Giunto alla quinta edizione, il libro di Felice Vinci Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Odissea e dell’Iliade (Palombi Editori), costituisce il caso culturale più rilevante degli ultimi quindici anni. Intorno ad esso ci sarebbero tutti i presupposti per innescare una disputa di straordinaria importanza, con rilevanti risvolti anche di natura ideologica. Mancano tuttavia i centri culturali, le energie intellettuali, mancano i divulgatori, manca il clima morale, manca la spinta ideale che sarebbero necessari per creare tutto un movimento di cultura alternativa, in grado di fiancheggiare il coraggioso lavoro di Vinci, così da imporre una concezione rivoluzionaria della protostoria europea all’attenzione generale: non solo a quella distratta dei mass-media – che ogni tanto ne parlano, ma con la superficialità tipica di un’informazione solo consumistica –, ma anche a quella conservatrice e sussiegosa del chiuso mondo accademico. Che del libro di Vinci ha una considerazione in genere irridente, dicendolo il frutto di una fantasia certo di talento, ma irrimediabilmente legata alla natura amatoriale della ricerca. Danno credito a Schliemann, che fu il campione del dilettantismo archeologico, e le cui scoperte furono dovute più all’entusiasmo che alla scientificità, e lo stesso credito invece negano a Vinci, che da anni ammassa impressionanti prove documentali a sostegno della sua eccellente teoria.
In base a questa, l’Iliade e l’Odissea non ebbero come teatro il bacino mediterraneo, come tradizionalmente si ritiene, ma il Mar Baltico. Da secoli gli eruditi rimanevano perplessi sulla totale estraneità della geografia narrata da Omero rispetto a quella mediterranea. Quasi nulla di quanto descritto nei due poemi coincide con la realtà del territorio che va dall’Asia Minore – in cui si è voluta collocare Troia – al Mediterraneo occidentale. Se invece spostiamo il quadro omerico da Sud a Nord, come da anni genialmente va facendo Vinci con una minuziosa documentazione, ecco che si fa piena luce, i dati finalmente coincidono, e tutto appare logico.
Del resto, già Strabone notava le incongruenze tra Omero e la realtà del territorio greco: ad esempio, notò che l’isola di Faro, che viene detta da Omero distante dall’Egitto una giornata di navigazione, in realtà è proprio davanti ad Alessandria; e nella sua Geografia, scrisse chiaramente che la Troia greco-romana – quella del sito di Hissarlik, poi individuata da Schliemann – secondo lui non aveva nulla a che fare con l’Ilio omerica. E, come rileva Vinci, Plutarco affermò chiaro e tondo che l’isola Ogigia citata nell’Odissea era nell’Oceano atlantico settentrionale. Su questa scorta, Vinci fa un elenco impressionante di toponimi e conformazioni geografiche che non hanno alcuna rispondenza in area mediterranea (il che ha sempre costituito un problema irrisolto per gli studiosi) e ne hanno invece una straordinariamente precisa in area baltica e nord-atlantica: la Troia omerica, ad esempio, lungi dall’essere stata nell’attuale Turchia, il cui sito di Hissarlik non corrisponde alla descrizione dell’Iliade, è invece nella Finlandia meridionale. Qui si hanno le condizioni omeriche: la pianura che discende verso il mare, i due fiumi, la montagna alle spalle, e la possibilità di percorrere il perimetro dell’acrocoro su cui sorgeva la città, come fece Achille e come non avrebbe potuto fare a Hissarlik, per la presenza di uno strapiombo. Giusto in questo ambiente, sorge oggi la cittadina finlandese di Toija. Omero descrisse l’Ellesponto, davanti cui sorgeva Troia, come «sconfinato», e lo è il golfo di Finlandia, diversamente dai Dardanelli, stretto braccio di mare. Omero descrisse il Peloponneso come un’isola pianeggiante, cosa che non è nel caso di quello che attualmete porta tale nome, che è montuoso e collegato alla terra ferma: lo è invece l’isola danese di Sjaelland. La Skeria, isola dei Feaci – mai rintracciata nel Mediterraneo – è identificata da Vinci nel toponimo di Skere vicino alla città norvegese di Bergen, luogo in cui si manifesta il fenomeno del riflusso del mare nel fiume, descritto da Omero. Lo stesso gorgo di Cariddi, introvabile nel Mediterraneo, corrisponde al maellstroem, il vortice marino che si forma nel mare norvegese a causa delle maree. Di fronte alla baia svedese di Norttalje c’è una Lemland (Lemno), più oltre Salis (l’antica Sale), Tebe è la Taby che sorge vicino a Stoccolma, Kalkstad non è che la Calcide, Saljo è Salamina, mentre la Scania, nella Svezia meridionale, presenta la serie Tyringe, Trane, Asum, Ahus, che altro non sarebbero che Tirinto, Trezene, Asine e l’Acaia…
Sono innumerevoli le sbalorditive concordanze di questo genere, non casuali, ma precise, non vagamente attinenti nella loro relazione, ma esattamente riscontrabili nella descrizione omerica. Vinci ne conclude: «Fu insomma lungo le coste del Baltico – dove, nel II millennio a.C. fioriva l’età del bronzo – che si svolsero le vicende narrate da Omero, prima dello spostamento degli Achei verso il Mediterraneo…». Questo, concordando con la tradizione indoeuropea, rimanda non solo a Bal Gangadhar Tilak, che nel suo libro La dimora artica dei Veda pubblicato nel 1903, dimostrò la migrazione delle genti arie dal Nord iperboreo all’Europa centro-meridionale, a seguito di eventi geo-climatici sfavorevoli; ma rimanda anche all’arcaicissima tradizione ellenica circa il ritorno degli Eraclidi, riferentesi alla calata dorica che innestò i processi di creazione delle civiltà micenea e achea, un fatto di cui già gli antichi erano a piena conoscenza.
