Un piccolo libro da poco uscito ripercorre in brevi tratti autobiografici uno degli aspetti più importanti della politica italiana della prima metà del Novecento: i rapporti fra d’Annunzio e Mussolini, con tutto il bagaglio che, in termini di ideologia, strategie di potere e storia politica quel binomio comporta. Si tratta di D’Annunzio e Mussolini (casa editrice Le Lettere) di Carlo Delcroix, un agile testo steso nel 1959 dal Presidente dell’Associazione Mutilati e Invalidi, cieco di guerra, Medaglia d’argento, personaggio molto noto del combattentismo dell’epoca, oratore di grande talento, scrittore e poeta, e figura carismatica del nazionalismo italiano.
Il primo incontro fra d’Annunzio e Delcroix avvenne il 18 dicembre 1923 al Vittoriale, e fu l’Immaginifico a chiamare il “radioso cieco” vicino a sé, in quel clima di “francescana” e appartata solitudine che il poeta amava disegnare attorno a sé nel suo complesso di Cargnacco. Qui, per la verità, si accalcava tutta una folla di persone che ruotavano intorno a d’Annunzio e che non sempre limpidamente tessevano ogni sorta di trama.
Come testimoniò il prefetto Giovanni Rizzo, che da Mussolini ebbe l’incarico di sorvegliare la situazione al Vittoriale, un gran numero di opportunisti, profittatori e semplici parassiti si faceva forte del nome del Vate per scopi personali. Ma d’Annunzio, ormai rinfoderata la spada di Fiume e chiusosi sulle sponde del lago e disdegnando ogni invito a partecipare alla politica, volle rinchiudersi in un solitario ruolo di grandezza, che finì col monumentalizzare se stesso nell’aura del genio solitario. Proprio in quell’incontro del 1923, Delcroix si fece portatore di esigenze che, in quel momento, erano abbastanza diffuse in certi settori del combattentismo. Ricordiamo che il movimento degli ex-combattenti era una forza numerica importante, generalmente ben disposta verso il Fascismo e in gran parte immedesimatasi in esso, ma rimasero pur sempre delle sacche che, come scriveva Delcroix, «del fascismo condividevano le ispirazioni e le aspirazioni, non però i metodi». Questi ambienti per anni avevano stimolato D’Annunzio a fare la sua parte in politica. Anche all’atto della Marcia su Roma – quando il poeta non approvò pubblicamente, ma neppure condannò quell’evento – erano in molti che avrebbero gradito un’uscita allo scoperto del Comandante, affinché, come scrive sempre Delcroix, si creasse un polo politico in grado di evitare che tutto il potere andasse soltanto a Mussolini: «In sostanza si doveva fare ciò che non era stato possibile prima della marcia su Roma, non già allo scopo di contrastare l’esperimento in atto, bensì per assecondarlo e al tempo stesso garantirlo con una presenza che avrebbe di per sé costituito una condizione e un limite».
Queste parole sono rivelatrici della volontà politica di tutto un schieramento che, anche se era molto minoritario, rappresentava pur sempre una forza nell’Italia dell’epoca. Settori del nazionalismo, infatti, mal giudicavano il tracimante protagonismo di Mussolini. Anche se gli artefici della costruzione dello Stato totalitario furono nazionalisti (pensiamo solo a Federzoni e a Rocco), non pochi guardavano a D’Annunzio come a un’alternativa che moderasse Mussolini. Fino a 1924 c’era ancora chi sperava che il poeta abbandonasse il romitorio di Gardone e calasse a Roma, dove la sua sola presenza avrebbe costituito quella “condizione” e quel “limite” di cui parlava Delcroix.
È un fatto però che il combattentismo, che aveva in D’Annunzio il suo eroe mitico, il grande sacerdote dei suoi riti guerreschi, in realtà, nella stragrande maggioranze, vide in Mussolini il suo capo politico e lo seguì in massa. Nelle file fasciste, sin dal 1919, entrarono, prima sparsamente poi in gran numero, gli ex-combattenti che, insieme ai giovani (studenti, figli della piccola e media borghesia, settori del sottoproletariato urbano, etc.), costituirono il nerbo dello squadrismo. Delcroix scriveva che, alla data del suo primo incontro con D’Annunzio, «le masse dei combattenti e le rispettive organizzazioni, a eccezione degli arditi che avevano formato la prima squadra d’azione a Milano, restavano in una posizione di attesa, pur non avendo mancato di esprimere simpatia e fiducia ai “camerati” entrati a far parte del governo».
