Alle origini della moderna religione della Patria, fiorita in Italia agli albori dell’Ottocento, ci fu la mobilitazione di tanti nostri compatrioti sotto le insegne della Grand Armée napoleonica. L’indubbio accento posto prima dal giacobinismo e poi dal regime di Napoleone sul valore della mobilitazione nazionale fornì gli strumenti ideologici e l’occasione storica del risveglio. Anche se fu soltanto con i primi moti proto-risorgimentali – quelli del 1820-21 e del 1830-31 – che fu intessuto veramente un organico racconto intorno alle gesta dei martiri dell’idea nazionale.
Una recente pubblicazione ci permette di ripercorrere a fondo uno degli snodi essenziali della cultura nazionalista italiana, incentrata sin dai suoi esordi sul culto dei martiri dell’Idea e sulla devozione verso chi dona la vita per la nazione. Parliamo del libro La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Rebubblica (Donzelli), curato da Oliver Janz e Lutz Klinkhammer. Si tratta di un lavoro a più mani, in cui vari autori ripercorrono la storia di quella che è stata definita una vera “religione civile”, legata ai valori di redenzione sociale, etica e culturale del popolo e alla schiera dei suoi santi e dei suoi martiri, immolatisi per il bene comune nel corso di una vicenda plurisecolare. Mazzini e Garibaldi furono i più alti e conosciuti elaboratori del culto patrio fondato sul martirio. L’Apostolo fu un tenace edificatore del mito eroicizzante, facendo del sacrificio della vita un eloquente simbolo collettivo di mobilitazione, denso di significati politici. L’Eroe, a sua volta, introdusse nell’azione momenti di elevata drammatizzazione. Come nel 1848 quando, preparandosi alla guerra anti-austriaca, lanciò l’idea di un Battaglione Italiano della Morte, basato su un giuramento di sangue che così suonava: «Giuro sul mio onore, e sull’anima mia, di seguir sempre l’Italico vessillo… e di combattere e morire per la totale indipendenza dell’Italia…». Ancora Garibaldi, nella sua mistica sacrificale dell’azione guerriera, andava proclamando il volontariato come atto metapolitico e assoluto, di per sé alieno da calcoli razionali: «Io non chiederò mai se un’impresa sia possibile o no…». Ma, al di sotto del protagonismo di questi maggiori, un intero mondo di divulgatori e idealisti contribuì a fare dell’idea nazionale un fervido moto dello spirito, a costante contatto con valori di radicale e drammatica trascendenza. La storica Lucy Riall, nel suo capitolo su Il culto della morte eroica nel Risorgimento, non manca di riferirsi, ad esempio, alle celebrazioni delle spoglie di Rosolino Pilo – il patriota siciliano morto nel 1860 – avvenute nella chiesa palermitana di San Domenico. L’atmosfera era quella di una solenne liturgia, quasi un mistero della gloria trascendente: «La facciata e le finestre della chiesa erano rivestite di drappi neri, e sui muri esterni erano appese scritte che santificavano Pilo e altri eroi caduti per la patria. All’interno, nella chiesa oscurata, era collocata un’effigie del defunto illuminata da ceri tricolori, con la bara al centro, parzialmente nascosta all’interno di un enorme “mausoleo”…».
Sulla traccia di esemplificazioni di tale portata emotiva, si tendeva a realizzare quella comunità tra i vivi e i morti che è sempre stata al centro del nazionalismo radicale, in grado di saldare le generazioni in una genealogia sacra. Negli anni del Risorgimento questo assunto rimase fondamentale, e stava ad indicare la forza del destino che accomunava la stirpe autoctona al passato e al futuro. Sovraccarichi di tale simbologia, nella loro evidenza, erano i famosi versi di Luigi Mercantini nell’Inno a Garibaldi del 1859: «Si scopron le tombe, si levano i morti / I martiri nostri son tutti risorti!…». Anche i caduti partecipavano insomma alla gloria dei vivi.
Nel capitolo sul culto dei caduti della Grande Guerra, Oliver Janz induce ad osservare che qui si è oltre le retoriche “patriottarde” borghesi, ben dentro ad una religiosità in senso proprio. La potenza della memoria e della gloria nazionale prende il posto dell’Aldilà cristiano. E con linguaggi nuovi, in cui si ha la cosciente rivendicazione che l’Italia non è solo una famiglia storica e culturale, ma anche etnica e biologica. «L’idea della vita che continua e risorge nel futuro della nazione – scrive Janz – viene di frequente espressa attraverso un linguaggio di tipo biologico, che presenta la morte come momento di un ciclo naturale e come preparazione a una nuova vita». Questi richiami si abbinano alla sacralizzazione del sangue versato: «i caduti in quanto seme e germe della nuova Italia, l’immagine del sangue che imbeve e rende fertile il suolo sono tutte metafore che negano la morte…».
In effetti, la celebrazione nazionalista della morte non aveva nulla di cupo o necrofilo, esprimendo al contrario una concezione serena di accettazione dei limiti naturali. Ma potenziati: l’eternità della vita la si ottiene donandola, e affidandosi al ricordo. Temi che furono ulteriormente accentuati dal Fascismo, i cui motti e i cui riti sacralizzavano la morte e davano assicurazione che l’eroe defunto continuava la sua presenza nella comunità dei viventi. Per verificare quanto tali soggetti si siano poi integrati nell’ideologia fascista, si paragonino i versi del Mercantini, sopra ricordati, con la didascalia che a un certo punto compariva a pieno schermo nel film di Blasetti Vecchia guardia del 1934, rievocante l’epopea squadrista: «E insieme ai vivi / Marciavano i morti / Che all’appello del Duce / Eran tutti risorti…». Al centro della celebrazione del martire, gli anni della Grande Guerra svilupparono un ulteriore archetipo nazionale, e anche questo lo ritroveremo nella liturgia e nella pubblicistica fasciste: l’idea del “nuovo inizio” che attende la Patria, il rinnovamento e, infine, l’uomo nuovo, che apre grazie ai caduti una nuova civiltà. Come nel nazionalismo tedesco, anche in quello italiano la morte eroica non si conclude col gesto in sé, ma prelude a un futuro di gloria, di grandezza nazionale: «Ricaricata da una speranza politica nel futuro, di carattere quasi escatologico, l’idea del sacrificio acquisisce al di là della sua struttura civil-religiosa una sovrasignificazione utopica».
