Simbologie eroico-iperboree in alcune monete di Domiziano e di Costanzo Cloro

Domiziano salì al soglio imperiale nell’81 d.C. e subito si vide impegnato in campagne militari volte a rafforzare i confini settentrionali. Nell’83 d.C. con un potente esercito attraversò il Reno e penetrò profondamente in Germania sottomettendo i Catti e fortificando pesantemente le nuove linee; nell’84 d.C. le sue armate guidate dal generale Gneo Giulio Agricola combattendo i Caledoni giunsero quasi all’estremo limite della Scozia portando a termine la conquista della Britannia; nell’85 d.C. si impegnò in una guerra in Dacia che nell’89 d.C. si concluse con un trionfo ottenuto anche per via diplomatica.

Se suo fratello Tito era stato impegnato in Oriente, nella campagna giudaica e nella sanguinosa presa di Gerusalemme, Domiziano rivolse i suoi sforzi militari nell’estremo Settentrione germanico e britannico, posti sullo stesso parallelo (Plinio, Naturalis Historia, VI, 220), – luoghi che vengono a confondersi con la nebulosa idea delle regioni degli Iperborei e dell’ultima Thule – e in Dacia, la terra che fu tappa millenaria della migrazione iperborea diretta verso sud e della quale continua ancora a conservare notevoli memorie mirabilmente rilevate da Vasile Lovinescu [1] con lo pseudonimo di Geticus.

Il ritratto laureato di Domiziano accompagnato dalla consueta titolatura imperiale e definito Germanicus, vale a dire trionfatore sui Germani, viene frequentemente abbinato, sia in denari d’argento sia in aurei (R.I.C. vol. II, p. 158 ss., nn. 36, 46, 53, 63, 70, 74, 80, 85, 87, 89 ecc.), a rovesci raffiguranti la dea Atena volta a destra, in piedi su una prora navale, elmata, vestita del chitone con l’egida fluttuante nell’aria, e nell’atto di brandire una lancia e di reggere uno scudo (figg. 1, 2). Accanto a lei trova posto una civetta, l’animale che rappresentava l’epifania della dea.

Fig. 1
Fig. 2

Quest’ultima era considerata da Domiziano la sua divinità protettrice (Svetonio, De vita Caesarum, 15,3).

Un mito costante e tradizionale in senso eminente è l’associazione della figura del guerriero, dell’eroe, a quella di una dea per dare forma all’uomo integrale, fatidico, capace di creare, con le sue possibilità trasfigurate, nuove vie a nuove grandezze [2].

Questa dea rappresenta l’anima stessa della vittoria che guida l’eroe diventando con esso una cosa sola, un motivo che continuerà identico nelle valchirie germaniche. Così Atena guidava Eracle, l’eroe vittorioso delle stirpi dorico-arie, nelle sue imprese che lo renderanno partecipe dell’immortalità olimpica, così la Venus Victrix derivata dall’Afrodite Nikephoros valeva come personificazione di un occulto potere di vittoria ed era la divinità protettrice di Cesare e della gens Giulia venendo in questo modo a simboleggiare il destino trionfale della città eterna [3].

Per il Romano la guerra era una missione divina, una mistica sacrale, essendo essa lo specchio terreno della lotta degli dei celesti contro le forze del caos e delle tenebre.

Atena era esperta dell’arte della guerra e non perdeva mai una battaglia, nemmeno contro lo stesso Ares.

Un inno omerico celebra Atena, nel suo aspetto più antico, quale dea guerresca associandola ad Ares: Pallade Atena, signora dell’acropoli, / terribile: a lei e ad Ares sono care le imprese di guerra, / il sacco delle città, le grida e le battaglie; / è lei che protegge l’esercito, quando parte e ritorna. / Salve, dea: concedici fortuna e felicità [4].

Ancora nella metà del IV secolo d.C. Secondo Saturnino Sallustio, fornendo un riassunto della religione pagana in funzione anticristiana, indicava Atena tra le divinità che vigilano sul mondo assieme ad Ares e ad Estia, la Vesta dei Greci [5]. Il mondo della luce e dell’ordine contrapposto a quello delle forze demoniache della notte e del caos ovviamente.

