La crociera dell’incrociatore tedesco Emden nella prima guerra mondiale e le notevoli gesta del suo cavalleresco comandante, Karl von Müller, costituiscono una pagina di storia particolarmente avventurosa e interessante, che reca ancora un sapore d’altri tempi.
Quella nave da guerra inafferrabile che cola a picco un bastimento mercantile dopo l’altro, mostrando la massima cortesia verso i suoi prigionieri; che penetra audacemente in un porto nemico ben munito e, dopo aver distrutto un incrociatore avversario, si ferma e torna indietro per porgere le scuse al capitano di un mercantile colpito per errore, prima di affrontare e distruggere una cannoniera che gli è venuta incontro, sono imprese che ricordano situazioni del passato, quando il valore individuale si sposava con la perizia tecnica, e la determinazione non escludeva un contegno umanissimo nei confronti del nemico, e specialmente dei civili.
Uno storico inglese ha scritto, a proposito di von Müller, che egli «guadagnò l’ammirazione del nemico per l’abilità, lo spirito d’iniziativa e il coraggio con i quali combatté tanto a lungo, e per la cavalleria e il senso di umanità che dimostrò».
E lo scrittore americano John Jennings, ha scritto, nel suo libro Emden nave corsara (titolo originale The Raider, 1963; tradizione italiana di Sebastiano Morin, Longanesi & C., Milano, 1968, pp. 4-5):
L’Emden era dall’altra parte, durante il conflitto 1914-1918. Era nemico della Russia da principio, poi della Francia, poi dell’Inghilterra, e infine del Giappone, prima che la sua carriera fosse troncata da un incrociatore australiano. Sarebbe stato anche nemico nostro se fosse sopravvissuto abbastanza. E tuttavia neppure da parte dei suo più acerrimi nemici v’è mai stata critica o disprezzo alcuno della sua condotta. Ha combattuto la sua guerra nell’unico modo che gli era possibile: nel modo che ci si attendeva da parte sua. Da solo e con onore, coraggiosamente, audacemente, con risolutezza e soprattutto con un tocco di generosità e cavalleria; qualità che sembrano ormai scomparse per sempre dalla guerra.
Se non possiamo ammirare i principi per i quali il suo equipaggio combatteva, bisogna pur riconoscere il coraggio delle loro convinzioni. Tutto ciò che fin dalla fanciullezza era stato insegnato loro a onorare, rispettare e venerare, si trovava a bordo; e dal momento in cui si distaccarono dalla squadra, fuori di Pahang, e diressero a sud per la loro solitaria missione nell’Oceano Indiano, non poteva esservi stato nella mente di ciascun uomo a bordo neppure un solo momento di dubbio circa il loro ultimo destino. Sapevano che con quell’atto stesso essi diventavano un bastimento senza porto, e uomini senza casa. V’erano nel mondo pochi porti che fossero pronti a riceverli, e quei pochi si trovavano molto lontano, metà del giro del mondo, ed erano preclusi a loro. Solamente fino a che i viveri e il combustibile duravano essi potevano tener liberamente il mare. Dopo, la fine era ovvia: prima o poi la trappola doveva scattare e allora sarebbero stati presi. Per alcuni (quanti, chi poteva dirlo?) poteva significare soltanto la morte. Per altri vi sarebbe stata una vita che non era vita: ciechi, mutilati, storpi. Per i rimanenti, salvo per quei pochissimi che fossero riusciti con qualche impensato stratagemma a fuggire, vi sarebbe stata la vita da prigioniero di guerra per un tempo indefinito e in condizioni sconosciute.
E tuttavia anche sapendo tutto ciò nessuno di loro, neppure per un solo istante, ha esitato. Fino all’ultimo uomo rimasero saldi e leali verso gli ideali e le concezioni nelle quali credevano, ai principi che avevano giurato di difendere. Se poi quelle concezioni e principi fossero giusti o sbagliati non spetta a noi giudicare qui. Noi onoriamo gli uomini che avevano avuto la forza di far fronte al destino senza vacillare nel sostenere le loro credenze, e la nave che essi conducevano.
