Panslavismo

In un momento come l’attuale, nel quale l’erompere della guerra russo-ucraina sta drammaticamente riproponendo tematiche di natura geopolitica legate ai rapporti Europa-Russia, torna opportunamente nelle librerie un saggio, di grande rilievo teorico, pubblicato in prima edizione nel 1941 da Wolfango Giusti. Si tratta di Panslavismo, comparso nel catalogo di Oaks editrice, per la cura di Paolo Mathlouthi (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 210, euro 18,00).

Il curatore, nell’esaustiva introduzione, contestualizza e attualizza le tesi esposte dall’autore nel volume, ricordando che, a dispetto della cronaca bellica contemporanea tesa a criminalizzare il mondo ideale incarnato dalla Russia, i rapporti tra l’Occidente e il paese euro-asiatico, in particolare quelli con l’Italia, in più circostanze storiche, sono stati positivi. Si pensi all’innovativo lavoro architettonico compiuto da Giacomo Quarenghi, che dette impronta neoclassica a San Pietroburgo per volere di Pietro il Grande o a Gogol’ che scrisse le Anime morte a Roma, negli ambienti del Caffè Greco. Nella Città Eterna fanno ancora mostra di sé, abitazioni gentilizie volute da nobili russi. Lo stesso Lenin soggiornò a Capri, con altri compatrioti e: «nell’ultimo scorcio del secondo conflitto mondiale il Friuli offrirà [offrì] riparo ai cosacchi dell’Atamano Krasnov: acerrimi nemici della Rivoluzione, hanno scelto [scelsero] di schierarsi sotto le insegne del Terzo Reich» (p. V).

Wolfango Giusti è nome poco noto ai più. Fu docente universitario e membro dell’Istituto per l’Europa Orientale, per la cui fondazione si prodigò Giovanni Gentile. In queste pagine presenta le radici europee della Russia che, nel corso del tempo, a causa della propria espansione verso l’Asia, inglobò componenti etniche e culturali diverse, in particolare le popolazioni islamiche turcomanne o quelle nomadi di origine mongola. Dall’inizio dell’Ottocento, diversi intellettuali tornarono a interrogarsi sui rapporti con l’Occidente, tra questi P. J. Čaadaev e V. G. Belinskij, i quali riconobbero alle riforme “modernizzatrici” pietrine: «il merito di aver salvato la Russia dalla deleteria influenza dell’Asia tartara» (p. IX). Questi studiosi lessero l’Europa quale luogo della creatività spirituale, dalla quale la Russia non poteva continuare a rimanere separata, conducendo un’esistenza storica sorniona, appartata, lontana dal cuore del mondo. Il legame religioso cristiano sarebbe dovuto divenire il “filo aureo”, atto a legare il “continente” russo all’Europa. Dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, alla metà del XIX secolo, si assistette: «a un radicale mutamento di paradigma nel dibattito culturale […] in favore di posizioni aspramente critiche nei confronti della decadente civilizzazione europea» (p. XI). A. S. Chomjakov, I. V. Kireevskij e N. J. Danilevskij si proposero quali aspri critici dell’atomismo sociale d’Occidente. Alla società liberale, gli slavofili opponevano: «un’esaltazione parossistica del narodnost, lo spirito nazionale russo, descritto alla stregua di un’ipostasi metafisica, collocata fuori dal tempo e dallo spazio» (p. XII). Si trattava di una visione antimoderna, ferma nella difesa dei valori dell’Ortodossia, che faceva della Russia la chiave di volta spirituale e geopolitica nel confronto-scontro con l’Europa.

Dagli autori citati vennero glorificati alcuni momenti della storia nazionale. In particolare, le vittorie contro i cavalieri dell’Ordine Teutonico, momento dirimente di un: «provvidenziale disegno escatologico» (p. XIII). Maggiore interprete di tale tendenza fu K. N. Leon’tev, il quale pensò l’Autocrazia quale progetto politico irrinunciabile e vide nelle idealità religiose ortodosse l’eterno riferimento spirituale russo. L’Occidente fu esperito quale nemico da sconfiggere, all’interno di in una visione dualista, rigidamente manichea e teologico-storica. Tale concezione del mondo è oggi più che mai viva: incarnata dal pensiero di A. Dugin, che ha pagato tragicamente, sul piano personale, per questa scelta di campo. La Russia, in tale visione, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, si pose di fronte al mondo quale Terza Roma. Un sogno dal tratto chiliastico, che ha spinto, in epoche diverse, i russi a scendere in campo a favore di popoli slavi reclamanti il diritto all’autodeterminazione, Bulgaria, Serbia e oggi Donbass. Il curatore ricorda come tesi panslaviste siano state espressamente sostenute da Dostoevskij, scrittore grandissimo, antimoderno e anti papista.

Anche la rivoluzione bolscevica ha recepito il messaggio escatologico di tale corrente di pensiero: «Antiliberale in senso ideologico e antieuropea nella sostanza, la Rivoluzione ha posto in essere una restaurazione della Russia arcaica […] dove il potere autocratico degli Zar è stato soppiantato dal totalitarismo centralizzato e pervasivo del Partito» (p. XVII-XVIII). Putin, funzionario del KGB, non è che l’ultimo anello della catena ideal-politica slavofila. La guerra in atto, rileva Mathlouthi, ha messo in luce la fragilità del mondo unipolare, con al centro l’imperialismo USA sorto a seguito del crollo dell’URSS, e apre a una realtà geopolitica diversa, multipolare. Putin ha dato una risposta forte al tentativo di espansionismo USA verso l’Est Europa. Il problema è che si tratta di una risposta maturata all’interno dello stesso quadro ideologico in cui si muove l’Occidente, la cui decadenza, lo ha ammesso perfino Dugin, ha colpito al cuore, da tempo, la comunità tradizionale russa, diffondendovi gli stessi mali che pervadono la società liquida. Le guerre balistiche di “esportazione della democrazia” degli Usa nascono sul terreno della secolarizzazione della teologia della storia cristiana, la “fine della storia” nel mondo liberal-capitalista è uno dei volti del chiliasmo contemporaneo. Essa è sorta dall’esperimento puritano, creare “la casa sulla collina”, il “migliore dei mondi possibili”, dicevano i Padri Pellegrini, non casualmente espulsi dall’Europa. A tale concezione non può essere opposta una risposta speculare che, seppur segnata da antimodernismo, in realtà, della prima, condivide gli assetti teorici di fondo.

Ancora una volta, le due “braccia della tenaglia”, come disse Evola in Americanismo e bolscevismo, si stringono attorno all’Europa per soffocarla. Tornare a guardare alla physis quale unico orizzonte che ci trascenda, ci pare l’unica via percorribile per lasciarci definitivamente alle spalle i disastri della metafisica e delle filosofie della storia. L’importante studio di Giusti ci ha suggerito una riflessione siffatta.

Condividi:
Segui Giovanni Sessa:
Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *