Giovanni Damiano è uno studioso fuori dal coro. Lo è, per molti tratti, anche rispetto all’ambiente intellettuale di appartenenza, segnato dal pensiero di Tradizione. Stanno a dimostrarlo i libri e gli scritti d’occasione. Per comprendere il suo itinerario, il lettore ha a disposizione la sua ultima fatica. Ci riferiamo a Sovvertire il tempo. Scritti su l’origine e il nuovo inizio, da poco nelle librerie per i tipi di Ar (per ordini: info@libreriaar.com, euro 12,00). Su cosa richiamano l’attenzione le dense pagine di questo testo? Oltre a presentare, in modo eminente, la “costellazione” idealtipica e teorica dell’autore, fondata sull’analisi delle apparenti endiadi origine/nuovo inizio, conflitto/nemico, genealogia/storia, mostrano come Damiano riesca, cosa rara, a coniugare “l’approccio empirico della storia con quello ‘sintetico’ e ‘generalizzante’ della filosofia” (p. 11).
La problematica discussa è quella della storia. Al centro del dibattito, nei diversi saggi, l’idea di storia aperta che, almeno nel moderno, discende da Nietzsche. Il pensatore tedesco nell’anticristiano (più noto come l’anti Cristo) sostiene la prospettiva trasvalutativa essere rivolta all’übermorgen, il “domani del domani”. Al suo ascolto si pongono esclusivamente gli uomini postumi, coloro che non possono essere compresi nel e dal loro tempo. Infatti, “Nell’uomo postumo[…] vi è un’eccedenza[..]che lo preserva da qualsiasi tempo” (p. 15), ma esiste un futuro conforme alla sua qualità antropologica, il “domani del domani”. Tale “domani del domani”, ben lo intese Furio Jesi, è legato sintonicamente alla prassi della rivolta, non alla rivoluzione. Questa agisce nell’oggi per preparare un domani segnato dal tratto dell’inevitabilità, la rivolta, al contrario, libera dall’abbraccio delle visioni necessitanti e “svelle la storia dai suoi cardini, sconvolgendone il continuum temporale” (p. 13). Un continuum costruito sui presupposti della teologia della storia cristiana (eden, caduta, redenzione) e delle sue immanentizzazioni moderne. La trasvalutazione avviene sotto il segno di Dioniso, della metamorfosi sempre possibile, della volontà di potenza, che non può trovare il proprio sigillo nella dottrina dell’eterno ritorno, esperito simbolicamente sotto il segno del circolo, come avrebbe voluto il primo Baeumler. Ricorda l’autore che la cosa fu esemplarmente colta da Heidegger, il quale sostenne l’eternità vivere nell’attimo. E’ nell’attimo della decisione che l’origine può tornare a darsi oppure trovare, nell’oblio, una catastrofe definitiva. Per le stesse ragioni, Ludwig Klages, nel nome della potestas dionisiaca, tentò di correggere l’eterno ritorno dell’identico nietzscheano, in quello del simile.
Va ascritto a Baeumler, uno degli autori di Damiano, il merito di aver letto la visione del mondo del filosofo di Röcken in termini polemologici. Nietzsche prospetta “Un mondo senza conciliazione. E stappato alla mera coscienza[…]per essere consegnato alla vita che si coagula intorno all’unità del corpo” (p. 26). Il corpo è la “struttura della sovranità”, è “unità energetica”, per questo il nuovo inizio non potrà che imporre un nuovo potere della vita, di contro al potere (spietato) sulla (contro) la vita, messo in campo dalla modernità. Riferimento prioritario dell’autore è il Platone di Günther, teso, come ha riconosciuto Esposito, a mostrare “l’esigenza di conservare puro il ghénos dei guardiani e in genere dei governanti” (p. 38). La libertà effettiva va intesa quale crescita vitale dell’intera comunità. In Al di là del bene e del male, Nietzsche utilizza quali sinonimi i termini Herkunft e Ursprung, vale a dire ‘stirpe’ ed ‘origine’, “in tal modo l’origine non è qualcosa di statico e di astorico[…](si può dare) una geneaologia dell’origine dagli esiti mai lineari e rassicuranti, sempre in bilico, sempre esposta al rischio […]di un brusco rovesciamento delle sue sorti” (p. 47). La potenza dell’origine è data dal fatto che essa è sempre appesa al libero darsi del suo evenire e, pertanto, la sua relazione con la storia dipende dal “comando” del possibile e della libertà.
Sotto il profilo sacrale l’origine è paradigmaticamente data nel dio Giano, per definizione bifronte, mai relegato dal mito nell’illud tempus dell’astoricità, ma rivolto verso il ‘sarà’, aperto al futuro. La sua sacralità sta nell’ambiguità, nella possibilità dell’evento. Ma cosa bisogna intendere, in tale contesto ideale, per evento? Damiano risponde, con esplicito riferimento alle posizioni espresse da Carlo Diano, dicendo l’evento essere ciò che spezza, destruttura la routine, il continuum cronologico. E’ forza dirompente, quindi, “si tratta di un accadere in cui l’uomo è esposto, coinvolto” (p. 79). Damiano nega l’umanesimo dell’evento, in quanto è l’uomo a “trovarsi” in esso, non il contrario. Evento è pro-venienza, è eccedenza, è essere posti fuori dal “centro”. Quindi, evento ed origine “non possono essere pensati l’uno a prescindere dall’altra” (p. 81). A questo punto, l’autore ci mette in guardia da possibili equivoci o confusioni. Troppo spesso si sono presentati nella storia ri-nascenze che, nei fatti, non furono tali. Caso eclatante: il sacro romano impero, vera e propria contraffazione della Tradizione della Città Eterna. In esso tornò a mostrarsi la regalità davidica: “I Franchi miravano ad entrare nella storia della Chiesa come i continuatori delle prodezze di Israele” (p. 84). Stante la lezione di Carl Schmitt, la stessa idea di katéchon può essere latrice di incomprensioni: può essere posta in relazione al nuovo inizio a condizione che la si intenda quale acceleratore involontario del processo storico.
Rilevanti sono le pagine dedicate alla critica del cospirazionismo storico e della stessa idea di decadenza. Il cospirazionismo, tesi di ascendenza cattolica, ha prodotto ciò che Ernesto De Martino definì la desertificazione del divenire, sottraendo il processo storico alle categorie della possibilità e dell’apertura inesausta. Julius Evola, in Rivolta, con la presentazione del ciclo eroico, rettificò lo schematismo ciclico di Guénon, aderendo all’idea della possibile inversione, sia pure temporanea, del corso della storia. Quindi, “in Evola si dà la possibilità di sorprendere la storia” (p. 75), anche se, rileva l’autore, tale prospettiva nell’opera principale del tradizionalista, non ha avuto sviluppi significativi. Damiano suggerisce, quindi, un compito imprescindibile alla critica evoliana.
L’intero libro mira a fornire indicazioni utili all’esegesi della modernità. Uno scavalcamento all’indietro dell’età presente sarebbe atto “massimamente moderno[…]una modernità che si supera, conferma la sua essenza nell’atto stesso di superarsi” (p. 92). E’, pertanto, necessario recuperare una lettura multipla del moderno, per comprendere che, in esso, si può dar luogo a situazioni storico-politiche che alla modernità non sono riconducibili. La Via dell’altra modernità indicata con persuasività di accenti, tra gli altri, da Davide Bigalli. In tal senso, il riferimento conclusivo di Damiano alla “rivoluzione dei corpi” e alle tesi di Giorgio Cesarano, non ci pare casuale.
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