Riflessioni su alcuni romantici

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ingresso-cimitero-friedrichEsaminando vedute ed estetica di alcuni autori ottocenteschi tra loro anche molto diversi, tenterò di far luce sulle loro differenze e su quanto li accomuna.

Attraverso una concisa disamina di Iperione o l’eremita in Grecia, romanzo epistolare piuttosto breve di Friedrich Hölderlin, emergerà sia lo specifico punto di vista del poeta tedesco che quanto ha in comune con altri esponenti del romanticismo.

Assai brevemente, lo scritto, ambientato nella seconda metà del settecento, narra delle peregrinazioni del suo protagonista Iperione, che avvengono soprattutto all’interno della Grecia. La maggior parte delle lettere che compongono per intero il romanzo sono scritte da Iperione e rivolte all’amico Bellarmino (più avanti avrò modo di riferirmi ad alcuni snodi e personaggi del libro).

Ma veniamo a cosa di specifico caratterizza il romanticismo di Hölderlin. Nel libro si fa riferimento al nulla e al destino. Il primo dei due termini rimanderebbe alla più completa assenza di differenze al mondo, al carattere omologo e meschino di tutto quanto esiste. Il secondo ad un tragico, insuperabile, fatalismo. Solo l’arte, ovvero il sogno, può allietare l’esistenza. All’aridità dell’illuminismo viene contrapposto ed esaltato l’irrazionale. Più in generale credo che tutti i romantici, o quantomeno la maggior parte di essi, dell’illuminismo abbiano conservato la modernità dei suoi valori politici. E ne hanno perpetuato le tendenze più radicali (gli autori cui faccio riferimento in questo articolo, magari in misura diversa, sarebbero accomunati da ciò). Ciò, ritengo, soprattutto per via del piacere per l’azione e per la vitalità, che sarebbe un tratto tipico del gusto romantico. Anche, dunque, lo stile di Hölderlin è tale che amorevole sentimento e sensuale selvatichezza si esprimono congiuntamente nelle immagini poetiche e nelle descrizioni che riempiono le pagine di Iperione.

iperioneLa maggiore lucidità del punto di vista illuministico rispetto a quello romantico rendono il primo grettamente utilitaristico e dunque anche avverso alla vita. Nel romanzo in esame tale mentalità è rappresentata dal popolo tedesco (Iperione si stabilirà in Germania – lo si evince leggendo l’ultima parte del libro). Ai suoi antipodi è il popolo ateniese, che Hölderlin idealizza anche attribuendogli un pacifico spirito democratico (il poeta tedesco non si riferisce unicamente all’Atene del V secolo, anzi potrebbe aver preferito l’Atene dei secoli precedenti).

Scandagliando le illusioni hölderliniane cercherò di rendere, anche se molto parzialmente, ciò in cui consistono (dandone un’idea). È ovvio che solo irrazionalmente si può preferire un doloroso vitalismo a quanto assopisce, o quantomeno attenua, l’impetuosità della vita. Ma prendiamo l’eroismo guerresco, o meglio rivoluzionario (indipendentista), che Hölderlin esalta. Combattere (e lo si deve solo per una giusta causa per il poeta) è nobile poiché da un lato lo si fa anche per gli altri, dall’altro – vi è da ritenere – poiché è indice di un antiegoistico attenuato attaccamento alla vita, quasi di una generosità fine a se stessa. Ma, se non esiste nulla (ho fatto sopra riferimento a ciò), l’amore disinteressato per gli altri è solo un’apparenza. E l’indole sacrificale di chi combatte non è altro che incoscienza, stolida intemperanza. Ciò da un lato. Dall’altro è puro gusto per la cieca azione che è impulsività indifferente agli altri o quantomeno egoistica animosità nei loro confronti. Bontà ed eroismo non esistono, solo illudendoci possiamo distinguere tra chi possiede le anzidette qualità e chi ne è privo. In generale ogni differenza al mondo è solo apparente. Non si offrono delle – per giunta reificate – identità tipologiche.

Il senso del romanzo è che Iperione non perderà il suo spirito romantico, il suo gusto per l’irrazionale bellezza, il piacere di sognare, nonostante l’avvilente morte dell’amatissima Diotima (che assieme al precettore Adamas e ad Alabanda, suo migliore amico e compatriota, sono i principali personaggi del libro). Secondariamente, nonostante la disillusione circa l’eroismo dei brutali greci assieme ai quali ha combattuto per liberare la sua terra dai turchi.

William Blake, pur operando come letterato a partire dalla fine del settecento, credo sia da considerarsi un preromantico. La continuità mantenuta con l’illuminismo (per giunta del tipo più radicale) è molto marcata. Ciò che interessa infatti al poeta inglese è il problema della felicità umana. Per questioni di eroismo e grandezza credo le sue opere non abbiano riguardo. Sul piano espressivo, invece, nei suoi scritti benevolenza e fascinazione si compenetrano romanticamente a vicenda.

