La crociera della nave corsara Komet e l’attacco all’isola di Nauru

Come già era accaduto nel corso della prima guerra mondiale, anche nella seconda la Marina tedesca affidò ad alcuni incrociatori ausiliari il compito di forzare il blocco inglese nel Mare del Nord e nel Canale della Manica, per condurre la guerra di corsa contro il traffico mercantile alleato insieme alle ben più numerose e agguerrite flottiglie di U-Boote.

Si trattava di una strategia ispirata a criteri di economia, dovendosi semplicemente riadattare alcune parti di comuni navi mercantili e dotarle di un modesto armamento, per essere in condizioni di infliggere al nemico danni potenzialmente assai gravi.

Nel periodo 1939-45 furono nove le unità corsare di superficie allestite dalla Germania, la maggior parte delle quali riuscì a tornare in patria, forzando il blocco una seconda volta, e affondando complessivamente 800.000 tonnellate di naviglio alleato.

A differenza dei sommergibili, gli incrociatori ausiliari erano non solo molto più visibili (benché adottassero un opportuno travestimento per camuffarsi da navi di Paesi neutrali), ma anche più vulnerabili in termini di autonomia, dovendo sempre dipendere dai rifornimenti di combustibile – ai quali erano addette alcune navi-appoggio – o che dovevano procurarsi da sé, catturando delle navi nemiche che ne trasportassero.

In ogni caso, il rifornimento doveva essere effettuato in alto mare, oppure in qualche località disabitata, come le Isole Kerguelen, nella parte più meridionale dell’Oceano Indiano, lontano da occhi indiscreti. Gli unici porti amici erano quelli controllati dai Giapponesi, che, dalla metà del 1942, comprendevano le ex Indie Orientali Olandesi, la Malesia e Singapore; e dagli Italiani (che però, a partire dai primi mesi del 1941, perdettero le colonie dell’Africa Orientale e conservarono a stento la Libia e il Dodecaneso.

Impossibile pensare anche all’utilizzo dei porti neutrali, nei quali le leggi internazionali davano accesso alle navi delle marine belligeranti per una sosta di sole 24 ore, pena l’internamento; senza contare il pericolo che le interferenze diplomatiche inglesi (e, più tardi, americane) forzassero i Paesi neutrali ad un comportamento poco amichevole verso le navi tedesche, come si vide – nel dicembre del 1939 – in occasione dell’affaire relativo alla «corazzata tascabile» Graf von Spee del comandante Langfsdorff, che si era rifugiata, in avaria, nel porto uruguaiano di Montevideo; e, prima ancora, in quello della nave-appoggio Altmark.

Il più piccolo dei nove incrociatori ausiliari tedeschi impiegati nel corso della seconda guerra mondiale, ma uno dei più audaci e fortunati, fu il Komet, che aveva una stazza di 3.800 tonnellate, una lunghezza di 115 metri e una larghezza di 15, e che viaggiava alla velocità assai modesta di circa 15 nodi. L’armamento principale consisteva in 6 cannoni da 150 mm.; l’equipaggio era formato da 19 ufficiali e 251 marinai

Noto anche come HSK 7 (HSK era l’abbreviazione di Hilfskreuzer, ossia incrociatore ausiliario) o, semplicemente, come Schiff 45 (Nave 45), era stato costruito nel 1937, solo due anni prima dello scoppio della guerra, come semplice nave da carico, denominata Ems. I lavori di trasformazione in nave da guerra ebbero luogo fra il 1939 e il 1940 e richiesero particolari accorgimenti, tra i quali il rinforzamento della prua, poiché la sua rotta iniziale avrebbe dovuto portarlo nei mari polari e consentirgli di aprirsi un varco in mezzo ai ghiacci galleggianti.

Il comando venne affidato a un ufficiale abile, esperto e molto coraggioso, il capitano di vascello Robert Eyssen, il quale non si sgomentò quando gli venne spiegato che avrebbe dovuto portarsi direttamente nell’Oceano Pacifico attraverso una rotta che non era mai stata tentata da esseri umani dopo l’impresa del forzamento del cosiddetto «Passaggio a nord-Est» da parte dell’esploratore svedese Adolf Erik Nils Nordenskjöld, con la nave Vega, nel 1877-79.

