Oggetto del mio intervento è un breve esame dell’uso del simbolismo da parte di Tolkien. Data, però, la vastità del tema, l’amplissimo uso di simboli da parte del filologo di Oxford e la ampiezza di rimandi, riscontri e ulteriori riflessioni che ogni simbolo suscita, questa analisi non potrà, per forza di cose, che limitarsi ad alcuni brevi cenni. Inoltre, la stessa rassegna che intendo qui proporre ha una pretesa meramente “evocativa”, di fornire, cioè, un insieme limitato di immagini, approssimazioni e “visioni” simboliche, al fine di rispondere a questi interrogativi: quale la misura dell’uso dei simboli da parte di Tolkien? Quali le implicazioni di questo uso? E quale la consapevolezza, da parte dell’autore, nel ricorrere a questi simboli – cioè: quale “rigore tradizionale”, rispondenza al significato arcaico?
Si può premettere sin d’ora, a parziale risposta a tali quesiti, che Tolkien non ignorava certo una delle caratteristiche principali dei simboli, quella della loro dualità (non dualismo): due significati diversi, spesso opposti, si racchiudono in un unico simbolo, spesso corroborandosi vicendevolmente, senza negarsi l’un l’altro. Talvolta, peraltro, tale dualità è dovuta a ragioni di tipo storico, accadendo che un senso nuovo andasse a sostituire il precedente, per opposizione, per “cambio di civiltà” o per il sovrapporsi di una nuova sensibilità. Conscio di questa fondamentale caratteristica, Tolkien è però appieno uomo del ventesimo secolo. In lui epos e mythos sentono i tratti di quest’epoca, manifestandosi, a livello letterario, in una malinconia, o meglio in una nostalgia (dolore della lontananza). Tale carattere, latente e diffuso dell’opera tolkieniana, e che cercherò di mettere in luce nel proseguio, è la ragione del tanto fascino odierno, inattenuato (e anzi direi accresciuto) a quasi trent’anni dalla scomparsa dell’autore del Signore degli Anelli.
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I simboli che tratterò per primi sono legati agli elementi naturali. La loro semplicità non deve fare pensare a banalità: viceversa, essa è sinonimo di universalità. Facendo riferimento a immagini quali quelle della montagna (e del vulcano), della caverna (e del labirinto), dell’albero, del bosco, del giardino o dell’isola, infatti, si allude a elementi presenti agli uomini di pressoché ogni epoca e luogo. Non solo questo, ma anche questo è un importante motivo della loro universalità, che non casualmente si esprime in termini affini, attribuendosi cioè allo stesso simbolo analoghi significati in tradizioni diverse. I riferimenti che farò, peraltro, saranno limitati per lo più all’area indoeuropea, perché sebbene alcuni ravvisino, e fors’anche non a torto, influenze diverse in Tolkien (specialmente veterotestamentarie), a me pare che in gran misura all’area spirituale e mitologica indoeuropea si debba far riferimento, tanto nel cercare riferimenti specifici di modelli di ispirazione di Tolkien, quanto, e a maggior ragione, nell’investigare la stessa “visione del mondo” tolkieniana.
Il primo simbolo cui farò dunque riferimento è quello della montagna. Univocamente le tradizioni mondiali le attribuiscono il significato di sede della divinità: ciò avviene tanto nei casi più noti del greco Olimpo, dell’indiano Sumeru (noto anche come Meru), dei varî Sinai, Sion e Golgota biblici, etc. Ma in realtà di monti sacri sono costellate le credenze dei popoli; per esempio, in un recente saggio (R. Del Ponte, I Liguri. Etnogenesi di un popolo, Ecig, Genova 1999) è stato ben messo in luce come tra gli antichi Liguri, una delle principali popolazioni italiche antiche, nella religiosità trovasse una posizione del tutto preminente un “culto delle vette” con relativi santuari e divinità collegate. Non è un caso del resto, come hanno rilevato alcuni pensatori tradizionalisti, che il termine “paradiso” derivi alla nostra lingua, per il tramite dell’ebraico, dal sanscrito paradesha, indicante un luogo elevato. Nel simbolismo, nell’iconologia antica come nelle più remote incisioni rupestri, la montagna viene rappresentata come un triangolo, più o meno equilatero, con un vertice rivolto verso l’alto. Questo simbolismo dell’alto, dell’elevato, della direzione verticale e ascendente, non è senza relazioni con una visione del divino in cui a essere invocate sono le potenze luminose, solari, “maschili”. Chiariremo meglio questo concetto in seguito, trattando della montagna e della caverna.