Diciamo meglio che erano appunto i vertici di tali associazioni ad esprimere qualche riserva, un atteggiamento che poi rapidamente si sciolse con l’istituzione, ad esempio, di organismi come l’Opera Nazionale Combattenti, che del Fascismo diventò un bastione ideologico come politico, giocando, nel caso famoso delle bonifiche pontine, un ruolo di dinamismo ed efficientismo che si trovò perfettamente in linea con il giovane regime. Molti legionari fiumani fanaticamente devoti a D’Annunzio, del resto, diventarono membri anche di spicco del Fascismo, da Giuriati a Renato Ricci a Pallotta. Delcroix era monarchico e moderato, mantenne agli inizi qualche sospensione di giudizio, poi anch’egli, iscrivendosi al Partito nel 1928, risolse le titubanze nella piena adesione. Rivide d’Annunzio nel dicembre 1923, all’atto della donazione del Vittoriale, quando venne fatta la solenne e mistica cerimonia della consegna dell’urna con la terra di tutte le zone in cui si erano svolte battaglie durante la Grande Guerra. Fu, questa, la tipica cerimonia liturgica dannunziana, che era intesa a fare della Nazione e della Patria una vera religione popolare: «Per quando sarò morto, io non chiedo un prezioso sudario, né una maschera d’oro, ma questa palata di terra carsica sulla mia fredda effigie». La mistica nazionalista celebrata da d’Annunzio in simili liturgie passò al Fascismo, che ne fece il fulcro della sua concezione sacrale della terra patria e degli eroi morti.
Delcroix incontrò ancora d’Annunzio nel maggio 1925, e in quella occasione era presente anche Mussolini, di cui il cieco di guerra ricorda il comportamento rispettoso e affettuoso nei confronti del poeta, che effettivamente poteva vantare un prestigio assoluto e un carìsma non incrinato dall’invecchiamento. Delcroix precisava anche che d’Annunzio, nei lunghi mesi seguiti al delitto Matteotti, quando il Duce venne per paura abbandonato da molti e lo si credeva sul punto di doversi dimettere, avrebbe facilmente potuto danneggiare Mussolini, magari scendendo a Roma e prendendo qualche iniziativa politica. Ma non lo fece. Anzi, nel prosieguo del regime, gli fu sempre accanto, spesso elogiandolo pubblicamente e fino all’apoteosi dell’Impero, quando d’Annunzio lo salutò come il geniale vendicatore dei diritti storici dell’Italia.
L’ultima volta che Delcroix incontrò d’Annunzio fu nel settembre 1937, quando Mussolini, al ritorno dal suo viaggio in Germania, si fermò al Vittoriale. Si sa che d’Annunzio, di cultura filo-francese, non amava i tedeschi. La sua morte, nel marzo 1938, fu quasi un segno del fato.
Secondo Delcroix essa segnò l’inizio delle sventure dell’Italia, avviandola verso gli avvenimenti catastrofici della Seconda guerra mondiale. Difficile immaginare quale avrebbe potuto essere la posizione di d’Annunzio nel 1940, di fronte alla guerra. Difficile immaginare che potesse rimanere favorevole alla neutralità, per un uomo che aveva fatto dell’interventismo una scelta di vita. Difficile anche che potesse essere favorevole alle democrazie occidentali, che apparivano regimi vecchi e in declino, nemici dei popoli “giovani” in ascesa. Ma difficile anche immaginare un suo entusiasmo per una guerra accanto alla Germania, da lui – a parte la passione per Wagner e Nietzsche – politicamente mai amata.
In ogni caso, documenti di memorialistica come questo di Delcroix sono oggi importanti per ricostruire un intero clima storico. Nell’Appendice del libretto compare un testo risalente al 1988 di Giano Accame – che di Delcroix sposò la figlia – in cui si ricorda il dettaglio importante e suggestivo che Carlo Delcroix venne ricordato più volte da Pound nei Cantos e in altre sue opere.
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Tratto da Linea del 26 febbraio 2011.
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