È interessante notare con quale rapidità si diffondano e si impongano gli atteggiamenti buonisti. Propagandati dapprima da singoli avanguardisti un po’ svitati, conquistano rapidamente le simpatie di persone colte, isolate da quel mondo reale che osservano in modo avido e ambiguo; sono proprio questi nuovi philosòphes a propiziare l’ingresso nel pensiero e nel linguaggio comuni delle idee nuove.
Ne abbiamo visto molti esempi: dall’operaismo ai dogmi della political correctness, passando per femminismo, giovanilismo sessantottesco, terzomondismo e négritudine, diritti dell’uomo e dell’omo, resistenzialismo, eccetera. Tutte queste idee entrano in modo spesso inavvertito anche in quegli ambienti che, almeno dapprincipio, le avevano osteggiate; i pochi che non se ne lasciano permeare vengono presto o tardi messi con le spalle al muro: prendere o lasciare, cioè accettarle o venire escluso dal consesso civile. Il che è piuttosto semplice: basta rinfacciare all’avversario un’affermazione divenuta sconveniente, marchiandolo così d’infamia imperitura.
Questo stesso meccanismo ha operato, grosso modo dagli Anni ‘60, nei confronti dei «diritti degli animali». Come in vari altri casi, alcuni eccessi della situazione hanno propiziato l’insorgere di una reazione: il forte prelievo venatorio di quegli anni ha portato a una drastica riduzione della fauna (specialmente gli uccelli); l’avvio di colture intensive, abbinato a un abbandono generalizzato delle campagne, ha ulteriormente ridotto gli habitat; il passaggio dall’economia sostanzialmente rurale dell’anteguerra al boom economico ha reso la carne un alimento quasi ordinario. Spinta da queste e altre trasformazioni è sorta una concezione sempre più sentimentalista e umanitaria degli animali, contraria, per principio, alla loro uccisione.
Si sono diffuse massicciamente le diete vegetariane, vegane e macrobiotiche; sono sorti comitati e organismi internazionali per la difesa delle foche e delle balene o per il bando delle pellicce; il cacciatore è passato, persino nelle favole, da figura positiva a negativa (diciamo da Cappuccetto rosso a Bambi). E tutto ciò è avvenuto, all’apparenza paradossalmente, proprio nell’epoca in cui, forse più che in ogni altra, l’animale è stato ridotto a cosa, o meglio a merce: mucche, polli e maiali vengono allevati in aziende sempre più colossali, e indotti a una crescita mostruosa; il loro macello, pietoso e accettabile per l’odierna morale, ricorda sinistramente quelle aziende della morte che infestano gli incubi di una vasta produzione letteraria. Per converso, strangolate da una legislazione dissennata, sono ormai quasi scomparse le piccole aziende, quelle per intenderci che ciascuno ricorda dai tempi della giovinezza o dell’infanzia, nelle quali un orto, una mucca e una decina di galline fornivano buona parte del fabbisogno alimentare a una famiglia.
Al di là dell’astrattezza ideologica, oggi l’ecologista-tipo (buonista, corretto, equosolidale) nella maggioranza dei casi abita in città, si muove in automobile, ingurgita cibi confezionati da industrie multinazionali; se mangia animali, questi raramente hanno visto nel breve corso della loro vita la luce del sole, e tantomeno cibo naturale. Per costui la natura sono i giardini pubblici, i piccioni e i ratti delle città, o la gita in yacht appena fuori del porto. Viceversa il cacciatore, nella maggioranza dei casi, abita in campagna, conosce i boschi e li rispetta, si prende cura del suo terreno e mantiene, così, un piccolo caposaldo ambientale.
È ovvio che vi sono numerose eccezioni; ma in linea di massima l’ecologista è tanto malvisto in campagna quanto il cacciatore lo è in città. E questo perché vi è una profonda frattura che separa l’ecologismo astratto dall’ecologia vera e propria, intesa cioè nel suo senso etimologico.
Una decina di anni fa Reinhold Messner venne cacciato ignominiosamente dal Partito dei Verdi, per i quali aveva partecipato a una competizione elettorale, quando disse: «Per me la caccia non è una necessità, ma fa parte della mia cultura di montanaro» (tra l’altro, sarebbe bastato leggere i suoi libri per rendersene conto). Un esempio ancor più eclatante di questa mentalità «umanitaria» nei confronti degli animali è giunto recentemente da oltreoceano, ove il presentatore televisivo Cesar Millan ha affermato che occorre educare i cani con autorevolezza, poiché essi hanno bisogno di riconoscere nel padrone il proprio capobranco: sono insorti i liberal, gli «educatori comportamentisti» e le anziane miliardarie.
La morte e il dolore oggi sono il vero tabù: per la morale odierna è inaccettabile sentire parlare, e ancor più vedere, morte e dolore: soltanto nella fiction sono ammessi. Le armi sono considerate peccaminose e chi le usa è un sadico o un deviato da psicanalizzare. Ecologismo e animalismo diviengono così la veste di questi sentimenti: anche contro ogni logica ecologica, spingendosi sino all’avversione verso la caccia di selezione, che ha la precipua finalità di favorire o ristabilire l’equilibrio, dinamico e quindi sempre precario, tra le diverse specie.
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Tratto da Il Borghese anno XI n. 2 (febbraio 2011).
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