Il discorso di Vinci è strettamente connesso con il problema indoeuropeo, con la realtà protostorica di un popolo unitario che, a far data probabilmente dal secolo XVIII a. C., si divise in due bracci calando a Sud e a Sud-Est, verso le direttrici mediterranea e indo-iranica e lasciando copiose tracce di questa sua Wanderung: ciò che ormai gli studiosi, magari anche controvoglia, sono disposti ad accettare come un dato di fatto inoppugnabile. La civiltà indoeuropea è dunque di origine nordica, e poco importa che il rinvenimento della sua Urheimat sia disputato in questa piuttosto che in quell’area dell’Europa artica oppure baltico-sarmatica. In questo senso, il lavoro di Vinci non è che la monumentale conferma di dati già in possesso dei ricercatori scientifici da molto tempo, ma per vari motivi – primi tra tutti quelli di carattere politico – oggi tenuti alla larga dalla grande visibilità e poco e male divulgati. In genere, si procede per ammissioni sommesse. Del tipo, ad esempio, di quelle di un Domenico Musti, che pure condivide il dato dell’invasione dorica, che ne fa anzi l’antefatto della nascita della polis. Ma che poi, a proposito di Omero, non rinuncia a parlare di proiezioni immaginali, di fantasia poetica, il che a suo dire spiegherebbe le incongruenze di quella «strana vittoria» dei Greci europei sugli orientali Troiani. Tra l’altro non seguita da un’occupazione stabile, come nello stile imperialistico-coloniale dei Greci storici.
Altrove invece, come ad esempio nel caso di Pierre Vidal-Naquet, si rileva che Achei e Troiani in Omero «non si differenziano tanto nettamente… venerano gli stessi dei…», non hanno problemi di lingua, sarebbero dunque di stirpi sorelle: cosa che non potrebbe essere se il teatro della guerra fosse stato il Mediterraneo, tra regni dorici stranieri appena insediati e una più antica Troia anatolica… e tuttavia si insiste a parlare di un Omero «che non è uno storico, non è un geografo», che insomma il suo racconto sarebbe pura fantasia: ma allora perché dar retta a Schliemann, che a Hissarlik ci arrivò con l’Iliade in mano credendo di seguirne passo passo le descrizioni? Perché, in presenza del dato storico della migrazione dorica da Nord a Sud, Hissarlik orientale va bene, pur non combaciando in nulla con Omero, e invece Tojia finlandese non va bene, nonostante la sua ambientazione sia proprio quella descritta nel poema?
Da questo ginepraio in cui si attardano molti storici professionali, fatto di reticenze, mezze ammissioni, dubbi e silenzi, Vinci esce brillantemente, solo seguendo la linea retta delle evidenze. In fondo, tutto è più semplice di quanto certe elucubrazioni vogliano far sembrare. I proto-Greci, una volta abbandonata la loro patria nordica, sottoposta a mutamenti climatici (dimostrati dall’orografia terrestre e dalla scienza climatologica) e divenuta inabitabile, si spostarono a meridione, portandosi dietro il ricordo della geografia della loro terra e dei racconti sulle gesta dei loro antenati. E dettero gli antichi nomi ai luoghi del nuovo insediamento. Tutto molto lineare, credibile, evidente: «Gli Achei attribuirono alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nella loro mitologia e nei poemi omerici: inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell’area mediterranea».
Le numerose altre prove raccolte da Vinci riguardano poi il clima. Omero narra in continuazione di violente tempeste, di forti venti, di nebbie… descrive come Telemaco e Pisistrato indossassero «tuniche e folti mantelli», rappresenta i «biondi lungocriniti Achei» come soggetti a Zeus «radunatore di nuvole»: che c’entra il soleggiato e temperato Egeo? Oggi sappiamo che proprio all’epoca in cui Vinci colloca l’Iliade – secondo millennio a.C. – il “paradiso iperboreo” degradò verso un clima di crescente rigidezza, passando a quella situazione di gelo e buio di cui parlano le saghe nordiche e, in quanto loro riflesso, anche le mitologie classiche. Vinci rimarca che in Omero si parla con chiarezza di una battaglia che durò due giorni, inframezzata da una «notte bianca» che permise di non interrompere la lotta, come allora si faceva al sopraggiungere delle tenebre: la notte artica. Ma occorrerebbe ben altro spazio per dare pienamente conto del materiale esposto dall’autore, talmente ricchi sono i rimandi e convincenti le dimostrazioni. Nel senso di uno sguardo generale e del valore culturale e ideologico di questo lavoro, basti dire che tale materia nasconde nulla di meno che l’identità vera e autentica della nostra civiltà.