Nei Canti dell’esperienza emerge chiaramente come alla base di ogni problema dell’umanità vi sia la paura. Restringendo la sfera di tali problemi a quello della sola moralità, Blake si pronuncia a favore di una gioiosa condotta libertaria (nelle sue poesie il termine ‘gioia’ ricorre spesso). L’uomo, temendo se stesso, reprime le proprie pulsioni e la propria passionalità, ritenendole dannose per sé. È la condizione di Urizen, personaggio mitologico di sua invenzione, che dà il titolo a un suo poema (più in generale rappresenterebbe tutti i mali del mondo). Nei Canti dell’innocenza, a simboleggiare l’innocenza, ovvero l’innocuità dell’uomo selvatico, non addomesticato, è la figura del bambino o quella dell’agnello calati in selvaggi contesti naturali.

Tratti romantici caratterizzano il Manfred di Lord Byron. Il breve poema drammatico, ambientato nelle Alpi svizzere, ha come protagonista un aristocratico faustiano, il Conte Manfred. Ha avuto una relazione amorosa dai dettagli imprecisati con la sorella Astarte, morta per circostanze non chiarite nello scritto. Il poema, costituito da statici monologhi e dialoghi, si conclude con la morte del protagonista.

La critica rivolta all’illuminismo è forse di notevole profondità. Tale tendenza dello spirito produrrebbe un graduale inaridimento interiore che non si arresterebbe tuttavia ad un’impulsività meramente egoistica (il che costituirebbe pur sempre un motivo per cui apprezzare il fatto di vivere). Procederebbe addirittura oltre: “Io sento l’impulso – tuttavia non mi getto”; “Io vedo il pericolo – tuttavia non recedo”; “perché io ho smesso / Di giustificare le mie azioni a me stesso…” (tali citazioni, e quelle che seguiranno, sono tratte da un’edizione della Mondadori del 2005 dell’opera in esame, curata da Franco Buffoni). In tutto ciò che ho appena riportato mi sembra si abbia a che fare con una nichilistica arbitrarietà.

Che Byron abbia conosciuto l’alchimia (nichilistica, almeno a mio parere) emerge forse da quanto segue: “presi a trascorrere / Le notti dei miei anni studiando scienze non mai insegnate / Se non nell’età più antica”. Allora la relazione con Astarte potrebbe simboleggiare l’incesto filosofale che ha condannato Manfred al vuoto esistenziale.

L’incontro di costui con un semplice cacciatore gli ricorda forse il tempo in cui era ancora intensamente attaccato alla vita. L’“amor proprio, nutrito di pensieri innocenti” del cacciatore, le sue “fatiche / Nobilitate dal pericolo e senza macchia”, sarebbero aspetti analoghi alle illusioni hölderliniane di cui ho parlato in precedenza.

Manfred ha scrutato l’abisso nascosto nel fondo dell’apparenza delle nostre passioni. Byron esprime magistralmente la violenta passionalità del protagonista del suo dramma attraverso assai suggestive descrizioni di ambientazione alpestre. Manfred ha forse preso atto che alle sue passioni non ha in fondo mai obbedito, avendo sempre agito in base ad una glaciale libertà, non attaccata a nulla.

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis costituiscono una sorta di manifesto dettagliato del pensiero e della poetica di Ugo Foscolo. Il suo pessimismo di fondo, nel corso della sua esistenza, si farà sempre più angoscioso.

Jacopo Ortis è un patriota italiano proveniente da Venezia che in seguito al trattato di Campoformio, in cui la Repubblica Veneta viene ceduta da Napoleone all’Austria, è costretto a riparare presso Padova (nei Colli Euganei) dove si innamora di Teresa, promessa in sposa a Odoardo. Le frustrazioni politiche del protagonista, unite all’impossibilità di stringere una relazione sentimentale con la donna suddetta, lo spingeranno a trafiggersi mortalmente il petto con un pugnale (venuto fra l’altro a conoscenza del matrimonio di lei, la sua situazione esistenziale si aggrava). Le Ultime lettere costituiscono un romanzo epistolare composto soprattutto da lettere che Jacopo invia al suo amico Lorenzo, principalmente compilate nei Colli Euganei. Altre lettere sono spedite all’amico dalle varie località italiane in cui và a trovare rifugio (lascia i Colli Euganei soprattutto per evitare di compromettere Teresa).