In molti miti europei, specialmente medievali, la montagna viene collegata alla figura di sovrani, mitici o reali, che, si dice, in essa riposano, per tornare un giorno, destati dal loro lungo sonno, a restaurare l’aureo periodo della loro regalità. Tutto ciò conforta l’immagine della montagna quale luogo sacro. Inoltre sulle affinità di “ascesi” e “ascesa” molto è stato scritto: basti rammentare, qui, come la stessa odierna esperienza alpinistica abbia in numerose occasioni fornito lo spunto, a scalatori più o meno “professionisti”, di parlare di “esperienze di confine”, quando non di veri e proprî “stati trascendenti della coscienza”. In tutto ciò, nel contatto e nel confronto diretto dell’uomo con la montagna, va dunque ravvisata una di quelle “porte” al sovrasensibile già chiaramente percepite dagli antichi. I riti dionisiaci si svolgevano sulle alture, e i maestri spirituali cinesi, ricorda René Daumal nel suo libro Il monte analogo, che costituisce un po’ una summa di questi orientamenti, impartivano agli allievi le loro lezioni sull’orlo dei precipizî delle montagne.
A questa visione tradizionale della montagna si affiancava una ben precisa struttura cosmica. Essa ha una sua compiuta teorizzazione in India, dove al Sumeru fa da contraltare cosmico un omologo monte “perno dell’universo” dall’altra parte del mondo: l’immagine della montagna come Asse del Mondo, sia detto per inciso, doveva avere un’antichità forse addirittura maggiore di quella dell’albero. Questa stessa struttura cosmica è presente anche nella Divina Commedia, dove il monte del purgatorio si erige precisamente sulla verticale della “natural burella” del cono dell’inferno.
Come si presenta in Tolkien questo simbolismo? Prendiamo a esempio, per rispondere, uno dei passi principali in cui i personaggî si trovano di fronte a una montagna: il Caradhras. Qui il monte è ostile: le espressioni dei personaggî in merito sono inequivoche. Essa si oppone al passaggio della Compagnia dell’Anello, poiché il braccio del Nemico è divenuto assai lungo, e ha ormai raggiunto anche queste terre a lui assai remote. Il monte è cioè pervaso ancora da un senso del sacro, ma terribile e incontrollabile: la potenza che lo domina si rivela ostile: sarà questo il motivo che costringerà la Compagnia a trovare una diversa via.
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Un significato affine alla montagna, ma non uguale, ha nel simbolismo il vulcano. La mancanza della vetta, che lo caratterizza e differenzia, non equivale a mancanza di carattere sacro. Viceversa, il contatto della fiamma incandescente che vi riposa con l’ambiente esterno è segno di una sacralità a diretto contatto con il mondo – peraltro dall’aspetto spesso terribile. Senza andare troppo lontano, si pensi al mito circa l’Etna, concepito quale fucina nella quale Vulcano forgiava le saette di Zeus; una tradizione medievale inoltre, riportata dal Graf, rimanda a quell'”Artù nell’Etna” (forse una figurazione simbolica di Federico II) cui si è accennato parlando della montagna. Ed è un vulcano, nel Signore degli Anelli, a costituire, nella terra nemica, l’obbiettivo della cerca sui generis che il protagonista deve compiere. Anche qui, il vulcano è la sede di una manifestazione del divino terribile, che distrugge.