Abbiamo già avuto modo di delineare un profilo sintetico delle imprese dell’Emden nell’articolo L’ultima crociera dell’Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland, novembre-dicembre 1914 . In questa sede ne intendiamo tracciare un quadro un po’ più dettagliato.
L’Emden era un incrociatore leggero impostato nel 1906 nell’Arsenale di Danzica (allora città tedesca), varato il 26 maggio 1908 ed entrato in servizio effettivo il 10 luglio 1909. Come le altre navi della tedesche della medesima classe, era più piccolo, meno veloce, meno protetto e meno armato degli incrociatori leggeri britannici. In particolare, essendo dotato di cannoni da 105 mm., si trovava in condizioni di netta inferiorità rispetto ai pezzi da 152 delle navi inglesi. Ciò significava che, in caso di combattimento, il nemico avrebbe potuto colpirlo grazie alla sua gittata maggiore, nonché tenersi costantemente fuori tiro, mediante la superiore velocità.
L’Emden dislocava 3.600 tonnellate (4.200 a pieno carico), era lungo 118 metri e largo 13,5, e pescava 5,5 metri. L’apparato motore consisteva di 2 motrici verticali a 3 cilindri a triplice espansione, alimentate da 12 caldaie a carbone, capaci di sviluppare una potenza di 13.500 cavalli e una velocità massima di 24 nodi. Il suo armamento comprendeva 10 cannoni da 105 mm., otto da 52 mm. e 2 lanciasiluri da 450 mm. La protezione orizzontale andava dai 20 agli 80 mm., con gli scudi dei cannoni di 50 mm.; le corazze metalliche del palco di comando erano di 100 mm.: anche da questo punto di vista, era una nave assai meno protetta delle similari unità della marina britannica.
L’equipaggio era formato da 18 ufficiali e 343 marinai. Lo comandava il conte Karl von Müller, capitano di fregata, nato ad Hannover nel 1873 da una famiglia di Junkers prussiani; aveva dunque, allo scoppio della guerra, appena quarant’anni. Tra i suoi ufficiali vi era anche un nipote del Kaiser Guglielmo II, il principe Franz Josef Hohenzollern, che in seguito avrebbe narrato la crociera della nave corsara in un pregevole libro di memorie.
Quando scoppiò la prima guerra mondiale, l’Emden si trovava in Estremo Oriente e faceva parte della Squadra degli incrociatori dell’Ammiraglio Maximilan von Spee, con base a Tsingtao. In quel momento la squadra era sparpagliata su di una vasta zona dell’Oceano Pacifico. L’Ammiraglio, con i due incrociatori corazzati Scharnhorst e Gneisenau e con alcune carboniere, si trovava all’ancora nell’isola di Ponapé nelle Caroline, sede di una antica e misteriosa civiltà che aveva costruito delle ciclopiche muraglie in pietra squadrata, di cui si potevano – e si possono – ancora ammirare i resti impressionanti (vedi F. Lamendola, Le gigantesche rovine di Nan Madol, nelle isole Caroline, sono delle vestigia della civiltà di Mu?, consultabile sul sito di Edicolaweb e di Arianna Editrice). L’Emden, invece, era rimasto a Tsingtao, la sentinella tedesca sulla penisola dello Shantung, nel Mar Giallo. Il Nürnberg, infine, si trovava sulla via del ritorno da San Francisco e il Leipzig era addirittura sulle coste della California.
Poco dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia, il 1° agosto 1914, l’Emden ebbe la ventura di catturare un piroscafo russo, il Riasan, che, in Estremo Oriente, fu la prima vittima del conflitto scoppiato nella lontana Europa in seguito all’eccidio di Sarajevo. La cattura della nave riusa ebbe luogo, la notte del 4 agosto, nello Stretto di Tsushima, ove von Müller si era portato allo scopo di intercettare il traffico nemico sulla rotta Nagasaki-Vladivostok.