Salpato da Gotenhaven il 3 luglio 1940 e, travestito da piroscafo norvegese con il falso nome di Donau, dopo aver costeggiato la Scandinavia e aver doppiato Capo Nord, il Komet diresse verso Arcangelo; ma, oltrepassata la Penisola di Kola, invece di entrare nel Mar Bianco, proseguì nel mare di Barents fino alla Novaja Zemlja; indi, insinuatosi fra quest’ultima e la Penisola Vaigac, penetrò nel Mar di Kara, fuori da ogni rotta commerciale.

Per settimane la nave tedesca mantenne la prua in direzione Est, incuneandosi fra la banchisa polare e le coste gelate e deserte della Siberia, spesso dovendo aprirsi a forza la via nel pack, con l’idrovolante di bordo che si levava in volo per indicare la miglior direzione da prendere nel dedalo dei ghiacci galleggianti.

Fu un’impresa nautica di primissimo ordine, quella compiuta dal Komet in quella prima fase della sua lunghissima crociera, avvalendosi della benevola neutralità delle autorità sovietiche (era ancora in vigore il patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939); degna, già essa sola, di porre il comandante Eyssen e il suo equipaggio nel libro d’oro delle grandi imprese marinare.

Finalmente, dopo aver attraversato il Mar dei Laptev e il Mare della Siberia Orientale, l’incrociatore ausiliario oltrepassò il Capo Deznev e scivolò nello Stretto di Behring, entrando nell’aperto Oceano Pacifico, dopo circa un mese di navigazione pericolosa e difficilissima.

Qui giunto, assunse un nuovo camuffamento, quello del cargo giapponese Ideti Maru, riverniciando lo scafo e adottando alcune modifiche alle sovrastrutture. Tale trasformazione ebbe luogo in un angolo nascosto del Golfo di Anadyr; dopo di che, la Schiff 45 iniziò la sua avventurosa carriera di nave corsara, piombando del tutto inaspettata sulle navi britanniche in navigazione nel Pacifico occidentale.

Vi fu anche un incontro con un altro incrociatore ausiliario, l’Orion, comandato dal capitano di vascello Weyber e anch’esso destinato a compiere gesta notevoli.

La prima preda fatta dal Komet dopo la separazione dalla nave «collega», fu il vapore inglese Holmwood, non lungi dall’isola di Marcus, il 25 novembre 1940; il giorno dopo, fu la volta della grande nave passeggeri Rangitane, di ben 16.700 tonnellate. Entrambe vennero colate a picco e i loro equipaggi furono presi a bordo prigionieri, non prima che i tedeschi avessero prelevato quanto poteva tornare utile alle loro necessità.

Dopo aver scorrazzato fra gli arcipelaghi della Micronesia e della Melanesia, alla fine del dicembre 1940 il comandante Eyssen decise di compiere la sua impresa più spettacolare, l’attacco ai ricchissimi depositi di fosfati dell’isola Nauru (possedimento britannico situato fra le Isole Salomone e le Isole Gilbert), che costituivano una delle maggiori fonti di approvvigionamento strategico dell’industria bellica inglese.

Nella prima guerra mondiale, le azioni delle navi corsare contro la terraferma, comportanti uno sbarco di parte dell’equipaggio, si erano spesso rivelate disastrose: si pensi al taglio del cavo sottomarino delle Isole Cocos da parte dell’incrociatore Emden o, anche, al progettato sbarco a Port Stanley, nelle Falkland, da parte della squadra di von Spee (cfr., rispettivamente, i nostri articoli La crociera dell’incrociatore Emden e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914; e L’ultima crociera dell’Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland, novembre-dicembre 1914).

Questa volta, però, il comandate Eyssen poteva contare sul fattore sorpresa; cosa che non si era verificata per il tentativo di sbarco di von Spee alle Isole Falkland, allorché l’intera popolazione civile, comprese le vecchie signore, armata di cannocchiale, si erano messa a scrutare l’orizzonte, pronta a dare l’allarme al primo segnale di fumo che fosse comparso all’orizzonte.

Così descrive l’attacco all’isola di Nauru il saggista italiano Massimo Picollo nel suo libro Gli incrociatori corsari tedeschi. Le navi del tradimento (Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1971, pp. 29-33):

Quando ormai Sturm sparisce oltre l’orizzonte, il Komet vira bruscamente di 120° a dritta e fa rotta verso Nord-Est.

Da questo momento inizia a prendere corpo l’operazione 27, quell’impresa concepita e minutamente preparata dal comandante dello Schiff 45, mentre si dirigeva verso Sturm, e che renderà famoso per l’audacia e l’intraprendenza dell’azione il Komet ed il suo equipaggio: attaccare e rendere improduttiva per il maggior periodo possibile l’isola di Nauru.

Nauru è un atollo di 21 chilometri quadrati che sorge tutto solo sulla distesa dell’oceano a mezza strada tra le Gilbert e le Salomone. Tra militari inglesi, civili ed indigeni, la popolazione non arriva alle duemila persone. A vederlo da lontano sembra l’angolo più sperduto e pacifico del globo, ma in realtà esso ha un’importanza enorme e dal punto di vista economico e da quello militare. Infatti lì si trovano i più grandi depositi di fosfati di tutta la Micronesia, e le industrie belliche inglesi hanno un estremo bisogno di tali materiali, specialmente ora che stanno producendo il massimo sforzo per ridurre le distanze nei confronti del potenziale bellico tedesco. La vita sull’atollo è quindi un continuo andirivieni di autocarri dai depositi alle banchine,. E di navi che si susseguono sotto le gru di carico. Così mentre le marine del Commonwealth cercano affannosamente un mercantile armato tedesco a sud delle Gilbert, ad alcune centinaia di miglia più a nord-est il Komet naviga tranquillamente verso la sua preda. Una preda non più rappresentata da una nave, ma da un’isola.

È un’azione completamente diversa da quelle compiute finora: prima il corsaro incrociava alla cieca, o al massimo si dirigeva verso quelle acque che presumeva fossero frequentate da naviglio nemico; ora invece Eyssen sa dove andare, cosa lo aspetta e cosa fare: a un certo momento dritto di prua scorgerà all’orizzonte un punto nero, che man mano si ingrandirà sino a prendere le sembianze della ignara preda.

I preparativi a bordo dello Schiff 45 sono alacri e come al solito meticolosi. Per prima cosa il Komet provvede all’ormai consueto cambio d’abito: indossa le vesti del cargo nipponico Mango Maru che a Eyssen risulta al momento attraccato ai moli del porto di Amburgo. Cambia la colorazione delle fiancate; il cassero si arricchisce agli angoli di quattro alte maniche a vento; sui lati esterni delle murate appaiono le bandiere dell’Impero del Sol Levante. Anche questo, come i precedenti travestimenti, risulterà accuratissimo, tanto che gli inglesi di Nauru, finché non sentirono parlare tedesco, credettero di trovarsi di fronte un pacifico mercantile giapponese.

Preparata la nave, ora bisogna preparare gli uomini. Eyssen lascia che essi festeggino il secondo Natale di guerra e che si scambino i doni, più che altro per lasciarli svagare un po’. Quindi raduna gli ufficiali nel quadrato. Spiega sul grande tavolo una dettagliata carta di Nauru e con una matita rossa segna tanti circoli quanti sono i depositi di fosfati, quelli di carburante, la centrale radio e il comando militare. Sa che la guarnigione non supera i duecento uomini, e soprattutto sa che gli inglesi non l’aspettano. Vengono formate le squadre che dovranno occuparsi dei singoli obiettivi, a eccezione della stazione radio di cui si prenderanno subito cura, senza evidente possibilità di errore, i cannoni del Komet. Ormai tutto è preparato e previsto. Ai corsari non resta che togliere dalla naftalina la loro più smagliante divisa e aspettare.

A 60 miglia da Nauru il Komet si mette in ascolto radio. La prima cosa che i tedeschi sentono è un colloquio tra l’operatore dell’isola e un suo collega a bordo di un mercantile che chiede il permesso per l’attracco. Poi alcuni disturbi e quindi un brano di discorso in merito ad un presunto attacco di appendicite di un capo tribù locale che non ne vuole sapere di farsi curare. In complesso niente da cui possa arguirsi che gli inglesi aspettino una visita inattesa e sgradita.