Col Fascismo il culto degli eroi diventa religione popolare, in cui vengono coinvolti tutti gli strati sociali e non solo la borghesia patriottica. È la nazionalizzazione del culto dei martiri. I sacrari della Rivoluzione furono i luoghi deputati alla liturgia. La cripta di Santa Croce a Firenze, in cui i martiri fascisti fiorentini riposavano accanto alle tombe dei grandi italiani, intendeva simbolizzare il fatto che il Partio fascista, erede dell’italianità, affidava ai suoi caduti della “vigilia” la medesima solennizzazione dei morti in guerra per la causa nazionale. Questi “testimoni della fede” ricevettero onori cerimoniali sin dall’inizio, tanto che la liturgia squadrista contemplò già dai primi anni l’appello del nome dei martiri, chiamati alla voce ed evocati con il “Presente!” gridato collettivamente. Roberta Suzzi Valli, che si occupa del culto dei martiri fascisti, ricorda tra l’altro l’ara votiva dei caduti della Rivoluzione, inaugurata nel 1926 sul Campidoglio, le cappelle dedicate ai caduti fascisti che sorgevano nelle Case del Fascio, il Sepolcreto dei martiri bolognesi inaugurato nel 1932 nel cimitero della Certosa, e poi i monumenti, i famedi, le targhe celebrative: tutti segnali che il Fascismo, che si considerava e nei fatti fu l’erede del Risorgimento e della Grande Guerra, riuscì a nazionalizzare il lutto collettivo dei morti per la Patria. Accentuando fortemente la trasformazione della morte «da fatto privato a evento politico». Del resto, lo squadrismo non fu che il prolungamento dell’arditismo della trincea, e il nazionalismo era confluito del tutto naturalmente nel Partito Nazionale Fascista. L’autrice di questo capitolo nota giustamente che le cerimonie fasciste dedicate al culto dei martiri erano intrise di ritualità cristiana, e non poteva essere diversamente vista la profondità della tradizione popolare cattolica all’epoca. Ma nota anche che, col procedere del Regime, la liturgia andò arricchendosi di nuovi contenuti e anche della presenza di una simbologia sempre più marcatamente fascista e sempre meno confessionale.
Molto interessante è poi lo studio di Francesco Germinario sulla morte nella Repubblica Sociale, cui dedichiamo un rapido commento. Le condizioni esasperate e drammatiche di quei brevi mesi portarono la tradizione combattentistica italiana all’estremo. Ne uscì una confidenza con la morte, specialmente tra i giovanissimi, che in molti casi fu quasi un pretendere il martirio come un lavacro. Le condizioni precarie della Patria, e i modi disonorevoli con cui l’Italia fu condotta all’armistizio, acuirono in molti combattenti fascisti – e anche in non pochi a-fascisti che militarono dalla parte di Salò – la volontà di lasciare un segno di eroismo ai posteri, cercando in qualche modo di riscattare l’onta che era stata gettata sulla nazione. Come scrive Germinario, a Salò «si muore per protesta contro la nazione e gli italiani e per dimostrare a se stessi che si appartiene al mondo dell’élite guerriera, ovvero per dimostrare davanti a un ipotetico Tribunale della Storia che non tutti gli italiani sono badogliani e affetti da codardia». Il culto della Patria e dell’offerta della propria vita, insomma, in quello spettacolo di tradimenti e di vigliaccherie che fu il periodo seguente all’8 settembre, tornò ad essere faccenda di scelte minoranze. La stessa idea tradizionale di nazione ne uscì scossa. E immediata fu la saldatura che si fece tra Fascismo repubblicano e repubblicanesimo mazziniano, tra il Fascismo, tragicamente abbandonato dalla massa del popolo, e il nazionalismo nascente dei volontari risorgimentali, anch’essi dolorosamente consci di essere ignorati, quando non odiati, dalle ostili masse contadine. Di fronte a un popolo che improvvisamente era tornato ad essere plebe allo sbando e massa imbelle, il Fascismo di Salò incarnò la stessa pretesa di rappresentare l’anima della nazione e il meglio della Patria, che era stata nei primi martiri ottocenteschi. Basta pensare al fenomeno del volontariato.
La parabola del culto dei morti per la Patria conosce oggi un ultimo capitolo. Sono noti gli atteggiamenti presidenziali e governativi degli ultimi anni. Si tende a divulgare una depotenziata e retorica forma di patriottismo che, per la verità, appare molto distante anche solo da quello risorgimentale. I padri del Risorgimento, ad esempio, non capirebbero le odierne ipocrisie circa guerre condotte affermando di “portare la pace”: erano abituati a santificare la guerra apertamente e senza inganni lessicali, quando in difesa dei diritti della nazione. Garibaldi, per dire, nel 1860 invocava la morte per l’Italia in qualunque modo fosse sopraggiunta: «A me basta che si tratti d’impresa italiana…». Altri tempi, si dirà. Ma soprattutto: altri uomini.
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Tratto da Linea del 12 dicembre 2008.
abu
Garibaldi voleva il bene ma commise il male , appoggiato ingenuamente dal povero mazzini