Subito dopo, riportata la preda a Tsingtao e saputo dello stato di belligeranza anche con la Francia e la Gran Bretagna, il comandante dell’Emden decise di lasciare al più presto la base sulla costa cinese, per non lasciarvisi intrappolare dal probabile blocco che il nemico vi avrebbe posto (a differenza del comandante della vecchia corazzata austro-ungarica Kaiserin Elisabeth che, preferì rimanervi, partecipando alla sua difesa); e si diresse velocemente verso l’isola di Pagan, nell’arcipelago delle Marianne, ove l’Ammiraglio Spee aveva dato convegno alle sue sparse unità leggere.
A Pagan vi fu una conferenza dei comandanti a bordo dello Scharnhorst, in cui fu stabilito che la squadra avrebbe intrapreso la traversata del Pacifico meridionale, per portarsi nelle acque del Cile, Paese neutrale che manteneva un benevolo atteggiamento verso gli Imperi Centrali, anche in ragione della forte presenza finanziaria tedesca e di una numerosa e intraprendente colonia di immigrati germanici. Di lì, poi, si sarebbe tentata la via del rientro in patria, doppiando il Capo Horn e risalendo l’Oceano Atlantico in tutta la sua lunghezza.
In quella sede, tuttavia, il comandante von Müller chiese e ottenne da von Spee il permesso di separarsi dal nucleo principale della squadra, per spostarsi nelle acque dell’Oceano Indiano e là condurre, con le sue sole forze e con l’appoggio di poche navi carboniere, la guerra di corsa contro il traffico mercantile delle potenze dell’Intesa. Soli e senza alcun porto amico in cui rifornirsi e riparare eventuali avarie, gli uomini dell’Emden erano perfettamente consapevoli che la loro crociera avrebbe potuto concludersi in un modo solo, cioè con la cattura o la distruzione della loro nave, in un tempo relativamente breve; tuttavia erano decisi a infliggere il maggiore danno possibile all’avversario.
Così, il 14 agosto, l’incrociatore leggero Emden si era separato dallo Scharnhorst, dal Gneisenau e dal Nürnberg e, lasciata Pagan, aveva volto la prua a sud-ovest, con l’intenzione di passare nell’Oceano Indiano, sua futura «riserva di caccia», attraverso lo Stretto di Lombok, nelle Indie Orientali olandesi, anch’esse territorio neutrale. Lo accompagnava nella sua missione la nave ausiliaria Markomannia.
Lungo la strada si era incontrato dapprima col piroscafo tedesco Prinzessin Alice che, però, non potendo seguirlo per un’avaria alle caldaie, fu spedito alle Filippine (statunitensi dal 1898, e perciò neutrali); indi con la cannoniera Geier, fuggita dall’Africa Orientale Tedesca, che venne inviata alle Hawaii, territorio statunitense, ove subì l’inevitabile internamento, a norma delle leggi internazionali.
Giunto all’isola di Timor, von Müller ebbe le prime serie difficoltà per il rifornimento del carbone, che le autorità olandesi vollero impedirgli e che poté effettuare, invece, nell’ancoraggio portoghese di Nusi Besi. Quindi, per passare attraverso gli stretti passaggi delle Isole della Sonda strettamente vigilati dalle navi britanniche, l’Emden ricorse a uno stratagemma: innalzato un quarto, posticcio fumaiolo, si camuffò da incrociatore inglese e riuscì a superare quel difficile tratto di mare, intensamente pattugliato dal nemico.
Nell’Oceano Indiano l’Emden fu per molte settimane una spina dolorosa nel fianco della marina britannica. La guerra di corsa da esso condotta con straordinaria fortuna e perizia – sempre caratterizzata da un comportamento cavalleresco degno d’altri tempi – causò ingenti danni al commercio inglese. Complessivamente l’Emden si impadronì di 22 navi mercantili, delle quali 16 vennero affondate, 2 utilizzate come carboniere e 4 vennero rimandate libere con gli equipaggi delle varie prede, illesi e reduci da un trattamento umanissimo, tale che gli stessi avversari non poterono fare a meno di mostrare rispetto e perfino ammirazione nei confronti di quella moderna nave corsara.
