«Chiamo classico il sano e romantico il malato»: queste severe parole di Goethe non abbisognano, nella loro glaciale chiarezza, di alcun commento. Ma accanto ad esse, a scopo integrativo, si potrebbe ricordare quella profonda e notturna sentenza del romantico Novalis secondo la quale ogni malattia non è che il tendere doloroso di un organismo limitato verso un più ampio e pieno equilibrio. Le stesse malattie distruttive, la stessa morte non sono forse crisi radicali attraverso cui la persona, spezzati gli angusti limiti dell’individualità, si trasferisce in un più vasto piano dell’essere? In realtà, a considerare la malattia da un punto di vista metafisico, traendo dai fatti le estreme conseguenze, il germe della malattia e della morte è deposto dalle origini in ogni organismo finito appunto perché finito, e quindi destinato a passare in un ordine più vasto, in uno stadio dell’essere più prossimo alla totalità.
Queste brevi considerazioni qui svolte sulla malattia degli organismi individuali valgono, per analogia, per i grandi organismi sociali che chiamiamo civiltà. Anche le civiltà hanno le loro malattie. Quanto più un ordine sociale è insufficiente, limitato, chiuso alla realtà spirituale dell’uomo e alla totalità dell’essere, tanto più acutamente esso si ammala e, logorato da una febbre liberatrice, aspira a dissolversi. Quando una società si inaridisce per un crescente processo di «umanizzazione», quando dimentica i sentieri che conducono ai giochi montani della trascendenza, le forze elementari dello spirito, sia quelle positive, ignee, diurne, che quelle oscure, notturne, catastrofiche, si volgono congiuntamente contro di lei. Le energie spirituali che una civiltà rifiuta di organizzare si adunano mareggianti contro le sue incerte frontiere per cancellarle.
Le civiltà tradizionali (usiamo la parola tradizionale nel senso che dà ad essa Evola nelle sue opere) hanno sempre posto al vertice della società valori eroici ed ascetici. Esse culminavano in un’aristocrazia che non rappresentava soltanto la guida politica ma la salda connessione con l’invisibile, col mitico, con l’eroico. Mediante questa connessione il mondo tradizionale si dilatava oltre i suoi confini apparenti in uno spazio spirituale dove la potenza interiore cresceva fino a cancellare i vincoli del mondo fisico. Esso non si curava tanto di allontanare il pericolo, il bisogno e la morte quanto di vincerli. Per quanto aspri e rigidi potessero essere i suoi ordinamenti, essi tendevano alla libertà e cioè ad educare spiriti limpidi ed inesorabili capaci di portarsi di là dai propri limiti fisici e intellettuali.
A volte l’armatura sociale poteva sembrare aspra e ferrea ma l’armatura sprituale, come uno schermo trasparente di vetro, si affacciava su regioni alte e gelide dove, in un’atmosfera rarefatta, bruciava ogni residuo di oggettività e di passività. L’uomo delle grandi civiltà preistoriche, del mondo antico, del Medioevo, delle culture asiatiche d’impronta tradizionale doveva affrontare pericoli e difficoltà ma gli era sconosciuta questa angoscia da topo preso in trappola che sempre più s’impadronisce dell’uomo contemporaneo. Esso non aveva bisogno d’evasioni romantiche. La via stava aperta davanti a lui perché aveva avuto la ventura di nascere in seno ad un autentico ordine.