Nel giorno di San Silvestro lo Schiffn 45 è in vista dell’isola.. Incomincia allora ad avanzare a zig-zag quasi governi solo con un’elica e con il timone. Subito la ricevente della nave incomincia ad emettere suoni dalla tipica cadenza albionica. Eyssen fa rispondere all’operatore, un nativo di Monaco, perfetto conoscitore dell’inglese e che per molti anni ha vissuto a Kyoto, che il Mangu Maru, mercantile della flotta del Sol Levante, carico di caucciù della Nuova Guinea, chiede di poter attraccare per riparare l’asse dell’elica di dritta che si è flesso. Alcuni minuti di silenzio perché gli inglesi possano controllare l’effettiva esistenza del mercantile giapponese nei ruoli navali e poi giunge autorizzazione. Non c’è tempo di complimentarsi con il radiotelegrafista per la perfetta recita che ogni uomo è pronto al suo posto.

Come il Komet si presenta all’ingresso in rada leggermente sbandato, subito riceve l’ordine di ancorarsi alla fonda in attesa che si liberi uno degli attracchi al momento tutti occupati da navi impegnate nelle operazioni di carico. Eyssen conta due grosse petroliere da almeno 2.500 tonnellate, un paio di carghi non molto più grandi del Komet ed una modernissima bananiera, certo da poco discesa dagli scali.

Il corsaro si mette al traverso per calare le ancore, ma invece di queste cala la sezione di fiancata di prua che nasconde sotto il falso ponte il cannone da 150 di dritta. La lunga volata punta sulla bianca palazzina sormontata dalla grande antenna radio: un breve rinculo e la costruzione esplode come un fuoco d’artificio. Lo stupore e la sorpresa a terra sono assolute. Solo la bianca nuvoletta che si leva dalla bocca del pezzo può indicare l’autore di tanto sconquasso. Ma il rombo della cannonata non si è ancora spento che già i piccoli cannoncini da 37 millimetri del Komet riducono a contorte ferraglie le due mitragliatrici pesanti contraeree piazzate dagli inglesi all’ingresso della rada, e già abbandonate dai serventi che erano accorsi, come tutti, a vedere cosa fosse successo ala centrale radio. Solo quando Eyssen fa innalzare sull’albero di maestra la bandiera di combattimento della Kriegsmarine, calare in mare le motobarche con le squadre da sbarco e chiedere al megafono la resa, pena la immediata totale distruzione, gli inglesi si rendono conto che il pacifico e malconcio cargo giapponese è in realtà una nave armata tedesca. L’impressione a terra è simile a quella che dovevano provare i pacifici abitanti di una cittadina costiera delle Antille ai tempi di Morgan vedendosi assaliti da un vascello pirata. I civili presenti al porto, almeno i bianchi che sanno che l’Inghilterra è in guerra con la Germania, se la danno a gambe verso l’interno; gli indigeni restano invece paralizzati più dallo stupore che dalla paura, non riuscendo a concepire come dei bianchi venuti da chissà dove possano prendere a cannonate degli altri bianchi.

Quando Eyssen sbarca sull’isola si vede venire incontro il residente inglese, un po’ bruciacchiato ed impolverato in quanto si trovava al pian terreno della stazione radio e inoltre piuttosto seccato, non potendo perdonare ai tedeschi, tra l’altro, di avergli mandato a monte il cenone di fine d’anno. Le squadre tedesche avevano ormai preso possesso dei punti chiave di Nauru, senza incontrare la più pallida resistenza. Anzi, nella confusione generale qualche ufficiale di Sua Maestà, rimasto ancora alla bandiera nipponica innalzata sul Komet, era fermamente convinto che il Giappone aveva dichiarato guerra all’impero britannico, bestemmiando perché era stato informato di ciò direttamente dai giapponesi. Gli inglesi non possono fare altro che arrendersi., Eyssen fa imbarcare tutti gli uomini non indispensabili a terra e ordina ai rimasti di rendere inutilizzabili le poche armi pesanti ancora efficienti nell’isola. Vengono quindi accuratamente minati tutti i serbatoi di nafta, le installazioni portuali e militari, i depositi di viveri e di fosfati, non senza aver prima prelevato tutto ciò che poteva tornar utile. Una mezza dozzina di cannonate ben dirette sistemano le navi alle banchine, e mentre alte cortine di fiamme e di fumo si levano dall’atollo, il Komet lascia la rada tranquillamente come era venuto, tra il sollievo generale dei polinesiani che, osservando la poppa della nave corsara che si allontana, vedono ritornare contemporaneamente un po’ di pace.

Non è passata un’ora dalla partenza del corsaro, che dalla curva dell’orizzonte sale il pennacchio nero di un mercantile che deve riempire le stive con i fosfati di Nauru.

