Vandee di casa nostra

Confesso che fino a qualche tempo fa avevo sempre snobbato Giuseppe Berto. Vaghe reminiscenze liceali e frettolose letture universitarie mi avevano indotto ad includere lo scrittore trevigiano nella schiera dei neorealisti e quindi, per quella coriacea tendenza al manicheismo che è propria di chi, come me, è cresciuto all’insegna delle contrapposizioni ideologiche novecentesche, a considerarlo estraneo al mio orizzonte. Di recente un’amica scrittrice, apparentemente scapigliata e sbarazzina ma senza alcun dubbio molto più abile di me nel seguire le tracce ed i segni carsici di echi, rimandi e assonanze dei quali è costellata la letteratura del Secolo Breve, regalandomi uno dei romanzi più celebri di Berto in una vetusta ancorché intonsa edizione Rusconi mi ha invitato ad indagare la sua burrascosa ed articolata esistenza da un’altra angolazione che mi avrebbe rivelato un’inattesa consanguineità. Con gradita sorpresa ho così appreso che il giovane Berto, rientrato nel 1936 dall’Etiopia con un paio di medaglie appuntate sul petto, allo scoppio dell’ultima guerra si arruola volontario in un battaglione di camicie nere e parte per l’Africa settentrionale dove partecipa alla battaglia di El Alamein. Catturato dagli Americani, si rifiuta categoricamente di collaborare con gli Alleati e viene per questo tradotto al campo di concentramento di Hereford, in Texas, dal quale avrebbe fatto ritorno solo nel 1946, in seguito all’amnistia concessa da Palmiro Togliatti.

Nato nel 1914, Giuseppe Berto vive gli anni della formazione e della giovinezza nel cuore del Ventennio. Figlio della propria epoca, nelle prose dedicate al conflitto lo scrittore sembra voler dar voce a quella generazione perduta che nel Fascismo si era immedesimata, nutrendosi delle speranze e delle disperate, a volte tragiche illusioni che quella irripetibile stagione aveva generato. Nelle sue pagine non si ravvisa il moralismo laico di matrice resistenziale che ritroviamo ad esempio in Beppe Fenoglio, nell’Italo Calvino degli esordi o in Carlo Cassola, quanto piuttosto una concezione volontaristica dell’esistenza, pessimista eppure volitiva, che fa dei suoi antieroi non già dei Vinti nell’accezione negativa e pauperistica che, sempre per restare nel campo dei neorealisti, Elio Vittorini avrebbe dato a questo termine, ma degli incoercibili, dei tignosi, degli ostinati, decisi a non piegarsi agli strali della sorte avversa, a non accettare il corso degli eventi e il ruolo assegnato loro dai condizionamenti culturali e sociali all’insegna dei quali si trovano a dover vivere. Il tutto per tener fede ad una particolarissima idea di se stessi che ha a che fare con un senso rabbioso dell’onore, difeso al cospetto di chiunque, contro ogni considerazione razionale, anche a scapito della propria incolumità.

Paradigmatica a questo riguardo è la fosca vicenda di amore, morte e vendetta vissuta da Michele Rende, protagonista del romanzo Il brigante che, apparso nel 1951 per Einaudi sull’onda dello scalpore suscitato nell’opinione pubblica del tempo dal processo contro il famigerato Francesco Acciardi e reso celebre all’epoca da una dimenticata trasposizione cinematografica a firma di Renato Castellani, torna oggi in libreria per i tipi dell’editore vicentino Neri Pozza. Circondato da un clima di diffidenza per il suo carattere ombroso e sprezzante, un reduce fa ritorno nel paese natio, arroccato sulle pendici dell’Aspromonte. Accusato ingiustamente di aver ucciso per un regolamento di conti Natale Aprici, un signorotto locale, è costretto ad imboccare la via del bosco e diventare bandito. Inizia una caccia all’uomo senza tregua, con i Carabinieri che passano al setaccio la boscaglia notte e giorno per stanarlo. Viene arrestato, evade, si dà nuovamente alla macchia approfittando del favore delle tenebre, fino a quando, tradito da un compagno di latitanza che uccide a tradimento la giovanissima moglie, è costretto ad uscire allo scoperto, trovando la morte in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine al cospetto del quale perfino John Dillinger avrebbe fatto la figura del principiante!

Leggere, come pure è stato fatto negli anni Sessanta e Settanta, questo libro straordinario attraverso la lente deformante del materialismo dialettico, intravedendovi ad ogni costo una metafora a sfondo sociale sull’alienazione ed il desiderio di rivalsa del proletariato meridionale, significa tradirne lo spirito più autentico, non coglierne il portato antimoderno, il respiro a suo modo omerico. Nel racconto che l’Autore affida alle parole di Nino Savaglio, un ragazzino alle soglie dell’adolescenza che del romanzo è la voce narrante, la figura di Michele Rende cresce a dismisura, alimentata ad arte dalle chiacchiere e dalle dicerie della gente del posto, fino ad assumere la statura di un eroe, un vero e proprio vendicatore solitario che si staglia sullo sfondo di quella Calabria aspra e selvaggia così cara a Giuseppe Berto al punto da sceglierla quale luogo del suo buen retiro, in una masseria di Capo Vaticano a picco sugli scogli della costa tirrenica. Una patria dell’anima che è in definitiva ipostasi di un certo modo d’intendere il Sud, quel Meridione gattopardesco, arcaico e desideroso di voluttuosa immobilità che ritroviamo, sempre uguale a se stesso, nelle pagine di Verga, di De Roberto, di Corrado Alvaro o nei romanzi di Salvatore Niffoi.

Giuseppe Berto, Il brigante, Neri Pozza, Vicenza, 2022; pag. 334 € 19,00.

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