Un’altra Atena, Athena Alkidemos (fig. 3), “difenditrice del popolo”, aveva presidiato i confini dell’avamposto più orientale del mondo ellenistico essendo stata la raffigurazione più caratteristica dei rovesci delle monete del re indo-greco di Bactriana Menandro (160-145 a.C.) (B.M.C. India, pp. 44 ss., n. 1ss.) che controllava il Punjab del nord forse fino al bacino del Gange.

Fig. 3

Riguardo al fatto che la dea ostenti lo scudo portato in posizione da combattimento e la lancia che brandisce con la destra ricordiamo, con il tradizionalista Béla Hamvas, che agli occhi dell’umanità arcaica lo scudo, la spada e la lancia erano strumenti cultuali, simboli del potere spirituale e della forza virile [6]. In questo modo l’immagine verrebbe a riassumere sia l’autorità regale (la legenda attorno alla dea indica infatti la data attraverso il numero dell’acclamazione imperiale e del consolato di Domiziano) sia quella spirituale (la divinità stessa), che sono sempre riunite nel reggimento politico tradizionale.

Atena, che porta l’attributo di glaukopis vale a dire “dall’occhio azzurro” (Omero, Iliade I, 206; II, 172 ecc), è una dea che mantenne i caratteri che le derivavano dai prototipi nordici [7].

Atena assieme ad Apollo, l’iperboreo dio della luce splendente, pongono fine all’età demetrica della ginecocrazia asiatica e fanno trionfare l’età nuova, quella apollinea virile ed eroica, quella della paternità in senso superiore (Atena essendo nata dal capo di Zeus è priva di madre), connessa alla luce celeste. Pronta ad aiutare tutti gli eroi del diritto solare paterno è Atena, la dea vergine nella quale l’amazzonismo guerriero dei tempi antichi riappare spiritualmente trasfigurato [8].

Per gli Ateniesi la verginità della dea era simbolo dell’inespugnabilità di Atene e, a questo fine, modificarono i miti secondo i quali oltre a Poseidone anche Borea (il Vento del Nord) si era unito a una forma primitiva di Atena [9].

I piedi della dea Atena poggiano su una barca, su una nave, sono cioè sono cioè sottratti alla mutevole balia delle onde marine.

Le acque rappresentano la corrente del tempo, ciò che è instabile, fuggevole, la vita mortale, il divenire e la vita terrena soggetta alla mutevolezza.

Il camminare sulle acque significa superiorità rispetto a tutto questo.

Nella tradizione aria le nature sovrane sono poste al di sopra delle acque o sono sottratte allo scorrere di esse; questa è una caratteristica che distingue il veggente, l’eroe, l’asceta o il profeta. Mosè e l’eroe indo-ario Karna sono salvati da un canestro abbandonato sulle acque come i gemelli Romolo e Remo rappresentando in questo modo l’elemento divino dei fondatori di Roma e la loro dignità sovrannaturale [10].

Il particolare della barca posto sotto ai piedi della dea ci richiama alla mente, favorendo con tale paragone un vicendevole lumeggiamento di interpretazioni simboliche, un multiplo d’oro del valore di 10 aurei (52,88 grammi) battuto a Treviri tra il 295 e il 305 d.C. da Costanzo Cloro (R.I.C. vol. VI, pp. 143, 167 n. 34), il padre di Costantino, e che si riferisce al recupero della Britannia dall’usurpatore Alletto nel 296 d.C. Al rovescio raffigura l’imperatore a cavallo, reggente una lancia nella destra, che procede verso una figura femminile inginocchiata (allegoria della Britannia) la quale accoglie il principe tendendo le braccia nella sua direzione ed è posta davanti alla porta di una città fortificata che sotto reca l’indicazione LON(dinium), cioè Londra (fig. 4).

Fig. 4

Al di sotto del cavallo imperiale vi è una nave militare ma nell’insieme dell’immagine, ad una prima lettura, sembra quasi che le zampe poggino su di essa.

