La più antica moneta d’argento coniata a Roma, il denarius, fu introdotta cinque anni prima della prima guerra punica (Plinio, Storia Naturale, XXXIII, 13, 44: quinque annis ante primum punicum bellum) in preparazione dello sforzo economico previsto per l’ormai prossimo scontro con Cartagine che necessariamente e fatalmente doveva essere una questione di vita o di morte. Avvenimento mirabile, che è eloquentissima prova della superiorità decisa nelle attitudini di forza e di comando e della vigoria creatrice e quindi civilizzatrice di Roma e però delle stirpi italiane, risultate dalla felice fusione delle razze mediterranea ed indoeuropea, su Cartagine e sulla stirpe fenicia mirante soprattutto, essenzialmente, alle prosperità materiali del momento [1].
Questo fatto fu la manifestazione della inevitabile lotta tra le forze celesti, olimpiche, virili, eroiche e solari incarnate dalla stirpe nordico-aria iperborea e dorica di Roma contro l’elemento fatalista, femminile, lunare, materiale e tellurico delle stirpi asiatico-mediterranee.
La guerra contro Cartagine, e la conseguente distruzione della città, rappresenta un grande punto di svolta nei destini dell’umanità, è opera delle forze della gente italica unificate dai capi della Repubblica romana e essa scaturisce, più di ogni altra gesta, dal profondo dello spirito occidentale. È qui che la città tiberina si adegua propriamente alla sua missione storica. Qui l’assunzione del retaggio da parte dell’Occidente è ormai confermata e la stirpe vittoriosa raggiunge l’apice della sua esperienza etica [2]. Con il tramonto della regina d’Africa si ha il trionfo del superiore principio etico dell’umanità euro-occidentale sul basso sensualismo asiatico.
Il denario fin dalla sua introduzione nel 269 a. C., recò al dritto l’effigie della dea Roma volta a destra e calzante un elmo alato. Questo tipo “nazionale” rimase l’unica raffigurazione del dritto della moneta romana d’argento fin verso la fine del I secolo a.C. quando ad esso vennero affiancate effigi di divinità e di eroi che nel corso del I secolo a.C. finirono con il prendere il sopravvento [3].
La moneta romana fin dalla nascita ebbe un carattere chiaramente celebrativo e di glorificazione della storia della città; questo con il tempo lasciò il posto ad elementi riconducibili alla celebrazione di fasti personali del magistrato che aveva curato le emissioni fino a divenire uno strumento di propaganda personale e familiare.
La moneta fin dalla sua origine, e per lungo tempo, ebbe un carattere sacro. Le monete antiche sono letteralmente coperte di simboli tradizionali dal significato profondo che trovano spiegazione unicamente se rapportati a conoscenze dottrinali e al frutto di una scelta compiuta da autorità spirituali [4]. Nell’antichità l’artista e lo zecchiere probabilmente obbedivano agli ordini dei sacerdoti per quanto riguarda i soggetti da effigiare sui conii [5].
Un recente studio nel campo tradizionale compiuto da Jean Haudry [6] ha fornito una nuova etimologia del termine moneta riconducendolo alla radice indoeuropea *moni, che rimanda ai gioielli (monili appunto) e in particolare alle collane, alludendo alla funzione premonetale degli stessi. Juno Moneta, nel tempio della quale era posta la zecca di Roma, sarebbe quindi stata Giunone che “porta la collana” e non Giunone “che mette in guardia”, dal verbo monere, come normalmente si ritiene. La collana era un attributo delle antiche divinità indoeuropee della luce e alludeva simbolicamente alla luce solare (Giunone-Hera aveva anche la funzione di dea dell’aurora) come manifestazione divina.
Qui ci riproponiamo di analizzare alcuni elementi simbolici, in particolare l’elmo alato portato dalla personificazione di Roma, presenti al dritto dei denari di Roma repubblicana.
L’elmo viene assimilato al significato simbolico proprio della testa come luogo della vita spirituale, come immagine del mondo, della sfera celeste, della totalità. L’elmo nel simbolismo araldico è l’emblema dei pensieri elevati e il cimiero, per la sua collocazione in cima all’elmo, si riferisce chiaramente al pensiero e simboleggia “l’idea dominante” che guida le azioni di chi lo indossa [7].