La guerra di corsa condotta dall’incrociatore ebbe, inoltre il duplice effetto di far salire alle stelle i prezzi delle assicurazioni sulle navi mercantili inglesi e di ritardare enormemente le partenze dei trasporti di truppe australiane e neozelandesi per i campi di battaglia in Europa, che – ad un certo punto – ne risultarono quasi paralizzati.
La «tecnica» con cui von Müller era in grado di localizzare le navi alleate e di attenderle al varco era quanto mai semplice e persino primitiva: consisteva nel seguire attentamente le trasmissioni radiotelegrafiche delle stazioni a terra e nel leggere le notizie riportate dai giornali trovati a bordo delle sue prede.
Il 22 settembre l’Emden bombardò i depositi di petrolio di Madras, in India, incendiandoli per almeno 2 milioni di litri e sfuggendo, quindi, all’inseguimento dell’incrociatore corazzato Hampshire. È degno di nota il fatto che la nave tedesca, presentatasi davanti alla grande città indiana col favore del buio, la trovò completamente illuminata, come in tempo di pace. Le autorità inglesi, infatti, non avevano minimamente immaginato di potersi venire a trovare in zona di operazioni, ad opera del piccolo incrociatore tedesco, giù braccato da numerose unità da guerra di quattro nazioni: inglesi, francesi, russe e giapponesi.
Il 28 ottobre il corsaro spinse la sua temerità fino al punto di presentarsi davanti al munito porto di Penang, sulla costa orientale della Malesia. Vi penetrò all’alba e con due siluri vi affondò l’incrociatore russo Yemtschug, di 3.000 tonnellate, che si trovava all’ancora; quindi, nell’uscire dal porto, affondò a cannonate il cacciatorpediniere francese Mousquet che lo aveva coraggiosamente affrontato e si allontanò, facendo perdere le proprie tracce al cacciatorpediniere Pistolet che aveva tentato d’inseguirlo.
Nel corso di questa azione, dopo l’affondamento dello Yemtschug (il cui comandante si trovava a terra al momento dell’attacco, e che venne poi processato per negligenza da una corte marziale ed espulso dalla marina), mentre usciva dal porto la nave tedesca aprì il fuoco contro un bastimento che, nella luce incerta e a causa della rifrazione, era stato scambiato per un incrociatore inglese. Non appena fu chiarito l’errore – che, fortunatamente, non aveva provocato alcuna vittima -, von Müller volle tornare indietro per scusarsi personalmente con quel comandante, prima di fronteggiare il coraggioso ma disperato attacco del Mousquet che, a sua volta, aveva dapprima scambiato l’Emden per una unità amica.
La fine dell’Emden giunse rapida e inattesa, allorché il capitano von Müller prese la decisione di distruggere la stazione radiotelegrafica inglese delle isole Cocos, un gruppo di ventisette atolli corallini situati a nord-ovest dell’Australia, dei quali due soli abitati (West e Home), e di tagliare il cavo sottomarino che ad essi era allacciato.
Notiamo, per inciso, che molte navi tedesche impegnate nella guerra di corsa sugli oceani trovarono la loro fine proprio in seguito alla decisione di non limitarsi alla cattura delle prede in mare, ma di imbastire operazioni contro obiettivi nemici sulla terraferma.
L’incrociatore Karlsruhe saltò in aria dopo che il suo comandante, Koehler, volle dirigere sulla colonia britannica dell’isola Barbados, nelle Antille, il 4 novembre 1914, per effettuarne il bombardamento. Questa impresa avrebbe dovuto essere il coronamento di una fortunata crociera, nel corso della quale erano state colate a picco 17 navi mercantili alleate, per una stazza complessiva di circa 70.000 tonnellate.