La stupefacente legenda è REDDITOR LVCIS AETERNAE, magnifica cioè l’imperatore impegnato nella riconquista della Britannia all’impero di Roma come il “Restitutore della luce eterna” quasi traducendo in immagine il passo del panegirista Eumenio (Pro restaurandis scholis oratio, XVIII) dove si descrive come allora la Britannia liberata si rialzò a vedere la luce di Roma (liberata ad conspectum Romanae lucis emersit).

Ricordiamo con il panegirista che Costanzo Cloro si spinse ai confini settentrionali del mondo noto non inseguendo territori nuovi da conquistare ma con l’intento di ricercare la terra sacra più vicina al sole per contemplarvi il padre degli dei, vale a dire Crono, nella chiarezza di un giorno quasi continuo, senza notte, potendo là godere di una luce perpetua (ut fruiturus exinde luce perpetua, iam videret illic diem pene continuum, in Eumenius, Panegyricus Constantino Augusto, VII), cioè mirando a raggiungere la terra degli Iperborei che era reputata essere un luogo di luce perenne e senza tenebre. Tutto ciò rappresenta simbolicamente la riunione con il Centro supremo del potere primordiale, l’isola iperborea, la mitica Thule [11].

Per i Romani il mare di Crono, mare Cronium, era posto nell’estremo Settentrione, nella terra della luce immutabile e spirituale, dove risiedeva dormiente, latente e mai morto, Crono, il dio o il re dell’età primordiale e del primo ciclo di civiltà, l’“età dell’oro”, rendendo in questo modo evidente che si riteneva che quella età si fosse svolta in tempi remotissimi proprio nell’estremo Settentrione, nella terra degli Iperborei [12].

Semissi di bronzo coniati da Domiziano nell’anno 85 d.C. (R.I.C. vol. II, p. 188, nn. 273, 274, 275) accompagnano il busto di Apollo laureato, l’iperboreo dio della luce, alla titolatura imperale (Imperator Domitianus Augustus Germanicus Consul undecies) stabilendo quasi un’identità tra il dio solare e l’imperatore. Al rovescio si può trovare l’immagine di un corvo su un ramo (fig. 5). Il corvo era l’animale che veniva raffigurato accanto a Crono; quest’ultimo infatti era un Titano-corvo e forse il suo nome stesso voleva dire “corvo” [13].

Fig. 5

Aristea di Proconneso avendo assunto la forma di un corvo visitò le regioni iperboree al seguito di Febo Apollo, il dio iperboreo della luce che lo ispirava (Erodoto, Historiae, IV, 15) [14].

Il corvo nell’antichità era ritenuto essere un animale oracolare e si credeva che ospitasse l’anima del re sacro; esso veniva spesso raffigurato accanto a Crono, ad Apollo, a Saturno, e anche a Odino, il massimo dio della mitologia norrena [15].

Altri rovesci abbinati all’immagine di Apollo raffigurano la lira apollinea o il tripode, vale a dire il simbolo di Apollo Pizio così chiamato per aver ucciso il serpente Pitone (che rappresenta simbolicamente le stirpi appartenenti al precedente ciclo tellurico, volte al culto della terra e della fecondità) e che strappò l’oracolo di Delfi alla Madre Terra alla quale apparteneva in precedenza facendo così trionfare il culto della luce solare [16].

Alcuni tetradrammi domizianei coniati ad Alessandria d’Egitto abbinano al ritratto imperiale l’immagine, invero non così rara in questa monetazione, di un grifone che posa la zampa sinistra su una ruota radiata (Dattari, p. 37, nn. 602-612) (fig. 6) che è un simbolo solare, polare e della manifestazione universale. Secondo Erodoto (Historiae, IV, 13) i grifoni erano i custodi dell’oro solare e più a nord di questi vi erano le sedi degli Iperborei [17].

Fig. 6

La città fortificata che attende l’arrivo dell’impero di Roma nel multiplo aureo di Costanzo, d’altronde, rappresenta sì la città di Londra in una lettura bassa e materiale ma simbolicamente ritrae la “Cittadella del Sole”, Thula, il Centro Supremo iperboreo come la fortezza contrassegnata con il segno dello swastika polare posto davanti alla porta che compare nelle monete daciche citate da Vasile Lovinescu in La Dacia iperborea [18].