Attorno a tale caposaldo di una moderna controcultura identitaria si svolge però un’occulta lotta tra chi tale identità intende portare alla luce e rivendicare apertamente e chi, invece, è risoluto a sottacerla. Nel libro di Vinci troviamo lo svelamento del nostro passato: «Insomma, l’aver riscontrato – scrive l’autore – attraverso l’analisi della geografia omerica, la provenienza settentrionale degli Achei… non solo conferma le ipotesi del Tilak sull’origine degli Arii, ma, più in generale, consente finalmente di gettare una nuova luce anche sull’annosa questione della patria primordiale degli altri popoli appartenenti alla famiglia indoeuropea, nonché sul motivo che li spinse a migrare verso sedi più accoglienti».
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Tratto da Linea del 13 marzo 2009.
Glauco De Horatiis
E` piuttosto interessante la teoria Omerica di Felice Vinci, ma l`interesse che desta e` da considerarsi piuttosto fantascentifico. Le condizioni geografiche,(anche con l`aiuto dello storico Greco Strabone) riscontrate da Vinci non sono affatto convincenti, e rasentano decisamente il ridicolo. Partiamo dai Dardanelli, che in contrasto al golfo di Finlandia e` di minori dimensioni. Omero descrive quello stretto acquatico come immenso….e` evidente che il poeta Greco o chi per lui(non siamo sicuri dell`esistenza di Omero) non volesse fare paragoni,per il semplice motivo che non aveva ragione per farlo;per lui lo stretto era immenso, perche` chiaramente visto da un`imbarcazione minuta. Le pianure , i monti, le vallate ed i dirupi menzionati nella vicenda Omerica Baltica, che Felice Vinci identifica come parte delle descrizioni Omeriche, ma che trasporta con le sue poco convincenti teorie nell`area Scandinava si potrebbe identificare facilmente con varie zone del globo….basterebbe adattarsi , studiare i suoli e le loro diverse caratteristiche, e poi scegliere quelle che piu si adattano al nostro scopo; per quindi servire su un piatto d`argento il nostro fantastico paragone.
I palazzi a Pilos e Micene,(dimore di Agamennone e Nestore) scavati sul territorio Greco e confermati come testimonianze del periodo in cui l`Iliade e l`Odissea si svolgevano, erano tipici per tipo di Architettura e materiale usato(marmo dell`Attica)del territorio Greco. Che tipi di costruzioni sono state scavate in Scandinavia per poter minimamente appoggiare le teorie di Vinci? E che tipo di marmo potremmo trovare? Se le storie Omeriche erano originarie delle terre Scandinave, le avventure e disavventure dei grandi eroi Classici come Ulisse, Achille, Munelao ecc.dovrebbero viaggiare verbalmente ed essere servite nelle scuole come materiale di studio della cultura Nordica.Il commento negativo e poco gentile sull`archeologo tedesco Schliemann nell`essere definito un amatore non fa credito a Luca Leonello Rimbotti. Schliemann era un grande archeologo,( anche se dilettante). Le sue qualita`morali, il suo grande entusiasmo e perseveranza, e le sue grandi capacita` nell`individuare zone e reperti archeologici sono note a tutti i suoi estimatori e non. La sua grandissima conoscenza e cultura dei poemi Omerici e le sue imprese escavatoriali ci fanno ricordare indubbiamente il grande archeologo dilettante Italiano Giovanni Belzoni, che scopri` innumerevoli tombe e tesori Egiziani nella valle dei Re, senza essere stato un professionista.
Il tentativo di Felice Vinci nel cercar di trasportare i due super Classici della letteratura Greca nelle zone Baltiche sembra essere stato creato per un sensazionalismo a scopo di lucro e di notorieta`. Con una ricerca un po piu estesa potrei possibilmente provare che le pur affascinanti teorie lette nell`articolo di Luca Leonello Rimbotti sono semplicemente una costruzione fantastica dell`autore di Omero nel Baltico. Le migrazioni verso l`Europa meridionale hanno tenuto inver luogo, ma anche questa evidenza storica non basta per cancellare una verita` assoluta…..la verita` che i due poemi Omerici dell`Iliade e dell`Odissea sono i fiori germogliati in terra Greca,i fiori che seminati dalle genti Elleniche sono in tempo diventati i piu grandi classici della letteratura Mondiale.