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Direttamente connesso, anzi dipendente dal simbolismo della montagna è quello della caverna. Per riprendere il tema iconografico suaccennato, se la montagna veniva usualmente raffigurata con un triangolo dal vertice rivolto verso l’alto, è un opposto triangolo con il vertice rivolto verso il basso a indicare la caverna. Il sovrapporsi dei due simboli, poi, poteva dar luogo al cosiddetto “Sigillo di Salomone”, che, di là dall’essere odierno emblema di una recente entità statuale mediorientale, è simbolo universale, non certo prerogativa del solo ebraismo (lo si ritrova anche nella più antica India, per esempio). Esso rimanda a una conciliazione degli opposti.
Secondo René Guénon, è a una diversa epoca, più recente, che va connesso il simbolismo sacrale della caverna: come in epoche remote il divino era naturalmente accessibile a tutti, e in quanto tale da tutti visibile (tale è il caso della montagna), con una nuova età (e precisamente con la seconda fase del ciclo cosmico) le conoscenze che alla sede del divino si ricollegavano devono “ritirarsi” in un luogo più remoto, non accessibile a tutti, così dando forma all’esoterismo. I popoli, va peraltro aggiunto, non sempre si avvicinarono alle caverne con il medesimo “sentire”. Popoli che abitarono nelle caverne manifestavano spesso un’attitudine “lunare” e “matriarcale” nei confronti della spiritualità, viceversa un diverso sentire doveva generalmente animare quanti verso le caverne andavano con precisi intenti rituali. È nel mitraismo, religione spiccatamente (seppur non del tutto univocamente) solare, che i riti di iniziazione si compivano negli antri più bui.
In Tolkien, e in particolare nel Signore degli Anelli, sono due le caverne, o i tipi di caverne, che hanno rilevanza. Le prime sono le antiche case degli hobbit: la loro caratteristica è il senso di accoglienza domestica. Il popolo hobbit, d’altronde, è di indole prevalentemente pantofoliera, borghese e, appunto, “matriarcale”. Le caverne abitate anticamente da loro, comunque, hanno poco della “caverna” in senso classico: dai dolci e verdi colli della Contea non sorgono vette altissime, e le caverne sono proporzionalmente dimensionate, anche e soprattutto nell'”indole” espressa dai loro abitanti.
L’altro tipo di caverna, anzi la caverna per eccellenza del Signore degli Anelli, è Moria. Nel viaggio della Compagnia a Moria, vera e propria “discesa agli inferi” in piena regola, si ripetono modelli universali di simbolismo. Lo stesso ingresso nell’antro della caverna è anticipato da un viaggio periglioso; il luogo in cui si trova il “passaggio” al mondo infero è oscuro e tetro. Queste caratteristiche trovano delle precise corrispondenze, per esempio, nel VI libro dell’Eneide e nel primo canto dell’Inferno dantesco; ma di “discese agli inferi” sono ricche un po’ tutte le tradizioni: si tratta del modello classico del viaggio iniziatico. Entrata la Compagnia dell’Anello nella caverna, il simbolismo di questa cede il passo, secondo un modello assai consueto, al simbolismo del labirinto; infatti Moria si snoda in una miriade di stanze, costruite in epoche remote dai nani. Qui la Compagnia può procedere solo grazie alla guida sicura di Gandalf, elemento della luce spirituale, vero e proprio “filo di Arianna”. La caverna è nel simbolismo inoltre strettamente associata al cuore, come ha rilevato con particolare efficacia René Guénon. Non è d’altronde casuale, a mio avviso, che l’assedio di cui è vittima la Compagnia sia scandito da un battito (“tum, tum“) di tamburi, a ritmo sempre crescente. Nel viaggio raccontato nel romanzo, seguono con preciso significato al nero della caverna il combattimento di Gandalf, custode del “Fuoco Segreto” nelle e contro le fiamme del Balrog (fase “rossa”) e, alla conclusione di un lungo percorso iniziatico, la rinascita del protagonista quale “Gandalf il Bianco ritornato dalla morte”. In questa prospettiva, il “ritorno alla luce” della Compagnia rappresenta il compimento della “rinascita” iniziatica.
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A questo punto del romanzo la Compagnia torna a viaggiare alla luce del sole, e giunge a Lorien: il giardino per eccellenza del libro. È un “giardino di delizia”: il popolo fatato che lo abita vive sugli alberi che ama, immagini fatate e meravigliose vi si susseguono; il tempo stesso ivi scorre in modo inusuale. Questo tema del giardino meraviglioso e delizioso è presente in diverse testimonianze tradizionali (si pensi a quello delle Esperidi, alla saga di Gilgamesh, al Paradiso terrestre biblico). L’albero in sé, che del giardino costituisce elemento essenziale, ha in Tolkien prevalenti caratteristiche “positive” (luminose nel Silmarillion, di simbolo regale – a Minas Tirith – e di arcaicità – nel caso di Fangorn – nel Signore degli Anelli), ma il Bosco, altra forma di manifestazione del simbolismo dell’albero, è caricato di un significato nettamente duale. Esistono cioè caratteristiche assai diverse tra i personaggî incarnanti primordiali “signori dei boschi”, come Tom Bombadil – che paiono così vicini all’immagine dello jüngeriano Waldgänger) e i personaggi che viceversa vedono i boschi come luoghi oscuri e tenebrosi (o meglio, sono diverse le tipologie di boschi). La foresta per eccellenza della Terra di Mezzo, e cioè Bosco Atro, rientra nettamente in questa seconda tipologia.
Scrisse nel suo Origini indoeuropee Giacomo Devoto, forse il principale linguista italiano del secolo: “Il tratto fondamentale del paesaggio indoeuropeo originario è dato dalla foresta”. Allo stesso modo, termini importantissimi del vocabolario indoeuropeo più arcaico traggono proprio dal paesaggio boschivo la loro fonte etimologica: la stessa fondamentale parola “luce” deriva da quella sua particolare manifestazione che è data dal suo filtrare tra i rami degli alberi, e in specie nelle radure. Così “luce” è strettamente parente di lucus, il bosco sacro nell’antico latino. Inoltre nell’immaginario medievale europeo al bosco si collegavano le più svariate credenze: esso era visto infatti come luogo di arcani incontri, di pericolose presenze, di fatate entità. Queste sono le stesse caratteristiche di Bosco Atro.
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Anche l’isola, come noto, ha una parte di rilievo nell’epopea tolkieniana. Il richiamo, nettissimo, al mito platonico circa l’affondamento di Atlantide è sin troppo noto nella vicenda di Numenor perché valga soffermarvisi. Ciò che va aggiunto è che la sede degli “immortali” o “immortalati”, delle presenze luminose elfiche incorrotte, resta l’isola a Occidente. Mito diffusissimo, addirittura al di fuori dei confini d’Europa, quello dell’isola quale sede mitica è testimoniato dalla ricchezza delle tradizioni sulle varie Thule, Avallon, Tir na mBeo etc. Si tratta di raffigurazioni varie (e riferite, specie la prima in confronto alle altre, forse anche a memorie diverse) di una terra originaria e fatata, sede variamente di “eroi”, morti e presenze immortali. Su questo tema torneremo tra breve, facendo riferimento all’ultimo dei simboli qui trattati.