Notevole è il fatto che la legenda del multiplo d’oro che definisce Costanzo Cloro come Redditor lucis aeternae possa prestarsi, a questo punto, a una doppia lettura in un magnifico gioco di specchi. Si può infatti intendere che essa sia riferita all’imperatore che riportava la luce imperitura della civiltà romana ai Britanni riconquistati (tandem liberi, tandemque Romani, tandem vera imperii luce recreati – finalmente liberi, finalmente Romani e rinati con il rivedere la luce dell’impero, in Eumenio, Panegyricus Constantio Caesare, XIX) sia che egli rientrando in possesso di quella regione posta agli estremi confini settentrionali del mondo restituiva all’impero di Roma la luce della terra iperborea e thuliana (lux perpetua, dies continuus, in Eumenius, Panegyricus Constantino Augusto, VII). Anche sull’estrema isola di Thule, posta a sei giorni di navigazione verso nord dalla Britannia (Plinio, Nat. Hist. II, 187), infatti, non tramontava mai il sole e da quest’astro essa derivava il proprio nome (a sole nomen habens – Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIV, 6, 4).

In questo modo Costanzo attuava quasi un mistico pellegrinaggio militare e spirituale alla originaria patria nordica, all’Urheimat degli Indoeuropei, al luogo delle origini ario-occidentali posto in un settentrione indefinito. Roma infatti rappresentò il tentativo, vittorioso per un intero ciclo, della Luce del Nord di conquistare a sé, di strappare alle forze della decadenza egualitaria, già in atto nelle civiltà mediterranee, le genti d’Occidente, realizzando in una forma più pura ciò che alla potenza di Alessandro Magno non era riuscito che durante la sua fugace culminazione [19].

A guardar bene, inoltre, la barca sulla quale poggiano i pedi della dea Atena nel denario di Domiziano presenta un particolare della massima importanza simbolica: le due estremità assumono la forma di due colli di cigno.

Il cigno bianco rappresenta la riunione con il Centro Primordiale, il luogo della manifestazione dell’essere, simboleggiato dall’Isola Bianca, la nordica Thule.

Il cigno è legato in modo assai stretto alla tradizione iperborea e allo stesso Apollo, dio iperboreo dell’età primordiale o età dell’oro [20].

Per i Greci Apollo, il dio della luce splendente, si spostava da Delfi alla terra degli Iperborei volando su di un cocchio trainato da cigni (Alfeo, fr. 142) [21]. Nei tre mesi invernali infatti Apollo, stando nell’estremo Settentrione, si assentava anche dal suo santuario di Delfi, dove era posto anche l’omphalos, il centro del mondo antico, e la sua sacerdotessa, la Pizia, sospendeva di emettere i celebri oracoli [22].

Il cigno è stato sempre posto in strettissima relazione con il Sole, così già nell’arte dell’età del bronzo scandinava, e una situla proveniente da Siem in Danimarca raffigura il disco solare posto tra due cigni che si corrispondono alla poppa e alla prua della barca solare [23] (fig. 7) (fig. 8).

Fig. 7
Fig. 8

Presso le popolazioni indoeuropee dell’Europa nordica il Cigno aveva un significato «solare» e in quanto tale veniva spesso accostato a simboli quali la barca, il carro, la ruota – altrettante immagini del Sole e quindi del Principio che s’irradia nell’universo manifestato. Dalle regioni iperboree il simbolo del Cigno discese verso il centro e il sud dell’Europa, sicché dall’epoca del bronzo lo si incontra in Irlanda, in Germania, nel sud delle Gallie, in Lombardia. In Grecia il nobile uccello bianco comparve più che altro come attributo di Apollo, ipostasi della luce solare; e nell’India aria il Cigno Hamsa, veicolo di Brahma, fu emblema dello Spirito Divino alitante sulle Acque primordiali [24].

Nella mitologia germanica il cigno è l’animale nel quale si trasformano le valchirie per guidare i morti in battaglia verso il paradiso degli eroi [25].

Il vero valore di Roma è una «restaurazione», un tentativo di riprendere in un corpo universale una originaria spiritualità di tipo «iperboreo» e «solare», tentativo abortito al momento del putrefarsi e dell’asianizzarsi dell’impero dei Cesari [26].

