L’Opera Omnia di Federico Nietzsche che si va pubblicando per le Edizioni Adelphi, adesso anche in forma economica, onora la cultura italiana per la serietà con cui Giorgio Colli e Mazzino Montanari si sono accinti alla ricostruzione non solo del corpus nietzschiano, ma anche di tutti i frammenti contenuti nei manoscritti inediti di Weimar. Questa pubblicazione dei frammenti si rende necessaria anche per una precisa messa a punto del problema de La volontà di potenza, ossia per quella scelta di brani pubblicati dalla sorella del maestro con questo titolo, e che si è voluto far passare per una banale falsificazione, mentre la verità è più complessa e investe semmai il criterio editoriale.
Aurora appartiene alla fase del Nietzsche «spirito libero», il Nietzsche che si è liberato dalla suggestione di Wagner, che si è sottratto all’ambiente erudito e universitario e che, attraverso la costrizione della malattia, si è trovato una nuova patria in Italia. È un libro dominato da un bisogno di verità e di pulizia morale, un libro dove si decompongono tutte le fedi e tutti i pregiudizi, dove si giunge persino a chiedersi se la verità stessa non sia un pregiudizio, una limitazione a detrimento della vita.
Ed è un libro decisivo per Nietzsche, quello in cui la contemplazione della morte, coltivata nel soggiorno veneziano del 1878, si sposa ad un ardito e nuovo desiderio di vita, destato dalla permanenza a Genova, questa città che Nietzsche vedrà per anni come la più prossima al suo ideale: «Il chiaro e aperto panorama di Genova, la vasta cerchia delle sue alture e dei suoi colli, le sue ville e i suoi giardini, danno a Nietzsche come l’impressione della vita risorta, e se Venezia nella morte racchiudeva la vita, Genova è la città in cui la vita nasce e rifiorisce… Ecco la musica genovese di Nietzsche che in Aurora si fonde e si sovrappone con la rivelazione veneziana» (Enzo Paci, Nietzsche, Milano 1940).
In questo libro, come in tutti gli altri, Nietzsche dà prova non solo della lucidità del suo pensiero ma anche della nitidezza della sua magnifica prosa, che non potremmo mai abbastanza raccomandare al lettore italiano.
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Tratto da L’Italia che scrive, ottobre 1968, pp. 157-158.
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