Cordialmente, Glauco De Horatiis
rocco
Non è la prima volta che l' ottusa cultura tradizionale vaccilla di fronte a nuove e semplici teorie "ragionate". Basti pensare che tutti (o quasi) i luoghi della saga di Re Artu' sono facilmente rintracciabili nel galles del sud (priydein) se non fosse il fatto che si parte da un pressupposto errato: il vallo di Adriano.Se si spostassero tutti gli avvenimenti partendo dal fatto che nell' attuale Gran Bretagna esistono 3 tipi di fortificazione romana 1^ il vallo di Adriano, 2^ il vallo di Antonino il Pio (spero di non aver sbagliato) più al nord,e per 3^ il terrapieno di Settimio Severo che divideva l' attuale Inghilterra dal Galles. Successivamente chiamato il vallo di Offa è il punto di partenza per una corretta rielaborazione della storia.E poi i nomi dei luoghi non mentono mai. Andare in Galles per credere altro che Goffredo di Mommouth(?). Meditate cari amici meditate e aprite la vostra mente a nuove teorie portate avanti dalla ragione.
Daniele Ventre
Il libro di Felice Vinci è il parto di un uomo che ignora cinque elementi fondamentali: 1) la presenza di nomi di eroi mitologici greci (da Paride-Alessandro a Agamennone ad Achille a Eteocle a Preto ad Atrisio-Acrisio ad Atreo) nelle tavolette micenee, nelle tavolette dell'archivio diplomatico ittita, nei nomi di località del Peloponneso miceneo; 2) la corrispondenza dei nomi dei luoghi omerici fra tavolette ittite, geroglifici egizi e tavolette micenee (Ilio, Troia, Acaia, Lesbo); la natura della composizione della poesia orale epica arcaica, nonché la permanenza in tutte le culture indoeuropee (originatesi a Nord del Mar Nero e non nel Baltico) di un ciclo mitologico proto-epico originario, basato sulla figura dell'eroe achilleo invulnerabile, salvo che in un punto debole (in genere il tallone) e sulla sua morte in giovane età per ottenere la gloria immortale; 5) l'impressionante rispondenza fra le descrizioni omeriche e la piana di Troia, che permise a Schliemann la sua grande scoperta -completata oggi da Manfred Korfamnn e dagli archeologi che hanno proseguito le sue ricerche in Troade dopo la sua morte per cancro polmonare. Per questo le affermazione di rocco, circa l'ottusità della cosiddetta cultura tradizionale è semplicemente rivoltante. La realtà della preistoria e della protostoria europee è molto più bella e complessa di quanto si immaginino gli pseudo-storici d'accatto e il generale analfabetismo scientifico oggi dilagante.
Centro Studi La Runa
@Danilo Ventre: le sue obiezioni sono tre, non cinque. Mi pare che nessuna delle tre sia particolarmente decisiva. D'altra parte anche i suoi presupposti sono discutibili; per esempio quello relativo alle "culture indoeuropee originatesi a Nord del Mar Nero". E' un'ipotesi fra molte (e a mio personale avviso una delle meno convincenti).
Vinci sostiene che i racconti omerici da noi conosciuti costituirebbero la trasposizione geografica di precedenti memorie mitologiche portate dagli invasori achei in Grecia. Mi pare plausibile che l'effetto della "koiné culturale" indoeuropea abbia lasciato emergere analogie strutturali e di nomi presso altri popoli. Per quanto attiene alla corrispondenze geografico-morfologiche, potrà convenire che Vinci ne ha scovate in numero certamente non inferiore a quelle della collocazione classica, che presenta viceversa numerose aporie.
Daniele Ventre
Sono tre e non cinque, perché c'è stato un errore di copiatura dal file di word su cui avevo scritto le mie obiezioni. Quanto all'ipotesi fra molte, la cultura kurgan e i risultati degli studi di Marija Gimbutas e di Luca Cavalli Sforza sulle componenti geniche dell'Europa non sono ipotesi, ma dati. L'Hurheimat, come confermano anche gli areali degli animali noti alla protolingua (fra questi una specie di leone, *simghos, comune a sancscrito e albanese) è compresa fra il Caucaso e il basso Volga. Le aporie della cosiddetta collocazione classica sono tali solo per chi non conosce bene i dati. Voi vinciani vi siete resi conto che se continuate così, con lo stesso metodo pseudo-etimologico, finirete per dire che l'impero romano era in Svezia, visto che nell'isola svedese di Gotland c'è la città di Roma Kungsgard (Roma "fortezza regia")? Veramente, fra Felice Vinci e Giovanni Semerano non so che fine faccia la divulgazione della storia antica e della cultura classica.
Centro Studi La Runa
@Danilo Ventre: la cultura "kurgan" è un dato, altra cosa sostenere, come hanno fatto la Gimbutas e parte dei suoi epigoni, che quella cultura in particolare sia quella indoeuropea originaria e che il luogo in cui sono ancora oggi visibili i tumuli (kurgan) sia l'Urheimat.
Fare leva sulla fauna presente nel vocabolario compatto è controproducente per la sua tesi. Contro un unico termine che sembrerebbe giocare a favore della sua tesi, infatti, attestato in due sole aree sulle quattordici prese in esame da Giacomo Devoto (mi riferisco appunto al leone) stanno termini assai più numerosi e maggiormente attestati: il castoro, il cervo, l'alce, la lontra, il salmone, l'orso, il lupo. Limitandosi alla sola fauna, si è indotti a cercare l'Urheimat nella regione del Baltico.