Le monete imperiali citate, separate da due secoli le une dalle altre, ad una lettura non superficiale e alla luce di una interpretazione in chiave tradizionale dei particolari e dei simboli in esse raffigurati, evidenziano tra di loro un legame vivo e sottile, e dimostrano la continuità nel percepire la spiritualità olimpica di una superumanità solare e regale. Attestano la continuità nel voler tramandare la fiamma sacra di una religione che è anche mistica dell’azione militare e la volontà di tener viva la memoria tradizionale, la memoria della discendenza nordico-aria, per conservare intatta la luce e la potenza delle antiche origini.

 

Note

[1] Geticus, La Dacia iperborea, Parma 1984.

[2] J. Evola, La tradizione di Roma, Padova 1977, p. 127.

[3] Ivi, pp. 126-128, 162-166.

[4] Inni omerici, a c. di G. Zanetto, Milano 2006, inno XI, p. 189.

[5] Sallustio, Sugli dèi e il mondo, a c. di C. Mutti, Padova 1993, VI, 3, p. 29.

[6] B. Hamvas, Scientia Sacra, vol. I, Parma 2000, p. 208.

[7] A. Romualdi, Gli Indoeuropei: origini e migrazioni, Padova 2004, pp. 115, 118; H.F.K. Günther, Storia razziale dei popoli ellenico e romano, Genova 2018, p. 38.

[8] J.J. Bachofen, Le Madri e la virilità olimpica. Studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, a c. di J. Evola, Padova 2009, pp. 67-68.

[9] R. Graves, I miti greci, Milano 1985, mito 25, 1, p. 87; mito 48, 1, p. 153.

[10] Evola, La tradizione di Roma, cit., p. 38; J. Evola, Etica Aria. Orizzonte tradizionale, a c. di R. Del Ponte, Genova 2018, p. 55.

[11] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 1993, p. 240; M. Polia, Il mistero imperiale del Graal, Rimini 2007, p. 40.

[12] J. Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970 a cura di Alberto Lombardo, Roma 2002, p. 52.

[13] Graves, I miti greci, cit., mito 6, 2, p. 31; mito 7, 1-2, p. 34.

[14] E. Albrile, Iperborea. Il mito polare tra simbologia, estasi e immaginazione, Rimini 2018, pp. 7 ss, 27-28, 51 ss.; G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Dioniso – Apollo – Eleusi – Orfeo – Museo – Iperborei – Enigma, Milano 2021, p. 327.

[15] Graves, I miti greci, cit., mito 6, 2, p. 31; mito 7, 1-2, p. 34.

[16] Ivi, mito 21, 1-3, pp. 69-70; mito 51, b, p. 160.

[17] Colli, La sapienza greca, vol. I, cit., p. 325.

[18] Geticus, La Dacia iperborea, cit., p. 52; Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 240.

[19] Evola, La tradizione di Roma, cit., p. 93.

[20] J. Evola, Il mistero del Graal, Roma 1994, p. 131.

[21] Colli, La sapienza greca, vol. I, cit., p. 75.

[22] M. Scott, Delfi. Il centro del mondo antico, Bari-Roma 2017, p. 14.

[23] Polia, Il mistero imperiale del Graal, cit., p. 110.

[24] Tratto dal controfrontespizio dei Quaderni del Cigno delle edizioni AR, anni Settanta.

[25] Polia, Il mistero imperiale del Graal, cit., p. 112.

[26] Evola, La tradizione di Roma, cit., pp. 194-195.

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  1. Gianni Peltrin
    | Rispondi

    Egregio Alessandro Ruggia,
    nel 2019 ho avuto modo di osservare su due antichi pilastri lapidei alcune incisioni, tra le quali due ruote raggiate e una probabile runa, associate a numerosi altri simboli arborei e cristologici.
    Su tale ritrovamento ho anche pubblicato un articolo su due riviste locali, corredato da foto, che vorrei sottoporre alla sua cortese attenzione per un suo parere. Mi servirebbe pertanto un indirizzo e-mail di contatto.

    Grazie per l’attenzione.
    Cordiali saluti
    Gianni Peltrin
    gp@interplanet.it

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