Foscolo è più classicista che romantico. Più di Dante apprezza Petrarca, che ha uno stile più dolce rispetto al primo anche quando esprime i suoi affanni (esasperati e più soffocanti in Foscolo). I momenti di cui Jacopo beneficia maggiormente sono contemplativi o comunque vicini alla staticità. In tali momenti Foscolo descrive vivi scorci, quasi animati, ma ameni. Quando invece parla dei disagi di Jacopo utilizza una prosa più cupa.

Nei momenti suddetti Jacopo si sente in piena armonia con il mondo. In essi l’illusorietà è all’acme. Jacopo ha un temperamento veemente, che in quegl’attimi si placa. Quando riemerge ne soffre. Deve allora giustificarselo ricorrendo all’illusione, pensando che nel suo carattere almeno c’è del buono, in quanto non lo esplica mai contro il debole ma sempre contro il prepotente.

In Foscolo l’illusione scema, per così dire, per gradi, per arrestarsi in un punto oltre il quale vige un inconscio inaccessibile (accessibile magari teoricamente ma non di fatto). Tale inconscio è costituito dall’indomita, caotica, natura inanimata (ciò credo emerga più volte nel romanzo) e dagli oscuri moventi umani. Questi sono il dolore e la noia. Al primo si legherebbe la soddisfazione di imprescindibili bisogni ed esigenze, alla seconda ogni restante possibile atto. In più essa, quando non ci suggerisce cosa fare per scacciarla, ci condanna a non vivere pienamente e sensatamente la vita, facendocela sciupare, facendoci sprecare del tempo.

Se prendessimo davvero atto, per Jacopo-Foscolo, di ciò che siamo inconsciamente, ci uccideremmo, poiché comprenderemmo che morendo avremmo tutto da guadagnare e nulla da perdere. Ma l’uomo dà ciecamente valore alla propria vita e non può prescindere dal pensare di amare nobilmente e di essere amato altrettanto nobilmente dagli altri. Addirittura la morte gli è inconcepibile. Nella sua mente vivrà in eterno. Ecco perché vuole che, dopo morto, ogni suo caro ed estimatore lo pianga e lo ricordi.

Jacopo non muore perché interamente e serenamente (sia pure freddamente) disilluso, ma perché ogni sua maggiore aspirazione esistenziale è schiacciata, frustrata. Con la sua morte dà segno di attaccamento alla vita.

leopardi-cantiSulla base della lettura di alcuni Canti di Giacomo Leopardi delineerò, anche molto brevemente, degli aspetti essenziali del pensiero del poeta di Recanati.

L’estesa coscienza del Leopardi non genera in lui un pessimismo solipsistico, ovvero amaro ma freddamente disincantato. Le umane illusioni per il poeta hanno valore. Il Passero solitario, più felice dell’uomo in quanto, vivendo speranzosamente nel presente ha dimenticato eventuali mali passati e non conosce i futuri affanni, non costituisce una condizione poi così tanto invidiabile per il poeta. Al suddetto animale, che se ne sta in disparte mentre gli altri uccelli volano e cinguettano assieme, poco importa della sua indole solitaria. Leopardi soffre invece per il fatto di non prendere mai parte a conviviali momenti di aggregazione, anche se sono momenti evanescenti. Del non parteciparvi sa che avrà in futuro rimpianto.

Ora, in questo articolo non mi interessa tanto far luce su importanti motivi leopardiani quali la prettamente umana noia, piuttosto che sul tema del ricordo del male passato, verificatosi durante l’infanzia, lieto poiché l’incoscienza caratterizzante la fanciullezza lo fa subito dimenticare rendendo il bambino nuovamente integro e serenamente speranzoso. Mi interessa individuare dei tratti romantici in Leopardi.

Ebbene, nella Ginestra ironizza su chi ha superficialmente fiducia nel progresso. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia emerge come il poeta respinga irrazionalmente l’idea della morte.

È All’Italia il canto in cui emerge più nettamente il romanticismo leopardiano. Leopardi attribuisce, nonostante tutto, valore alla vita e in particolare all’esistenza umana, caratterizzata, rispetto a quella animale, dalla dimensione della cultura. La più autentica cultura sembra per il poeta essere maggiormente incarnata da alcuni popoli antichi, come ad esempio dal popolo greco. Nel canto suddetto si fa riferimento alla battaglia delle Termopili, combattuta da varie città greche capeggiate dallo spartano Leonida contro i persiani di Serse. L’eroico, solenne, intenso, impetuoso amor di patria dei combattenti ellenici (nonostante la loro sconfitta) è per Leopardi la bella espressione di un’umanità ancora ingenua.

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Umberto Petrongari è nato a Rieti nel 1978. Laureatosi in filosofia presso l’Università degli Studi dell'Aquila, ha pubblicato per la casa editrice Aracne due saggi dal titolo: Il pensiero negativo di Julius Evola e il suo oltrepassamento (2013); Excalibur e la tradizione ermetico-alchemica (2014).

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