Per me i lavori di Semerano possono avere tutt'al più un valore letterario (come le lingue inventate da Tolkien), ma nessun significato scientifico. Posso comunque assicurarle che con la tesi di fondo del libro di Vinci non hanno alcunché da spartire.
Daniele Ventre
Lo so che Semerano non ha da spartire nulla con Vinci… se non la mancanza di fondamento. Quanto al problema degli areali, la Urheimat si trova a partire dalla sommatoria di tutti gli areali, e solo nell'area in cui tutti gli areali coincidono si può effettivamente trovare la Urheimat. Qualunque altra Urheimat che non spieghi tutto il protolessico non collima con le testimonianze. Così la forma *wlkwòs (lupo) e la forma *rktòs – *rtkòs (orso) fanno pensare a una Urheimat boreale, ma sono plausibili anche nel Mediterraneo. La forma *kerwòs *krwòs (cervo) dà lo stesso risultato. Gli elementi del protolessico che fanno riferimento al salmone escludono il Mediterraneo ma non la zona Caucaso-Volga-Danubio, quindi stringono il cerchio. D'altro canto il sanscrito simhah confrontato con l'albanese inj (una delle poche parole realmente arcaiche dell'albanese) descrivono un grosso felino, per le cui caratteristiche (fra leone e leopardo), si esclude la lince artica. Il nome di questo felino, nella protolingua, è appunto *simghos, come ho detto prima. Solo un punto dell'Europa vede convivere tutti questi animali: una zona a nord ovest del Caucaso e a sud Est del Mar d'Azov. Se andiamo a guardare la diffusione delle componenti geniche degli europei, scopriamo che da una zona poco più a nord di questa regione, si irradia un gruppo umano la cui diffusione si afferma intorno al 5000 a. C. Guarda caso, questo gruppo umano è associato con il nucleo originario di una civiltà protocalcolitica che si contraddistingue per la domesticazione del cavallo e una cultura aggressiva, ed è la civiltà dei kurgan. Guarda caso, la kurganizzazione delle aree acclivi (Andronovo a est e Cernavoda a sud-ovest) è associata con la diffusione violenta di queste tecnologie e con una escalation della diffusione, verso sud-ovest, di strutture fortificate anche in popolazioni associate a tecnologie pre-kurgan (come la cultura di Vincha). Viceversa, l'area baltica, cara ai primi neogrammatici, non presenta tutte le caratteristiche di coincidenza di areali e di diffusione di prototecnologie che la protolingua, col suo lessico, sembrano presupporre. L'area baltica si configura piuttosto come tardiva area laterale della diffusione della tecnologia del bronzo e delle lingue indoeuropee, che vi arrivano già notevolmente modificate, da qualunque punto di vista si consideri l'evoluzione fonetica della protolingua (per intenderci, sia che si parli della visione tradizionale del consonantismo, sia che si abbracci la teoria Hopper-Gamkrelidze-Ivanov sulla glottidalizzazione). La teoria di Vinci non rende poi conto in modo convincente della solidarietà linguistica e culturale greco-indo-iranica, che risale certamente al 3000 a.C., in un'epoca in cui i proto-greci e i prot-indo-iranici erano in una zona a metà strada fra le rispettive sedi storiche. Cosa più grave, si fonda su una serie di false etimologie, a partire da nomi ugro-finnici come Toja (all'origine di Troia), che si trovano in sede molto dopo. Su questa falsariga, Giacobbo, nella trasmissione Voyager, ha persino instaurato una cosiddetta equivalenza fra Espo in Finlandia (un centro dell'entroterra) e l'isola di Lesbo, fregandosene del fatto che nelle tavolette ittite si parla di un'isola di nome Lazpas a sud ovest dell'Assuwa e di Truisa. Questo è quanto.
Centro Studi La Runa
@Daniele Ventre: anche il suo ulteriore commento è interessante. Osservo come sulla base del vocabolario compatto sia difficoltoso collocare la Urheimat; diviene ancor più problematico se ci si riferisce al solo vocabolario relativo alla fauna. Ad ogni modo limitandosi ad esso mi pare che la tesi "nordica" e quella kurganica possano considerarsi plausibili (avevo dimenticato, nel precedente commento, di fare riferimento all'avifauna: cigno, anatra).
Ovviamente, però, l'analisi non può limitarsi ai nomi di animali. Occorre tenere conto del complesso dei dati linguistici (botanici: faggio e betulla, per esempio), all'idronimia (vedi studi del Krahe) al termine per mare/palude, e, al di là della linguistica, agli elementi culturali arcaici dei popoli indoeuropei (forte influenza "ideologica" dei solstizi e delle stagioni; espressioni ed elementi della lingua poetica arcaica) e altro ancora.
Persino la mitologia può dare indicazioni interessanti (penso alla note tesi di Tilak sui Veda e sull'anno di dieci mesi più due dell'Avesta), cioè in definitiva a un insieme di dati sparsi che a me paiono concordi nel fare rivolgere verso una zona subpolare.