Le ali d’uccello a ornare un elmo rappresentano i pensieri elevati, l’aspirazione al volo come la ricerca di raggiungere gli stati superiori dell’essere, o sono la dimostrazione della capacità di averli raggiunti, così come spesso, nelle armature medievali, molti cimieri erano adorni di ali di drago o di pipistrello quasi per assumere la forza del drago e per incutere terrore al nemico ostentando il trofeo della vittoria sul drago-pipistrello-demonio [8].
A guardar bene, in molti esemplari di denarii coniati da due magistrati monetali della gens Claudia, Gaius Claudius Pulcher [9] (fig. 1) e soprattutto Appius Claudius Pulcher [10] (fig. 2) (datati 106 a.C. o 91 a.C.), la ali che ornano l’elmo e la cresta che lo corona alla sommità, che in genere sembrano essere una serpentina frutto di un semplice gioco calligrafico e ornamentale, formano in modo chiaro e indiscutibile l’immagine di un cigno. Un elegante cigno dal collo lungo e sinuoso che non è possibile confondere con l’aquila che ritraeva l’imperium di Roma, che invece ci si aspetterebbe di trovare. Quest’ultimo infatti era l’uccello che simboleggiava il carattere olimpico ed eroico delle genti arie, la raffigurazione della divinità della luce e della regalità; a Roma era l’animale sacro a Giove e simbolo della stessa forza romana e della sua incontenibile lotta sia terrena sia metafisica [11].
Il cigno invece era l’animale sacro ad Apollo, il dio della luce, ed era esso che trainava il carro dorato del dio verso la terra degli Iperborei collocata nel mitico nord, la patria originaria delle stirpi arie, olimpiche e solari secondo la dottrina della tradizione primordiale. Questo animale dal manto bianchissimo è emblematico di quelle regioni settentrionali coperte quasi perennemente da candide nevi; esso traina la barca o il carro solare divenendo anch’esso la personificazione del dio Sole, quello che sarà Apollo per l’età classica, e in esso gli antichissimi popoli di quelle regioni vedevano la manifestazione di un essere supremo e luminoso, signore del mondo e della loro razza [12]. I cigni trasportavano le anime dei re, degli spiriti regali, nell’estremo nord, nel Paradiso Settentrionale, verso il circolo polare artico che era la loro terra natale [13].
In particolare non si può non notare che nei denari di Gaius Claudius Pulcher le effigi della dea Roma, che indossa un orecchino a pendente e la collana (monili simboleggianti la luce solare resa materiale), mostrano sulla calotta dell’elmo un circoletto proprio dietro al cigno, che non viene spiegato.
Quel circolo non può che rappresentare il disco solare, strettamente legato al cigno, come si vede raffigurato, ad esempio, in opere preistoriche della Finlandia, della Scandinavia, della Danimarca, su vasi di bronzo da Halstatt in Austria, su situle e su cinturoni atestini e villanoviani (VIII-VII secolo a.C.), su un cinturone italico da Poggio Bustone (Rieti) [14], continuando sotto la veste del mito in raffigurazioni greche (es. cratere a figure rosse del British Museum, 400-380 a.C. raffigurante il dio della luce Apollo a cavallo del cigno – fig. 3). Il cigno che traina il Sole o la barca del Sole, idealmente, non è troppo dissimile dal famosissimo carro solare di Trundholm raffigurante un cavallo che traina un grande disco solare, risalente all’età del bronzo e conservato nel Nationalmuseet di Copenaghen (fig. 4).
A questo punto la nostra moneta raffigurerebbe la riduzione simbolica del cigno che traina il carro di Apollo e che lo trasporta nel paese degli Iperborei dove regna una primavera perenne e luminosa.
Possiamo fare ancora una considerazione. Gli Iperborei, nella mitologia greca, abitavano la regione più settentrionale dell’Europa, posta sull’Oceano (Diodoro Siculo, Biblioteca, II,47; Ecateo di Mileto) che era l’anello di mare che circonda la terra, e proprio a questo potrebbero alludere le grandi onde rincorrenti con la cresta piegata a destra che sormontano l’arco perfetto e regolare dell’elmo e che oggi come allora sono il simbolo grafico per raffigurare le onde del mare (così si vedono ad es. in alcuni rovesci di monete di Taranto poste al di sotto di Taras a cavallo del delfino in particolare negli anni 344-330 a.C.) [15]. Il dritto della moneta verrebbe così a rappresentare, in una geografia sacra e simbolica, la “mappa” della patria mistica e primordiale, la terra degli Iperborei dalla quale sarebbe derivato il culto del dio solare Apollo.