Il destino della squadra di von Spee fu deciso allorché questi, dopo la vittoriosa battaglia di Coronel nelle acque cilene, invece di risalire l’Atlantico nella massima segretezza, volle attaccare la colonia inglese di Porto Stanley, nelle Isole Falkland, per catturarne il governatore e «vendicare» così la cattura del governatore tedesco delle isole Samoa da parte delle forze neozelandesi. Così, per ragioni puramente di prestigio, furono trascurate le più evidenti norme strategiche, in una azione che, anche riuscendo, avrebbe comportato un ritardo nella navigazione e delle perdite umane, indebolendo gli effettivi della squadra e, quindi, l’efficienza delle navi in vista di una nuova battaglia navale.
Quest’ultima circostanza – ossia di dover sostenere un combattimento con l’equipaggio ridotto, a causa di una operazione di sbarco – fu appunto quella che si verificò nel caso dell’Emden davanti alle isole Cocos.
Il 9 novembre, accompagnato dalla nave scorta Buresk, l’incrociatore tedesco era arrivato davanti all’isola Direction e vi aveva sbarcato un distaccamento di 3 ufficiali e 45 marinai per mettere fuori uso la stazione radio.
Questa, però, fece in tempo a lanciare un ultimo, disperato messaggio di soccorso, che fu raccolto – anche se non compreso – da un convoglio britannico diretto in Europa e scortato da numerose navi da guerra. Erano l’incrociatore corazzato Minotaur, che alzava le insegne dell’Ammiraglio Jerram, gli incrociatori leggeri Melbourne e Sydney della squadra australiana; e il giapponese Ibuki.
Il comandante di quest’ultimo, desideroso di battersi, chiese il permesso di poter effettuare un sopralluogo alle isole Cocos, per verificare la situazione; ma l’Ammiraglio Jerram non accondiscese, dato che l’incrociatore giapponese era l’unità più potente della sua squadra ed egli, giustamente, considerava suo compito prioritario quello di proteggere il convoglio che gli era stato affidato. È il caso di ricordare che tale convoglio aveva dovuto rinviare già due volte la partenza, proprio a causa delle presenza dell’Emden nella zona orientale dell’Oceano Indiano; e che l’Ammiragliato di Londra si era deciso a farlo partire, al terzo tentativo, solo dopo aver messo insieme quella poderosa squadra di scorta.
Per vedere che cosa stesse accadendo alla stazione radiotelegrafica delle isole Cocos, pertanto, Jerram distaccò il Sydney, al comando del capitano John Glossop; tuttavia stabilì che, se questo non fosse tornato, prima il Melbourne e poi l’Ibuki sarebbero andati a prenderne il posto. A partire da quel momento, pertanto, la sorte dell’Emden era segnata.
Intanto, alle 7,30 il distaccamento sbarcato dalla nave tedesca abbatté l’antenna e distrusse la stazione radiotelegrafica; indi tagliò i cavi sottomarini, li rimorchiò con le imbarcazioni e li lasciò cadere al largo.
Alle 9,00 le vedette dell’Emden avvistarono una nube di fumo all’orizzonte e von Müller, ritenendo erroneamente di aver a che fare con l’incrociatore Newcastle, di armamento e velocità all’incirca pari a quelli della sua nave, prese il largo per dare battaglia, senza avere il tempo di riprendere a bordo i marinai sbarcati, e quindi con l’equipaggio incompleto. In realtà, il Sydney era più potente, più veloce e più protetto dell’Emden; la sua fiancata di 226,5 kg. surclassava di quasi tre volte quella della nave tedesca, di soli 80 kg.
Nonostante le sue evidenti condizioni di inferiorità, la nave tedesca accettò il combattimento e si batté valorosamente, colpendo almeno 16 volte l’avversario; ma il Sydney, grazie alla sua maggiore velocità, si portò fuori tiro dei pezzi da 105 mm. dell’avversario, continuando a martellarlo coi suoi calibri da 152.
