L’affiorare d’una fisionomia europea dalle nebbie dell’alta preistoria ha luogo nel quarto millennio a. C. È un avvenimento che si accompagna ad una scelta già spiritualmente significativa: il rifiuto della «civiltà della madre» e l’affermazione dell’Urvolk indoeuropeo come comunità essenzialmente virile e patriarcale.
Il neolitico – l’età della prima agricoltura e dei primi villaggi, l’età in cui le famiglie diventano tribù e le tribù popoli — si inaugura sul continente europeo con una penetrazione dell’elemento orientale e mediterraneo. Sono le cellule tessale di Sesklo-Dimini — eredi delle comunità medio-orientali — che, risalendo il corso del Danubio, prolificano in tutta l’Europa centrale e balcanica. È la cosidetta cultura danubiana, con la sua ceramica a nastro (Bandkeramik) , le rozze zappe di legno e le grandi case collettive. Questa cultura ci trasmette il suo messaggio spirituale attraverso le figurine rappresentanti una divinità femminile nuda. È la madre terra — gê metér — la gran madre delle messi, dispensatrice di fecondità che tiene le chiavi della vita e della morte. È la dea nuda, il cui regno si estende dalla Mesopotamia fino all’Asia Minore, a Creta, a Malta e oltre. Anche in tutta l’Europa occidentale e atlantica, dalla Spagna alle Isole Britanniche, ricorre, nelle incisioni megalitiche, la dea armata di pugnale. È il cielo euroasiatico ed euroafricano della Madre che — attraverso la razza mediterranea, nelle suo prolificazioni libiche, liguri, iberiche, pelasgiche penetra fin nel cuore del continente europeo.
Dalla dominazione della Madre resta intatta l’Europa Settentrionale. E’ la regione intorno al Baltico meridionale, l’area del faggio, del tasso, della betulla, dell’abete; l’area del lupo, dell’orso, del salmone, del castoro; il territorio che la geografia linguistica presuppone per la Urheimat indoeuropea. E’ altresì il territorio della razza nordica dove — fin dalla metà del quarto millennio — i gruppi locali di cacciatori e pescatori, eredi delle comunità magdaléniane d’epoca glaciale, si riorganizzano in una nuova cultura agricola che resta estranea al mondo dei Danubiani e della Grande Madre.
La cultura nordica megalitica, con le grandi tombe di pietra attestanti una salda struttura politica e gentilizia, e le sue due emanazioni — la cultura delle anfore globulari e quella della ceramica cordata — sono la matrice originaria delle lingue indoeuropee e — con esse — d’una violenta trasformazione che investirà l’Europa e vaste regioni dell’Asia. A partire dal 2500 a., C., tutta l’Europa centrale, orientale e balcanica subisce le incursioni dei popoli del Nord. La cultura delle anfore globulari, quella della ceramica cordata — partendo dalle loro sedi nel bassopiano germanico — investono, con le loro asce-martello, le pacifiche comunità della Madre, trasformando il quadro archeologico fino alla Grecia e all’Ucraina.
E’ significativo che questa irruzione s’accompagni alla comparsa di simboli solari. Nasce la svastica — il più antico esemplare è su una ceramica della cultura delle anfore globulari rinvenuta in Polonia — nascono la croce raggiata, il cerchio riquadrato, il disco puntato e quello radiante.
E’ tutta una vasta gamma simbolica che trova la sua massima fioritura a Troia, città di confine tra l’Europa e l’Asia e che marca il passaggio di ceppi indoeuropei in Asia Minore. La svastica — il primordiale simbolo della generazione e della resurrezione della luce — è associata al primo apparire dei popoli indoeuropei nel cuore del terzo millennio, e solo millecinquecento anni più tardi raggiungerà l’India e la Cina.
Nel cuore dell’Anatolia, le tombe di Alaja Huyuk — preludenti ai futuri splendori del reame ittita — ci mostrano, insieme agli spilloni a testa di martello dei barbari del Nord — gli stendardi ornati di svastiche e altri simboli solari. Uno di questi stendardi ci mostra un grande cervo in mezzo a due tori più piccoli. Assistiamo qui al rovesciamento del simbolismo tellurico, meridionale, materno.
Al toro — simbolo della cieca forza generatrice, connesso con la ideologia della fecondità, rozzamente raffigurato insieme con la Dea Nuda nelle più antiche culture agricole europee — si contrappone il cervo, I’animale dei cacciatori del Nord, Seelentier des nordischen Menschen, e, secondo Weisweiler, «animale della civiltà artica».
Il cervo è significativamente associato col simbolismo del sole e della luce:
«Den Sonnenhirsch sah ich von Süden her gehen
Seine Füsse standen auf der Erde
aber die Hörner reichten zum Himmel».
Questi versi dell’Edda ci vengono illustrati da una quantità di figurazioni preistoriche — prime tra tutte quelle della Valcamonica — in cui le corna del cervo sono stilizzate in forma di disco solare.
È altresì significativo che, in Irlanda — quando l’elemento celtico si scontra con gli aborigeni di stirpe iberica — il cervo e il toro giocano un ruolo centrale nelle saghe, là dove le parole oss, dag e ag, che nella saga del Leinster indicano il cervo, in quella dell’Ulster sono passati a significare «toro».
Dietro a questo urto di simboli, dietro alla espansione dei popolidell’ascia da combattimento e alla diffusione dei linguaggi indoeuropei, si cela un avvenimento di grande importanza spirituale.
È il principio paterno che si urta contro la «civiltà della Madre»; la virilità olimpica contro il mito taurino e materno della fecondità; l’ethos delle «società degli uomini» contro la promiscuità entusiastica dell’antico matriarcato.
L’eco se ne spande per tutta l’Europa dove, mille anni più tardi, la migrazione dorica e latina creerà le premesse della visione classica della vita. Ma, prima ancora, gli effetti di questa subitanea ascesa della stirpe nordica, bianca e indoeuropea si fanno avvertire nei più lontani centri d’irradazione: sugli altipiani della Persia e alle soglie dell’India.
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Tratto da Sul problema di una Tradizione europea, Edizioni di Vie della Tradizione, Palermo 1973, pp. 8-12.
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