Va notato che l’animale alato raffigurato sull’elmo negli esemplari di Gaius Claudius Pulcher viene identificato dai compilatori dei cataloghi numismatici con un grifone e questa frequente somiglianza forse non è dovuta solamente all’influsso dei caratteri marcati dell’espressionismo italico che porta alla disarticolazione, alla deformazione e alla perdita di organicità della struttura formale ellenistica, unitamente all’accentuazione antiplastica e decorativa dei particolari, fino ad assumere caratteri grotteschi e drammatizzati, espressioni enfatizzate in antitesi alla misura e alla compostezza dell’arte greca. Il grifone, che potrebbe non essere considerato semplicemente la degenerazione grafica del tipo originario raffigurante il cigno, è un animale che simboleggia la positiva vigilanza del guardiano e, oltre a ciò, si riteneva che esso nascesse sui monti Iperborei, grypes … Hoc genus ferarum in Hyperboreis nascitur montibus (Isidoro di Siviglia, Etimologie, XII, II, 17).
Abbiamo osservato che il cimiero rappresenta simbolicamente quella che è l’idea dominante, l’idea che guida le azioni, il Leitmotiv del guerriero, e ricordiamo che lo spazio iperboreo corrisponde alla massima elevazione rispetto al livello terreno, quindi l’elmo romano ritrarrebbe simbolicamente la tensione verso il luogo originario delle stirpi arie, il luogo della manifestazione originaria, il centro primordiale, il luogo della completezza e della realizzazione spirituale, della completezza dell’essere, dell’immortalità.
Ricordiamo che per l’indagine tradizionale in senso eminente Roma ebbe origine da quei popoli che in una remota età preistorica dall’estremo nord si spinsero fino all’Italia centrale da cui poi derivarono i Latini; lo stesso movimento di popoli (chiamato “migrazione dorica”) che in Grecia diede luogo a Sparta [16].
Il passaggio in Italia della migrazione nordico-iperborea sarebbe provato dalla stretta somiglianza dei graffiti preistorici della Val Camonica [17] con le testimonianze presenti nell’Europa settentrionale e in particolare nell’area scandinava. Le analogie maggiori si avrebbero soprattutto riguardo a temi simbolico-spirituali caratterizzanti una medesima civiltà primordiale, virile e “solare”. Ricorrono infatti gli stessi simboli solari, animali sacri come il cervo e la renna, uomini che brandiscono l’ascia o la doppia ascia (la bipenne), l’uomo a cavallo, l’uomo cosmico con le braccia alzate (l’orante), il carro solare [18].
Tracce evidenti delle origini si conservarono ancora nell’età classica. Apollo, che era il dio solare nordico iperboreo, fu concepito come dio solare dell’età aurea e venne associato significativamente alla stessa grandezza romana [19]. Fra gli Elleni si parlò appunto degli Iperborei, popolo misterioso abitante dell’estremo settentrione, il cui dio principale sarebbe stato Apollo; Apollo, che effettivamente – storicamente – fu il dio più caratteristico dei ceppi che scesero dal Nord e crearono la civiltà greca – soprattutto quello dorico; Apollo, il cui animale sacro, il cigno, si conservò come un simbolo centrale fra i popoli scandinavi, riapparendo nella stessa forma delle navi vichinghe [20].
Il denario romano, alla sua introduzione, recava al rovescio l’immagine dei Dioscuri a cavallo con lancia in resta, con il pileo di ciascuno sormontato da una stella, e lanciati al galoppo verso destra. Essi erano i gemelli divini figli di Zeus, che li concepì avendo assunto l’aspetto di un cigno, e di Leda moglie di Tindareo re di Sparta. I Dioscuri erano considerati tradizionalmente i protettori dei naviganti (evidentemente il tipo monetale alludeva in previsione allo scontro sul mare a cui Roma si stava preparando con la guerra punica) ed erano ritenuti anche i protettori della cavalleria romana in quanto comparvero ad annunciare la vittoria nella battaglia del lago Regillo contro il Latini (493 a.C.). In una tale immagine noi vediamo rappresentato in aenigmate, ad un livello superiore, sia il riferimento al cigno iperboreo sia l’allusione al legame con Sparta, la sorella dorica di Roma. Questo in perfetta complementarità e continuità simbolico-ideale con il dritto della stessa moneta, introdotta in un momento in cui l’Urbe si apprestava allo sconto fatale con il mondo anti-uranico dell’Asia mediterranea.
Possiamo però chiederci per quale motivo l’ornamento dell’elmo della dea Roma diviene esplicito e prende chiaramente la forma del cigno (e del grifone) nelle monete dei due magistrati della nobile gens Claudia e non di altri, potenziato significativamente dal disco solare nelle effigi dei denarii di Gaius Claudius Pulcher che al rovescio recano una Vittoria alla guida una biga in corsa verso destra, con sotto la legenda C. PVLCHER. Si ritiene [21] che questa raffigurazione possa riferirsi al console antenato e omonimo del magistrato che curò le emissioni e celebrare le vittorie che quello ottenne sugli Istri, con la conquista della loro capitale Nesazio, e poi sui Liguri (gli indomabili Friniati) nel 177 a.C., e per le quali poté celebrare un doppio trionfo a Roma [22].
Istria e Liguria; entrambe le regioni del nord Italia sono in qualche modo riconducibili agli Iperborei e ai loro simboli.
Gli abitanti dell’alto Adriatico, e in particolare dell’area veneto-istriana (il territorio degli Istri iniziava al fiume Timavo, una trentina di chilometri prima di Trieste) – che era la regione terminale dell’antichissima «via iperborea» che partiva dall’estremo settentrione europeo ricordata da Erodoto (Storie, IV, 33) – dall’età del tiranno siracusano Dionigi il Vecchio (430 c – 367 a.C.) vennero identificati con gli Iperborei per motivi propagandistici ed espansionistici. Il tiranno voleva presentarsi come il nuovo Diomede (l’eroe greco che proprio al Timavo aveva un importante santuario ricordato da Strabone – Geografia, V, 1, 8) ponendosi anch’egli alla guida tribù di Celti, mercenari suoi alleati, verso la Puglia. I Celti allora venivano identificati tout court come Iperborei così nobilitandoli e rendendoli più familiari al modo greco [23].
Non possiamo qui non ricordare una significativa coincidenza nominale e geografica che faceva corrispondere, come in un gioco di specchi, l’alto Adriatico alla regione artica e iperborea.
I Romani chiamavano mare di Crono, mare Cronium, il mare artico e immaginavano che proprio nella regione artica risiedesse dormiente Crono, il dio, o il re, della prima età e del primo ciclo di civiltà, l’“età dell’oro”, rendendo in questo modo evidente che si riteneva che questa età dovette essersi svolta in tempi remotissimi proprio nell’estremo settentrione [24].
Lo stesso nome di mare Cronio (in greco Kronie als) aveva anche la parte più settentrionale dell’Adriatico, in particolare quella che bagna la regione triestino-istriana, dove gli Argonauti, guidati da Giasone e inseguiti dai Colchi, sboccarono dopo aver percorso la via fluviale danubiana (Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, 327).
Tutto questo nonostante gli studi storici facciano piuttosto rientrare la civiltà agricolo-matriarcale degli antichi Istri nel ciclo tellurico preindoeuropeo e solare come testimonia la raffigurazione della dea Histria quale rappresentazione della Grande Madre, dea della fecondità e della forza generatrice, con i suoi attributi (es. la statua della partoriente di Nesazio e il simbolo della capra come suo animale sacro) [25]. È evidente, quindi, che si volessero identificare come Iperborei piuttosto i Celti che nel corso del II-I sec. a.C. si espansero sulle coste dell’Adriatico settentrionale a spese degli Istri.
Dalla parte opposta dell’Italia, i Liguri, che le fonti antiche indicavano come originari del mare del Nord, erano quelli, tra gli altri popoli dell’Italia settentrionale, che conservavano le maggiori tracce dell’antica origine iperborea primordiale come viene testimoniato dalla sopravvivenza del culto solare nelle tradizioni e la presenza di simboli nordico-solari come l’ascia, il cigno, la croce radiata, la spirale, l’orante, ecc. [26]. Nell’area di quello che fu il centro sacro del monte Bego i primi dischi solari con croce sono fatti risalire al III millennio a.C., in pieno neolitico superiore [27].