Ecco come il principe Franz Josef Hohenzollern, tenente torpediniere a bordo dell’Emden, ha narrato la sua esperienza diretta del combattimento nel suo libro di memorie L’incrociatore «Emden» (traduzione italiana di Pfützer-Gabi-Bauerr, Omero Marangoni Editore, 1932, pp. 196-201):
… Alle 9, 15 fu dato ordine al gruppo di sbarco con segnali Scott di terminare le distruzioni e di affrettare l’operazione di ritorno perché il tempo previsto era già trascorso.
Qualche minuto più tardi, la vedetta informò che la nave che noi avevamo creduta il Buresk s’avvicinava a tutta velocità, ed aveva gli alberi molto alti come le navi da guerra inglesi. Subito dopo, la nave issò effettivamente la bandiera di guerra inglese…
Nessun dubbio vi era sulla sorte che ora ci attendeva: un combattimento aspro e difficile tra l’Emden e la nave inglese!…
Quantunque si presentasse difficile questo combattimento, la fiducia nel valore del nostro equipaggio, la provata audacia del comandante dell’Emden, era in tutti così forte, che cullavamo la speranza di riuscire ancora una volta ad avere il sopravvento e la vittoria; eravamo sicuri di un combattimento glorioso.
Il comandante immediatamente fece suonare l’allarme ed ordinò: «Tutti pronti per il combattimento!». La sirena fischiò ripetutamente per richiamare la compagnia di sbarco.
I minuti erano preziosi, ogni ritardo poteva causare l’irreparabile. Passò qualche minuto; ora non avevamo più tempo per attendere il ritorno dei 50 uomini. Bisognava mettere le macchine sotto pressione per ottenere dall’Emden la massima velocità.
Alle 9,30 si levò l’ancora e l’Emden manovrò incontro al nemico.
Fin qui, ero rimasto sul ponte, ma il dovere mi chiamò al posto di combattimento, nel compartimento dei tubi lancia-siluri. Qui tutto era già preparato; informai il Blockhaus. Verificammo ancora i dispositivi di lancio, e tutti gli altri congegni di manovra con la più scrupolosa cura; l’ardente desiderio di combattere ci esaltava.
Le scosse della nave, causate dalle macchine sotto pressione, erano indice che l’Emden marciava molto forte.
Non passò molto tempo che la nostra artiglieria aprì il fuoco. Col respiro sospeso, attendevamo le risposte… ma non sentimmo arrivare nessuna granata inglese. Il nemico doveva tirare male.
Verso le 10, le prime granate scoppiarono in prossimità del compartimento dei tubi; feci ispezionare il doppio fondo e le camere per vedere se l’acqua entrasse. Solo in questo modo si poteva esattamente rendersi conto se dei proiettili avevano colpito la nave allo scafo.
Alle 10,20 una granata colpì il ponte corazzato sopra il compartimento lancia-siluri, di traverso sott’acqua. Una terribile detonazione! La scossa fu così violenta che il nostro torpediniere-meccanico, che era davvero un pezzo d’uomo nel vero senso della parola, venne buttato a terra dallo spostamento d’aria. L’effetto fu così comico che (malgrado la gravità della situazione) non potemmo trattenere il riso.
A causa dell’esplosione della granata, si era prodotto uno squarcio nel ponte corazzato di modo che l’acqua ed il gas invasero il nostro compartimento. Ci mettemmo subito i nostri batuffoli anti-gas (non si conoscevano ancora le maschere) che ci resero l’aria respirabile.
I miei uomini cercarono poi di rattoppare alla meglio lo squarcio nel ponte corazzato con delle tavole e delle coperte, tutto quello che si trovava nel compartimento. Momentaneamente ciò bastava. Ma poi dovetti chiedere l’aiuto dei carpentieri di servizio a prua per eseguire questo lavoro; essi però erano già occupatissimi per altre riparazioni. I nostri rattoppi di fortuna erano insufficienti e non impedivano all’acqua ed al gas di penetrare nel nostro compartimento. Nulla si poteva fare contro l’acqua, ma, per lottare contro i gas velenosi, feci uscire l’aria compressa delle bombole che servono per caricare le camere dei siluri. Potemmo allora respirare un po’ meglio. Diedi ordine al compartimento delle macchine a dritta dove si trovava la pompa per l’aria compressa dei siluri, di caricare di nuovo il collettore. Ebbi nessuna risposta… questo scompartimento doveva essere già stato distrutto. Chiamai allora il Blockhaus.
Le numerose esplosioni di colpi che si susseguivano sulla nostra nave, dimostravano che gli inglesi erano riusciti a regolare il loro tiro. Qualche granata scoppiò con fracasso spaventevole sul ponte corazzato proprio all’altezza del nostro compartimento. Noi eravamo stupiti nel vedere che la corazza, sotto simili colpi, non era stata ancora completamente squarciata.
Eravamo avidi di notizie; ma non era nemmeno il caso di interpellare il Blockhaus: il nostro comandante aveva ben altre cose da fare e non poteva distrarsi nemmeno per un secondo.
Dopo un po’ di tempo ci pervenne questo richiamo: «Compartimento lancia-siluri pronto?» al quale rispondemmo: «Tutto è pronto!».
Verso le ore 10,25 ricevemmo l’ordine: «Preparate per il lancio a dritta!».
Il tubo venne tosto messo a posto. Eravamo tutti contenti e speravamo vivamente che la nostra arma entrasse a far parte del combattimento.
Speranza vana… ahimé!…
I miei uomini lavoravano con la più perfetta calma, come durante gli esercizi, nonostante che l’acqua (che già ci arrivava alle caviglie) rendesse molto più difficile il loro compito. Ad ogni virata e sobbalzo della nave, l’acqua sbatteva violentemente contro le pareti dello scompartimento. Ciò era molto fastidioso perché dovendo caricare di nuovo un tubo (operazione questa da eseguire con la massima sollecitudine) gli uomini rischiavano di scivolare e di cadere, con grande pericolo della vita.
Potevano essere le 10,45 quando sentimmo una scossa d’una violenza indimenticabile; questa però non doveva provenire dallo scoppio di una granata, perché il rumore era stato troppo sordo. Supponemmo che l’albero si era abbattuto, come ci venne confermato più tardi. L’Emden fortunatamente non era stato ancora colpito da colpi mortali; era stato centrato il ponte corazzato, ma nessun proiettile lo traversò; il più terribile era stato l’ultimo ricevuto.
Verso le ore 11, una granata scoppiò nuovamente sulla nostra nave sotto la linea d’immersione. La violenza dell’esplosione spense tutte le lampadine del compartimento dei tubi lancia-siluri. Ricorsi subito all’illuminazione di soccorso, che almeno ci permetteva di renderci conto dei danni dell’esplosione. Lo squarcio non era molto largo, ma era lungo ben 40 centimetri: attraverso si vedeva il chiarore dell’acqua del mare. Il nostro compartimento fu di nuovo invaso dal gas. Tre dei miei uomini vennero feriti dalle schegge alle gambe; ma fortunatamente potevano ancora combattere. Non avevamo più materiale per arrestare l’acqua che entrava ed il nostro compartimento era talmente invaso dai gas velenosi che bisognò abbandonarlo. Correvamo pericolo di rimanere asfissiati poiché i nostri batuffoli contro il gas erano del tutto insufficienti. Informai così il Blockhaus: «Il compartimento dei siluri è invaso di gas e di acqua, è necessario abbandonarlo». Diedi nello stesso tempo ordine ai miei uomini di uscire.