Anche se sono la tesi di Vinci mi persuade, nutro anche io dei dubbi su alcune etimologie proposte dallo studioso romano. Questo però non mi pare che infici la tesi di fondo; può essere forse il risultato di un eccessivo sforzo di far collimare tutti i dati.
Centro Studi La Runa
Aggiungo la segnalazione di un libro che tenta di conciliare la tesi nordica e quella "kurganica": Zum Ursprung der Indogermanen di Lothar Kilian.
Daniele Ventre
Se lei legge il ponderoso saggio di Hertha von Dechend e Giorgio de Santillana "Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" edito da Adelphi, scoprirà che tutte le popolazioni arcaiche, a partire dal neolitico, sono accomunate dalla cosmogonia basata sui solstizi e sugli equinozi e sulla conoscenza della precessione degli equinozi, e si accorgerà che certi miti astrali trascendono il confine dell'Indoeuropa. Essi si sono diffusi a partire dalla mezzaluna fertile intorno al 9000 a.C. insieme alla rivoluzione neolitica. Prova ne sia che strutture pre-indoeuropee come i megaliti sono già orientate secondo il sorgere del sole in determinati momenti notevoli dell'anno. Forme di miti astrali sussistevano poi già nel mesolitico, se dobbiamo credere ai dati raccolti sulle grotte di Lascaux e di Altamira da Chantal Jègues Wolkiewitz. E' molto verosimile che i miti astrali e cosmogonici che accomunano semiti, indoeuropei, popoli uralo-altaici, sino-tibetani, eskimidi, eskimo-aleutinidi e amerindiani, avessero la loro origine in una zona a cavallo fra la Turchia e la Siria, dove, fra i dieci e gli ottomila anni prima di Cristo si assiste: 1) al sorgere dell'ancestrale sito monumentale di Gobekli Tepe; 2) alla domesticazione dei primi animali da allevamento; 3) alla domesticazione di piante come il triticum hordaceum. La notazione degli archeo-astronomi, secondo cui i Veda attesterebbero configurazioni celesti relative al nord dell'Europa, in realtà va poi sfumata. Si tratta di configurazioni astrali (cifrate nei miti), che fanno riferimento al cielo di un'area che va dal bassopiano sarmatico alla penisola di Kola. Potrebbero essersi diffusi, quei miti astrali, in un'area più ampia della zona a ridosso del circolo artico. Ne consegue che tutte le prove che potrebbero parlare per la teoria di Vinci, sono deboli o oggettivamente destituite di fondamento. Le prove dell'ipotesi kurganica sono forti, perché sono, fra l'altro, all'origine di un programma dinamico capace di generare una teoria organica dall'ampio potere esplicativo. Oltretutto, farò notare che in Omero il più interessante nome dei Greci è non Akhaiòi, né Argheioi, ma Danaòi, o meglio, alla micenea, Danawòi. Qualcuno ha collegato questo nome con il semitico (e dunque con tarde contaminazioni mediterranee), ma la vera spiegazione è fornita da Sakellariou in un suo breve saggio degli anni '80. Dànao e i Dànai sono collegati con l'acqua: con la radice *Donu-, di Eri-dano, Api-dano, Danu-bio, Don, tutti nomi di fiumi a ridosso di un'area compresa fra la Pianura Padana e i Balcani. Tale nome si trova anche nelle dee abissali celtiche e indoiraniche chiamate Danu. Il nome Dànai ricorre nell'Iliade un terzo delle volte, rispetto al nome Achei. Dunque è più raro, perché è il nome più arcaico. Per inciso, i fiumi dal nome in Dan-, in Grecia, si trovano fra l'Epiro e l'entroterra tessalico, e sappiamo che quella è l'Urheimat dei Protogreci. Lì infatti sopravvivono, fra l'altro, forme di sacralità ancestrale altrove perdutesi in Ellade, come la consacrazione delle querce al dio delle tempeste (Zeus a Dodona, la presenza, fra Tessaglia ed Epiro, del mito dei Dri-opi, "occhi delle querce", popolo mitico il cui nome, ispirato a tradizioni totemiche, è linguisticamente paragonabile al nome dei dru-idi celtici). Ora la dea dell'abisso, *Donu, essendo appunto una dea dalla forte fisionomia cultuale (non la solita Indrani o Varunani o Dione o Diana), fa parte di una tradizione non indoeuropea, assimilata molto presto, da parte delle civiltà basso-danubiane, che fra l'altro gli indoeuropei distrussero, spazzando via la loro avanzata civiltà neolitica, dotata già di scrittura, 1800 anni prima dei Sumeri (vedere, a tal proposito, gli studi sul Balkan Danube Script). Gli Idronimi con *Donu- *Dnu- sono praticamente assenti nelle aree extradanubiane ed extrabalcaniche. Qualunque sia l'Urheimat degli indoeuropei (e ci sono sufficienti dati per ancorarla al basso corso del Volga, più che al Baltico), in ogni caso il popolo protagonista dell'Iliade, i Danai, signori delle acque, fra l'altro noti anche agli Egizi come Denen, non possono, giocoforza, risalire oltre il basso Danubio. Potremmo affermare, per amor di discussione, che i Dànai sono venuti dopo, e che il mito dell'ira di Achille fosse però nordico. Ebbene