Per una critica della ragione liberale

Oltre il nichilismo e il politicamente corretto

Il mondo in cui viviamo è egemonizzato dalla prospettiva liberale e dal capitalismo. Certo, rispetto agli anni Settanta, la contemporaneità è attraversata da un diffuso pessimismo, alimentato dalla crisi del 2008, ed ora amplificato dalla pandemia da Covid-19. Molti ritengono che il «sistema liberale» sia giunto al capolinea. Viviamo una fase di lento tramonto di tale ideologia, anche se gli oppositori del liberalismo incontrano difficoltà a progettare un futuro diverso dal presente utilitarista. Può essere d’aiuto, allo scopo, un approfondimento teorico della «ragione liberale». La fornisce un libro del ricercatore triestino Andrea Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, da poco edito da Meltemi (per ordini: redazione@meltemieditore.it, 02/22471892, pp. 374, euro 22,00). Il volume ricostruisce in modo organico la genesi del liberalismo, giungendo all’esegesi del suo farsi mondo nella contemporaneità.

L’interpretazione dello studioso è transpolitica, in quanto la sua è storia filosofica. Zhok si interroga su due componenti indissolubilmente presenti nel percorso umano: la motivazione e la determinazione. La prima sfera è afferente ai bisogni e alle volontà degli uomini, la seconda è data dalle condizioni in cui essi si trovano ad agire: «Nella storia le determinazioni non sono mai cause necessitanti […] ma circoscrivono spazi di maggiore o minore possibilità» (p. 14), il che implica che sia possibile attingere a spazi politici apparentemente inattingibili. La teorizzazione della «fine della storia» (Fukuyama), pensata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si fondava sulla constatazione che la liberal-democrazia capitalista era insuperabile in quanto fondata sul: «confluire di due istanze […] da un lato la ricerca dell’efficienza, dall’altro la ricerca del riconoscimento reciproco tra individui» (p. 17). Tale certezza è oggi venuta meno.

Per Foucault, al contrario, il liberalismo non è una teoria politica coerente, in quanto si è affermato in termini di prassi governamentale. Gli orientamenti del liberalismo classico, a suo dire, dopo il Secondo conflitto mondiale, si sono sviluppati nell’ordoliberismo e nel neoliberismo. Al centro di tali scelte, la biopolitica intesa quale: «politica economica che si appropria della vita umana e delle sue espressioni» (pp. 20-21). E’ possibile, comunque, individuare i due assetti portanti del «liberalismo storico»: 1) l’evidente individualismo normativo ed assiologico; 2) la visione della società strutturata attorno allo scambio economico. L’imporsi della ragione liberale va   letto in sintonia all’affermarsi del capitalismo. Tutto ebbe inizio con la Rivoluzione industriale inglese, nella quale trovarono sintesi le istanze filosofiche di Hobbes, Locke e Smith, attorno a tre assi portanti: la legittimazione dell’agire individuale, la creazione di un’efficiente pratica monetaria e la rivoluzione tecnico-scientifica, supportate dal capitale sociale ed istituzionale, ovvero da un solido Stato nazionale. Prerequisiti del liberalismo moderno vengono rintracciati da Zhok nel mondo antico, in particolare nell’affermazione della costituzione cognitiva individuale che rese l’uomo, attraverso forme alfabetiche semplici e flessibili, soggetto riflettente, atto a cogliersi come altro rispetto alla comunità. L’accelerazione decisiva di tale processo si manifestò nel 1455, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e, successivamente, con la Riforma protestante. In essa: «l’anima individuale viene letteralmente innalzata senza mediazioni al cospetto di Dio» (p. 36).

La scienza moderna galileiana, riducendo la natura a dimensione meramente quantitativa, rese la natura comprensibile attraverso la matematizzazione: ciò aprì le porte alla manipolabilità tecnica: «Il mondo diviene […] un “grande oggetto” posto da un soggetto divino, che però viene immediatamente tolto anch’esso dal quadro» (p. 41). Ruolo significativo fu svolto dalla numerazione indiana, introdotta in Europa dagli arabi nel XII secolo, che adottava un alfabeto numerico di soli dieci numeri, per non dire, della nascita del denaro virtualizzato all’epoca della creazione della Banca d’Inghilterra nel 1695 (naturalmente privata). Il mercato liberale, sorse dalla fusione di due sfere differenti, il mercato locale e il commercio internazionale, messa a punto dalla monarchia inglese. Hobbes non fece che dare unità filosofica a quanto emerso nella scienza e lesse la natura quale: «luogo delle relazioni meccaniche tra corpi in moto» (p. 62), pensando la libertà quale semplice mancanza di coazioni esterne. Il suo stato di natura è il luogo del conflitto perenne, dal quale si esce delegando in toto la libertà individuale alla Stato assoluto. Per ovviare a tale soluzione, nient’affatto liberale, Locke pose i tre diritti naturali inalienabili: autoconservazione, libertà e proprietà. Quest’ultima è indiscutibile, in quanto la prima proprietà di ognuno di noi è il corpo, che deve poter agire liberamente.

Tolleranza e divisione dei poteri sono la risultante, per Locke, della delega parziale a vantaggio dello Stato del diritto di libertà. In ogni caso, l’individuo e i suoi diritti rimangono, anche in lui,  prioritari rispetto al bene comune. Smith giungerà a sostenere, ricorrendo alla mano invisibile del mercato, che il perseguimento dell’interesse privato (il vizio, secondo l’etica antica) è in grado di produrre il bene comune (la virtù). Se nel Settecento, le realizzazioni del liberalismo furono giudicate un progresso, nel corso della storia successiva, la ragione liberale è, andata «solidificandosi». Lo si evince, nella realtà contemporanea, dal politicamente corretto, che marca i confini di ciò che può essere pensato legittimamente. Ricorda Zhok, che chiunque intenda mettere in discussione i principi fondanti della ragione liberale, subisce la reductio ad Hitlerum. Inoltre, la religione dei diritti umani, di cui è parte integrante la teoria gender, ha fatto perdere di vista: «ogni interesse collettivo» (p. 266), in quanto centrata sui diritti del singolo, di un narciso, il cui mondo interiore svuotato di senso, è riempito in modo effimero dall’inseguimento delle merci e dal novum che il mercato offre. Il «totalitarismo» liberale mostra una capacità autosalvifica straordinaria: fa crescere opposizioni teoriche che restano interne la sistema. E’ il caso, dice Zhok, delle filosofie postmoderniste francesi: «E’ essenziale osservare come questa tendenza anti-olistica […] sia una perfetta incarnazione dell’individualismo liberale classico, e sia agevolmente metabolizzata dalle dinamiche di mercato» (p. 285). Egli individua in Nietzsche il padre di tale corrente di pensiero. Non condividiamo tale giudizio, in quanto in Nietzsche è evidente il riferimento paradigmatico alla classicità, quale antidoto al moderno rizomatico.

L’autore rileva che «uscita di sicurezza» dalla società liquida può essere colta solo in una prospettiva «socialista». Riteniamo che ciò non debba rinviare al marxismo, ma a un «socialismo» capace di coniugarsi con il pensiero di Tradizione, atto a svolgere ruolo raffrenante nei confronti della dismisura, quint’essenza della «ragione liberale».

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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