Cercammo di giungere in coperta attraverso la rete blindata, ma non fu possibile perché era fortemente contorta. Non ci rimase altro che tentare di poter uscire attraverso le aperture dei siluri. Feci prima rimettere a posto il riquadro perché l’acqua non potesse salire nei compartimenti al di sopra del nostro. Ci arrampicammo sul tubo di sinistra, un uomo fu sollevato per mollare il riquadro. Egli gridò a dei camerati che si trovavano all’esterno dell’apertura, poi si arrampicò ancora più in alto e fu tirato fuori. Eseguimmo tutti la stessa operazione. Io feci poi rimettere a posto il riquadro.
Trovai nel vano di tramezzo un gran numero di feriti che il capo musica Wecke stava fasciando; egli mi riferì alla meglio lo stato del nostro caro Emden. Quando giunsi sul ponte superiore, uno spettacolo orribile si offrì alla mia vista: dappertutto giacevano morti e feriti gravi; dappertutto s’elevavano dei gemiti e delle pietose invocazioni! La cosa più triste e più terribile, era che nulla si poteva fare per soccorrere questi disgraziati, per calmare le loro sofferenze. L’Emden non era altro che una rovina. In qualunque parte si volgesse lo sguardo, non si vedeva altro che dei forti infiniti nella bordata, pezzi di ferro divelti e contorti, rovine fumanti, mucchi di rottami e di cenere.
In quale stato terribile era ridotto il nostro incrociatore, poche ore prima ancora così bello!…
Incontrai presso la batteria di prua, l’insegna Geerdes, pure ferito, che mi indicò con la mano Gaede, il nostro ufficiale cannoniere. Egli giaceva disteso sul cannone a sinistra… era agonizzante. Ebbe però ancora tale lucidità da potermi riconoscere. La sua uniforme era rossa… inzuppata di sangue. Mi ringraziò alzando un po’ la testa, vedendo che mi avvicinavo. Mi feci vicino e lo trasportai a poppa ove chiuse gli occhi per sempre…
A lungo l’Emden sostenne l’impari battaglia; finché, in preda agli incendi, si gettò in costa sui banchi corallini. Erano le 11,20.
L’incrociatore australiano continuò a colpirlo, sospendendo il tiro solo per inseguire il Buresk che, per non farsi catturare, preferì autoaffondarsi; quindi tornò all’isola Direction per catturare i marinai tedeschi sbarcati nel primo mattino, ma non riuscì a trovarli. Infatti, avendo assistito impotenti alla distruzione della loro nave, essi si erano impadroniti di un brigantino ancorato nel porto, l’Ayesha, e con quello avevano veleggiato verso Sumatra.
All’alba del 10 novembre la situazione a bordo dell’Emden era tragica: i feriti erano numerosi e torturati dalla sete, ma il Sydney riprese il bombardamento fino a quando von Müller fece abbassare le insegne di guerra e alzare la bandiera bianca. I Tedeschi avevano avuto 133 morti su un totale di 361 (47 dei quali non erano a bordo durante il combattimento). Gli Australiani, per parte loro, non avevano avuto che 4 morti e 8 feriti, 4 dei quali gravi.
Dopo essere stati medicati, i prigionieri tedeschi vennero spediti, via Suez, in un campo di prigionia sull’isola di Malta, ove sarebbero rimasti per tutta la durata della guerra.
Il relitto dell’Emden rimase ad arrugginire sulla barriera corallina delle isole Cocos, silenzioso testimone di una pagina tragica ed esaltante della guerra sui mari, finché una tempesta tropicale non lo spazzò via, nel 1956.
La crociera dell’Emden ebbe una coda quasi romanzesca con le vicende fortunose dell’Ayesha, al comando del secondo ufficiale dell’incrociatore, von Mücke.
Dopo essere riuscito ad allontanarsi dal luogo del tragico combattimento, l’Ayesha raggiunse Sumatra alla fine di novembre e, qui, il suo equipaggio salì a bordo del piroscafo tedesco Choysing. Dopo una navigazione avventurosa, quei marinai dell’Emden raggiunsero il porto di Hodeida sul Mar Rosso donde, attraverso l’Arabia e la Turchia, raggiunsero Costantinopoli e, finalmente, poterono rientrare in patria.
* * *
Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
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