no. Achille il rosso, così come il celtico Setanta-Cuchulainn e l'ossetico Soslan e l'indoario Arjuna, presuppongono strettamente l'interazione con i guadi fluviali e con la dea delle acque dell'abisso. Tali eroi più o meno invulnerabilli sono poi collegati alla costellazione del Cane maggiore (e al suo astro, Sirio) che in una data epoca appariva rossa, e non azzurra, perché coperta da una nube interstellare, e nei Balcani era vista inseguire la costellazione della Vulpecula al suo sorgere eliaco -di qui la comparsa di Apollo, Febo (il radioso, come il sole, ma anche, per Burkert, il signore delle volpi), contro Achille etc. Siamo perciò di fronte a un antichissimo mito eroico comune, legato peraltro a canoni etici e poetici ben noti (gloria immortale per chi muore giovane in battaglia, doppia determinazione dell'eroe etc.) che non può risalire oltre i Balcani, oltre l'area in cui infuriarono le antichissime guerre che i protoindoeuropei combatterono, come scorribande e atti di brigantaggio, ai danni delle popolazioni basso-danubiane (si vedano, per le concomitanze di mitologie indoeuropee lontane fra loro, gli studi di Dumézil sulla fortuna e la sfortuna del guerriero e quelli di Bernard Sergent sulle corrispondenze fra Celti e Greci). Omero sul Baltico? No. Piuttosto, il mito-ciclo indoeuropeo sul Danubio (per cui vedi anche gli studi di C. Vieille).
Badile
Non ho fatto studi approfonditi sull'argomento..MA SPERO CON TUTTO IL CUORE CHE IL LIBRO DI FELICE VINCI CONTRIBUISCA, IN QUALCHE MODO, A SCUOTERE GLI SCHIFOSI TORREGGIAMENTI DELLE ASFITTICHE TEORIE ACCADEMICHE. Detto ciò, evviva gli studi approfonditi e la complessità! Per chi ha la fortuna di possedere tempo per ciò..Grazie dei vostri appassionati commenti.
stella matini
l'odissea secondo me è un poema molto dettagliato rappresenta tutta la fantasia e l'immaginazione dell'uomo nella storia dalla maga circe alla bellissima ninfa calpiso
non credo che sia giusto rinterpretare con parole e giudizi propri quindi non credo che neanche questo libro riprenda la vera odissea di omero che io credo mai nessuno potrà copiare o capire totlmente perchè ognuno ha delle opinioni e quindi dei pregiudizi e delle preferenze che nessuno mai è riuscito a nascondere:
se uno preferisce la maga circe alla ninfa calipso il capitolo sulla maga sarà più lungo e dettagliato rispetto a quelo della ninfa e questo non lo credo affatto giusto
non credo neanche quindi che questo libro sia all'altezza dell'odissea che è la fantasia delle fantasie dell'uomo
Daniele Ventre
In effetti l'Odissea è l'intreccio di tutte le voci delle tradizioni mediterranee: l'esordio (l'uomo multiforme… che vide le città e conobbe i pensieri di molti uomini) è la traduzione in greco, parola per parola, dell'esordio del poema sumero-accadico di Gilgamesh (per la presenza delle letterature semitiche nella letteratura greca un ottimo compendio è il libro di Martin L. West, The East Side of Helicon); il tema principale è collegato al rapporto fra una dea madre guerriera di origine per metà semitica e per metà indoeuropea (Atena) con il suo pàredro (sposo divino), rappresentato da Ulisse, che come tutti i re sacri legati alle dee madri è mutaforma, multiforme. Ulisse stesso, come multiforme, è collegato all'universale figura del mentitore astuto e poliedrico, noto fin nelle mitologie amerindiane nella forma dell'uomo koyote. Da questo punto di vista, potrebbe essere figlio di un sostrato mediterraneo. D'altro canto, la sua gara dell'arco ha puntuali concomitanze con la prova dell'arco che l'eroe indoario Karna sostiene in presenza dei Pandava nel Mahabharata, dunque la componente guerriera di Ulisse accomuna quest'eroe a un antichissimo archetipo indoeuropeo, rinvenibile anche in Eracle. Circe è una dea-maga mediterranea: muta tutti gli uomini in porci, ma nulla può contro Ulisse, che il mutamento lo ha dentro di sé conaturato. Calipso è invece la nasconditrice, la dea della morte degli indoeuropei, *Klu, assimilabile all'inglese (diventato poi maschile) Hell: è l'aspetto infernale della dea madre. La storia di Ulisse, nel suo complesso, è quella dell'antico re sacro mediterraneo a cui tutte le grandi madri cercano di fare la festa, ma si salva per intervento del patriarca divino Zeus e della sua emissione femminile, la virago divina, Atena. E' un eroe nato per tornare dall'Ade, come già il suo empio padre naturale di certi miti, Sisifo (non Laerte, che l'Odissea troppo sospettamente tende a sottolineare come vero padre di Ulisse, tradendo una volontà normalizzatrice e legittimatrice). Insomma, neolitico mediterraneo, età del bronzo semitica, età del bronzo indoeuropea, patriarcato che viene a patti con la grande Dea: l'Odissea è questo. E le brume nordiche di Vinci non c'entrano un piffero.