Il rapporto tra i Liguri e il cigno solare è sempre stato molto stretto [28]. Ricordiamo Cicno mitico re dei Liguri (il cui nome significa appunto “cigno”) che piangendo la morte di Fetonte (il figlio del Sole caduto nell’Eridano alla guida del cocchio del padre) finì con il trasformarsi in cigno egli stesso come riportato anche da Ovidio nelle Metamorfosi, II, 367-380. Il candido cigno è l’animale simbolico e solare che rimanda chiaramente al nord iperboreo.
In questo modo la moneta, con un dritto e un rovescio intimamente legati e complementari, da un lato celebra una vittoria militare, un fatto reale e materiale della storia “imperiale” di Roma attraverso la gloria familiare del magistrato addetto alla monetazione, da un altro porta a rendere visibile e intellegibile nella riduzione simbolica quella che fu l’idea che muoveva le azioni di Roma, potremmo dire di quella che fu la sua missione, della sua piccola e della sua grande guerra santa, e quelle che furono le caratteristiche e le origini iperboree della stirpe della Roma originaria.
* * *
Note
[1] P. Ducati, L’Italia antica. Dalle prime civiltà alla morte di Cesare (44 a.C.), Milano 1936, p. 393.
[2] J.J. Bachofen, Le Madri e la virilità olimpica. Studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, a c. di J. Evola, Padova 2009, p. 124.
[3] La moneta di Roma repubblicana. Storia e civiltà di un popolo, a c. di F. Panvini Rosati, Bologna 1986, pp. 24-25.
[4] R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano 2006, pp. 107-108.
[5] S. Ambrosoli – S. Ricci, Monete greche, Milano 1917, pp. 66, 67, ss.
[6] J. Haudry, Juno Moneta. Aux sources de la monnaie, Milano 2002.
[7] J. E. Cirlot, Dizionario dei simboli, Milano 1986, alle voci cimiero, p. 151; elmo, p. 208; testa, pp. 490, 491.
[8] J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Milano 1977, pp. 73, 74, 178, 179.
[9] H.A. Grueber, Coins of the Roman Republic in the British Museum (B.M.C.), vol. I, Londra 1910, n. 1288, pp. 198-199.
[10] B.M.C., cit., n. 1290, p. 199.
[11] J. Evola, Simboli della Tradizione occidentale, Torino 1988, pp. 63 ss.
[12] R. Del Ponte, I Liguri. Etnogenesi di un popolo dalla preistoria alla conquista romana, Genova 2019, pp. 113-114.
[13] R. Graves, I miti greci, Milano 1985, mito 161,4, p. 609.
[14] M. Polia, Il mistero imperiale del Graal, Rimini 2007, pp. 109 ss; Del Ponte, I Liguri, cit., pp. 113-115.
[15] A.J. Evans, The “Horseman” of Tarentum. A Contribution towards the Numismatic History of Great Greece, Londra 1889, tav. II, 5; IV, 1-7; VI, 1-3, 5; VII, 5; VIII, 9, 10; X, 7; XI, 5, 7, 8.
[16] J. Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970 a cura di Alberto Lombardo, Roma 2002, pp. 49, 52, 53, 55.
[17] F. Altheim – E. Trautmann, Italien und die dorische Wanderung, Lipsia 1940.
[18] J. Evola, La tradizione di Roma, Padova 1977, pp. 28-30; Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, cit, p. 55.
[19] Evola, La tradizione di Roma, cit., p. 40.
[20] Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, cit, p. 52.
[21] B.M.C., cit., n. 1288, p. 199 nota.
[22] Tito Livio, Storie, XLI, 11, 1-10; 12, 1-10, 13, 6.
[23] V.M. Manfredi – L. Braccesi, Mare greco. Eroi ed esploratori nel Mediterraneo antico, Milano 2011, pp. 185 ss.
[24] Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, cit, p. 52.
[25] L. Foscan, Istri, un popolo danubiano nell’Istria neolitica. Tra civiltà agricole mediterranee e le invasioni dei popoli pastori e guerrieri indoeuropei, Vittorio Veneto 2019, pp. 217 ss.
[26] Evola, La tradizione di Roma, cit., p. 21; Del Ponte, I Liguri, cit., pp. 90 ss, 96 ss, 148.
[27] Del Ponte, I Liguri, cit., p. 96.
[28] Del Ponte, I Liguri, cit., pp. 113 ss.
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