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Il convegno odierno essendo dedicato al “Viaggio della Compagnia verso il terzo Millennio”, sarà forse il caso di aggiungere qualcosa su queste parole, iniziando dalla Compagnia. Nelle saghe e nelle leggende, va premesso, è più frequente l’eroe solitario rispetto alla compagnia (ma ci sono numerose eccezioni). In estrema sintesi a me pare che la Compagnia tolkieniana non sia un’unione comunistica, nella quale le singole personalità si fondono; vi permangono tratti gerarchici, e oltretutto una speciale “interrazzialità”. Si tratta dell’élite delle razze solari a riunirsi nella Compagnia dell’Anello: mai, per intenderci, un Orco o un Sudrone ne avrebbe potuto far parte. In essa nessuno perde la sua precisa identità e il suo preciso ruolo, anche letterario, ma viceversa è per il tramite della Compagnia stessa che matura e vive la sua avventura vera e propria, che combatte cioè la sua Grande Guerra Santa. Lo spirito è quello di una compagnia di ventura, o ancor più quello dei sodales medievali.
L’impresa iniziatica della Compagnia è il viaggio, e non potrebbe praticamente essere altrimenti. Viaggiatori mitici sono Dante, Ulisse, Enea, Ercole, Gilgamesh, Sigfrido e tantissimi altri: è nel viaggiare che l’eroe si confronta con i pericoli, cresce e migliora. E al viaggio non può fare da naturale conclusione che il ritorno: non a caso con le parole “Sono tornato” si chiude il Signore degli Anelli: davvero simile, d’altronde, è il finale dell’avventura di Sam a quello di Ulisse che giunge nella sua Itaca e giustizia i proci che vi imperversano.
La realizzazione del compito della Compagnia dell’Anello conclude un vero e proprio ciclo cosmico: la Terza Era si chiude, e inizia l’Età degli Uomini. Anche la concezione ciclica tradizionale è ben presente a Tolkien – e la sua attitudine di fronte al destino di decadenza del mondo moderno fa di lui un guerriero nel senso tradizionale. Con l’instaurarsi di un nuovo ciclo, anche nuove forme simboliche vengono a predominare.
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Per concludere questa disamina, vorrei ricordare un ultimo simbolo che appare in Tolkien in un modo molto significativo. La Compagnia dell’Anello sta per lasciare Lorien, per riprendere il suo viaggio. Lungo il Grande Fiume, prima dell’addio, una imbarcazione dalle sembianze di un grande cigno dorato si avvicina. Un canto dolce e tristissimo è quello di addio della bianca e bellissima dama Galadriel, velato di tristezza, ma in esso già si cela, in pura potenza, il richiamo della redenzione. Il popolo chiaro, puro e luminoso dà così il suo addio. Analogamente, dalla “triste storia dei figli di Lir” irlandese sappiamo di come i figli di questo sfortunato sovrano furono per un sortilegio mutati in cigno: il loro canto dolcissimo e tristissimo incanta chi li oda. Esso appartiene o rimanda così all’Altro mondo. Nel mito greco e romano il cigno è animale iperboreo, sacro al dorico e nordico Apollo; non a caso dalla Svezia alla Valcamonica si rinvengono incisioni raffiguranti il suo caratteristico collo. In un mito estremamente diffuso Fetonte, avendo improvvidamente guidato il carro del padre, dio solare, viene precipitato nelle acque dell’Eridano, ove muore. Viene pianto dalle Eliadi ma anche da Cicnus, il vecchio figlio del re dei Liguri, che ne era parente. Il canto di dolore muta il vecchio dai bianchi capelli nell’animale che oggi porta il suo nome, e che assurge in cielo (il fenomeno è definito sin dagli antichi come catasterismo). Socrate, nel Fedone platonico, sostiene di assomigliare al cigno, che non piange la propria morte, in realtà, dolorosamente, ma con la gioia di chi sa di ricongiungersi all’elemento divino donde proviene.
Questa bianchezza dell’animale, come dei capelli dei vecchi, non è solo il segno della purezza originaria, ma rimanda anche alla sua remota antichità iperborea. E il rivolgere a tale remota origine lo sguardo è il grande messaggio dell’opera simbolica tolkieniana.
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Relazione tratta da AA.VV., J.R.R. Tolkien. Il viaggio della Compagnia verso il Terzo Millennio, Atti del Convegno svoltosi all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” il 5 maggio 2000, Roma 2001, pp. 45-53.
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