GMR
Ho letto con molto piacere i commenti di Ventre
Daniele Ventre
Comunque, in materia di Iliade ho fatto anche io qualcosina: l'ho tradotta in esametri italiani (non dunque gli pseudoversi di una Rosa Calzecchi Onesti, per esempio).
La mia traduzione ha recentemente vinto il primo premio della Fondazione Achille Marazza, ex aequo con la traduzione di Isole di Derek Walcott di Campagnoli (Adelphi)
Mi permetto di segnalarla, la mia traduzione (Omero, Iliade, trad. di Daniele Ventre, pref. di Luigi Spina, ed. Mesogea, Catania-Messina 2010), tramite questo link del blog letterario Nazione Indiana:
http://www.nazioneindiana.com/2011/08/01/iliade-l…
Questo è il link del premio Marazza, circa la mia traduzione:
http://www.lietocolle.info/it/giulia_de_sarlo_tra…
E questo è il link dell'editore
http://www.mesogea.it/vmchk/omero/libro/la-grande…
Questo per dire che, quando parlo di Omero e dico che Vinci è improponibile, lo faccio con diretta cognizione di causa.
Paganitas ovvero Ygg
Mi permetto di scrivere anche io un commento dopo aver letto articolo e commenti al seguito.
Sicuramente la tesi di Vinci può avere delle forzature teoriche ma non è assolutamente campata in aria l'idea che gli archetipi collettivi delle stirpi indoeuropee siano rimasti all'interno dei poemi omerici, anzi si può dire che ormai è appurato. E trovare delle connessioni anche geografiche ha una sua coerenza magari non nella forma così estrema proposta dal Vinci ma non mi sembra nemmeno il caso di bollare tutto come spazzatura.
Mi rivolgo in conclusione nei confronti di alcuni commentatori, sicuramente di indubbia preparazione, con una domanda che più che polemica si potrebbe dire maieutica: se effettivamente Vinci è pseudoscientifico, improponibile, fantasioso ed altro, mentre le tesi opposte sono certe ed infalsificabili che bisogno c'è di costanti commenti contro questo articolo? Se io non credo negli ufo non vado mica nei forum degli ufologi per fare un esempio.
Saluti nordici e solari 🙂
GMR
Il merito di Ventre è confermare gli archetipi indo-europei (e mediterranei), senza per questo tentare di renderli specifici unicamente delle brume nordiche. Questo è l'errore di Vinci, se ho ben capito: trasformare delle somiglianze tra miti nordici e caucasici in origini puramente nordiche. E i suoi seguaci sono aggiogati al mito nordico degli occhi azzurri e dei capelli biondi. E' patetico considerare il Caucaso una terra non abbastanza nordica. Il sogno segreto di queste teorie esoteriche è dimostrare l'assoluta estraneità della razza nordica al resto dell'umanità.
Daniele Ventre
Caro Frassino di Odino,
I commenti che ho postato servono a chiarire quanta ignoranza si avalli in Italia, a partire da conoscenze approssimative e improprie. Vinci resta pseudoscienza, e dal mio punto di vista ho il dovere di informarvi del perché.
Tanti saluti all'asse del mondo.
P. s.
Vi serbe qualche miliardo di tonnellate di veleno per serpenti?
Daniele Ventre
Daniele Ventre
A proposito, amici nordici: avete mai notato l'alberello del rinnovamento di Gilgamesh, mangiato dal serpente? Forse anche Gilgamesh e i sumeri e gli Akkadi erano nordici?
Daniele Ventre
salvatore cosentino
bisogna affrontare con umiltà il lavoro che ha assillato Felice Vinci per tutta la vita.Lasciando alle verifiche che potranno venire. E’ bene che tutti abbiano questo libro osteggiato dai grandi editori. Il sicuro guadagno sarà l’affratellamento di popoli posti a molta distanza, con tutte le affinità culturali che possiedono.Io ci credo alla tesi di Vinci e spero che tutti i finlantesi leggano il libro.
Ialkarn
Cio’ che Vince vede nei Poemi Omerici è il patrimonio comune di usanze, miti, e leggende tra i popoli nordici e quelli greci, è un intuizione giusta ma anche se ormai scontata ed ampiamente esplorata in altre sedi in modo molto più ortodosso e pertinente, patrimonio pero’ comune a tutta l’area Indoeuropea (e perfino oltre) e non circoscritta a queste due realtà.
Purtroppo pero’ Vinci va oltre, cerca di storicizzare i poemi omerici in un contesto a loro alieno, (quest’esigenza di storicizzare il mito , quasi insita nella natura umana mi è del tutto incomprensibile ma questo è ancora un altro problema) commettendo degli errori “tecnici” imperdonabili nel campo della linguistica, dell’ archeologia.
La cosa ancora più triste sono quegli specialisti che gli vanno dietro e scrivono prefazioni ai suoi libri.. il chè la dice lunga sul mondo della cultura..