgo nel 1905 per pregare di fronte all’icona della Vergine conservata nella cattedrale di Kazan e incontrare Giovanni di Kronstadt, viene notato dalla Principessa Milica di Montenegro, sposa del Granduca Pjotr Nikolaevic Romanov, che lo introduce a Carskoe Selo dove, sconfessando l’opinione dei medici che danno già lo Zarevic per spacciato, riesce con un preparato di sua invenzione ad arrestare miracolosamente le emorragie che lo affliggono. Entrato nelle grazie dei sovrani, il magnetico santone dispensa i propri consigli anche in altri ambiti, predicendo con esattezza l’esito disastroso della guerra contro il Giappone e l’imminente fine della dinastia. La sua influenza sulla famiglia imperiale è tale da indurre perfino gli agenti delle Potenze straniere operanti nell’ombra a servirsi del “caso” Rasputin per accelerare il tracollo della Russia e la sua uscita di scena dallo scacchiere del conflitto che nel frattempo ha incendiato l’Europa. Se da un lato Tedeschi e Austriaci sobillano i deputati corrotti della Duma perché orchestrino una campagna di stampa volta a screditare agli occhi dell’opinione pubblica il “Diavolo nero” che tiene in soggezione lo Zar condizionandone le scelte, dall’altro gli Inglesi si danno una gran premura per incontrare, in un’anonima pensione svizzera, un agitatore politico noto agli schedari della polizia elvetica come Vladimir Ilic Ulianov e organizzare quanto prima il suo rientro in patria attraverso la Finlandia.
Sapiente intreccio di ricostruzione storica e finzione letteraria, questo romanzo dal sapore poliziesco deve il suo punto di forza al fatto che l’Autore, aduso ai tempi e alle dinamiche narrative del teatro, segue in contrappunto le vicissitudini di un altro personaggio, Vladimir Majakovskij, il poeta simbolo della Rivoluzione che vuole forgiare le parole nell’acciaio, le peripezie del quale corrono attraverso la trama in parallelo rispetto a quelle del protagonista, fino al momento in cui i due incrociano i propri passi per le strade di San Pietroburgo, in un’ideale passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova Russia, appena un attimo prima che Rasputin trovi la morte per mano del suo improbabile assassino.
Se stesso come un altro, avrebbe chiosato Paul Ricoeur. Per Miropol’skij lo stregone è una sorta di Nemesi del poeta, la sua Opera al Nero, il suo doppio e, proprio per questo, l’uno si rispecchia nell’altro. Se Rasputin è un “invasato di Dio” che parla la lingua senza tempo di Avvakum, di Pugacev e dei tanti personaggi consumati da fervore religioso emersi dall’anonimato della steppa a guadagnare la ribalta, per Majakovskij, allievo in questo di Nikolaj Berdjaev, la Rivoluzione cela in sé una tensione totalizzante, un’ansia di Assoluto che la rende un fenomeno spirituale prima che politico, iscrivendola di diritto nel solco millenario della storia russa. Il rivoluzionario e il santo hanno lo stesso volto e condividono il medesimo destino. Corto Maltese, in quel bellissimo racconto per immagini che è La casa dorata di Samarcanda, dice che incontrare il proprio sosia porta sfortuna ad entrambi. Vero o falso che sia, il 14 aprile 1930 viene trovato il corpo senza vita di Majakovskij, freddato da un colpo di pistola al cuore…
Dmitrij Miropol’skij, L’ultimo inverno di Rasputin, Fazi Editore, Roma 2019; pag. 774, € 20,00.
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