Dopo questa impresa altamente spettacolare, il comandante Eyssen decise, saggiamente, di portare la sua nave in una zona dove il nemico, messo in allarme e deciso a vendicare l’affronto, non la potesse trovare facilmente; e, volta la prua a sud, raggiunse le acque dell’Antartide, passando così, inosservato, nell’Oceano Indiano.

Qui, per qualche tempo, concesse agli uomini e alla nave una pausa, in un ancoraggio segreto nelle remote isole Kerguelen, nominalmente territorio francese ma, in effetti, disabitate, e quindi al sicuro da possibili sorprese; tanto più che l’arcipelago – situato oltre il 50° parallelo Sud – era posto molto lontano dalle normali rotte di navigazione commerciale.

Proprio la relativa sicurezza del luogo ne fece, durante la guerra, una delle più frequentate basi delle navi corsare tedesche; il Komet, infatti, vi incontrò un altro incrociatore ausiliario destinato a una notevolissima carriera, il Pinguin. Il paesaggio, peraltro, era tetro e opprimente, il clima freddo ed estremamente umido (cfr. F. Lamendola, Il «mistero» delle Isole Kerguelen). Per cui non fu senza un certo sollievo che, infine, i marinai del Komet accolsero la decisione del loro comandante di levare le ancore da quel pur sicuro rifugio e dirigere la prua a Nord-Ovest, verso il Madagascar.

Non trovando prede, la nave corsara – dopo aver effettuato un rifornimento di carburante, in luglio, dalla nave-cisterna Anneliese -, doppiò il capo di Buona Speranza; indi attraversò l’Atlantico meridionale e, per la rotta di Capo Horn, passò nuovamente nel Pacifico, questa volta proveniente da Sud-Est.

Risalita fino alla linea dell’Equatore, la nave corsara individuò allora un buon campo di caccia nei paraggi delle Isole Galapagos, ove riuscì a catturare e affondare diverse navi mercantili alleate, tra le quali l’Australind, di 5.000 tonnellate, e il Devon, di 9.000. Poco dopo il Komet ebbe anche un incontro con il famoso corsaro Atlantis del capitano Rogge, dopo di che riprese la rotta del Capo Horn e tornò in Atlantico per tentare il rientro in patria, trascinandosi dietro l’ultima nave mercantile catturata, l’olandese Kota Nopan, stipata di prigionieri.

In quest’ultima fase della sua crociera, la Schiff 45 abbandonò le sembianze del mercantile giapponese Ideti Maru per assumere il suo ultimo travestimento, quello del portoghese S. Thomé, riverniciando interamente lo scafo, le sovrastrutture, gli alberi e il fumaiolo.

La sua crociera sarebbe, tuttavia, finita tragicamente prima di aver tagliato la linea dell’Equatore, se due cacciatorpediniere britannici, che l’avevano fermata, non fossero stati sorpresi a loro volta da un sommergibile tedesco, che ne affondò uno e mise in fuga l’altro.

Così, dopo avere imboccato il Canale di Danimarca, il Komet riuscì a superare per la seconda volta il blocco inglese nel Mare del Nord e ad entrare nel porto di Kiel, sano e salvo, il 30 novembre 1941, fiero dei successi riportati.

In questa prima crociera, la nave del comandante Eyssen si era spinta in tutti e tre gli oceani, entrando nel Pacifico addirittura due volte; aveva ripercorso il leggendario «Passaggio a Nord-est», costeggiando la Siberia settentrionale; aveva navigato fra i ghiacci antartici, passando a sud dell’Australia; e aveva catturato dieci navi alleate, colandone a picco nove (per una stazza complessiva di 64.500 tonnellate) e portando in Germania l’ultima.

Il Komet tentò di intraprendere una seconda crociera nell’ottobre del 1942; ma, questa volta, la fortuna – che lo aveva generosamente assistito nella prima – lo abbandonò di colpo.

Poco dopo aver lasciato la Germania, infatti, venne sorpreso e affondato da una silurante inglese nel Canale della Manica, attraverso il quale aveva cercato di passare in Atlantico.

Questa volta non lo comandava il capitano Eyssen, ma il capitano Ulrich Brocksien, che trovò la morte nelle onde, insieme all’intero l’equipaggio.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Gabriele
    | Rispondi

    Interessantissimo

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