Ma l’ordine borghese, instaurato in Europa dalla rivoluzione del Terzo Stato, non è un vero ordine. Il sistema sociale e politico dell’homo oeconomicus, il mondo ateo razionalista, democratico, progressista quale si venne configurando nella pubblicistica filosofica del secolo XVIII, quale si affermò in tutta Europa col liberalismo, il capitalismo, il socialismo e il comunismo è un sistema parziale, una grottesca contraffazione del vero ordine. Per conservarsi esso bandisce il sacro e l’eroico fuori della sua cinta protettiva, dichiara che lo Stato serve al benessere dei più e che quel che la massa chiama felicità è il fine più alto che l’umanità possa proporsi. Questo mondo sovvertito chiama irrazionale ciò che non comprende, antistorico ciò che non può corrompere e fascista ogni tentativo di ritorno alla normalità. Esso è il mondo dell’ultimo uomo di nietzscheana memoria, l’ultimo uomo la cui immagine Zarathustra contrappone a quella del Superuomo: «Allora la terra sarà diventata piccola e vi saltellerà l’ultimo uomo che tutto rimpicciolisce. La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo degli altri».
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Hanno abbandonato le contrade dove la vita era aspra: han bisogno di calore. Si ama ancora il proprio vicino e ci si frega contro: si ha bisogno di calore.
Ammalarsi, diffidare è pericoloso ai loro occhi: si procede con cautela. Folle colui che inciampa ancora nei sassi degli uomini!
E un po’ di veleno di tanto in tanto: procura piacevoli sogni. E una buona dose di veleno, alla fine, per piacevolmente morire.
Ancora si lavora, ché lavorare è divertimento. Ma si ha cura che il divertimento non stanchi troppo.
Non più la vicenda di diventar ricchi o poveri: troppo faticosa l’una cosa e l’altra. Chi vuole ancora governare? e chi obbedire? Troppo faticosa l’una cosa e l’altra.
Niente pastore e un solo gregge! Tutti vogliono la stessa cosa. Tutti uguali. Chi la pensa diversamente va da sé al manicomio.
«Una volta erano tutti pazzi», dicono i più astuti, e ammiccano.
Altrove rievocheremo nelle sue linee generali il processo che ha permesso di giungere a tutto questo. Qui ci basta affermare in maniera netta e categorica che la società in cui viviamo non può considerarsi normale. Il danaro ha scacciato il sangue e l’onore, il ceto borghese si è sostituito ad un clero e a una nobiltà vacillanti ma il bisogno di vero ordine, di una autentica gerarchia dei valori spirituali non può morire. Dall’epoca in cui il mondo borghese ha disteso la sua cappa di piombo sull’Europa le élites spirituali sono allo sbaraglio. La loro rivolta si chiama romanticismo. Agli albori del secolo XIX, nella Germania del Sacro Impero in cui ancora permanevano le pie vestigia del passato feudale un gruppo di scrittori sentì, confusamente, un desiderio di restaurazione medioevale contro un mondo minacciato dal mercantilismo e dall’egualitarismo plebeo. Alcuni di loro scesero sul terreno politico e collaborarono da vicino alla creazione della Santa Alleanza. Caduta la prospettiva di una restaurazione il romanticismo crebbe in tumulto e disordinata rivolta contro la bétise bourgeoise. Nella sua furia di vendetta contro un mondo decaduto dimenticò le sue origini di destra e vagheggiò rivolte d’ogni specie. Naufragò nell’alcool, nel sogno, nella morte.
Ma, nel 1914, le fiamme della Grande Guerra, che Nietzsche, profeticamente, aveva veduto salire da lontano, bruciarono l’involucro dell’Europa borghese e positivista, dell’Europa ottocentesca. Da queste fiamme uscì la forma politica del romanticismo, quello che noi tutti chiamiamo fascismo, le fascisme immense et rouge che affascinava Brasillach con le sue maree di bandiere, di torce, di canzoni. Goebbels lo definì «romanticismo di acciaio».
Questa grande rivolta romantica è, secondo le parole di Goethe citate all’inizio, una malattia. Ma la malattia, come la morte, non contiene in sé alcun particolare valore negativo. Essa si limita a manifestare l’insufficienza dell’organismo in cui fa la sua comparsa. I borghesi possono ben chiamare i romantici e i fascisti «malati» ma essi rimangono i testimoni ingombranti del fallimento di un mondo che si crede completo senza esserlo.
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Tratto dal Secolo d’Italia del 7 agosto 1964.
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