La piana di Amesbury nel Wiltshire, non lontano da Salisbury, nell’Inghilterra meridionale, è uno di quei posti in cui il primordiale appare all’improvviso. Il celebre edificio megalitico di Stonehenge, pur inflazionato dalla pubblicistica new age, è ancora in grado di far sentire il suo potere. Nonostante la commercializzazione del mistero, che ormai ogni giorno butta nel mucchio le piramidi, i disegni di Nazca, Atlantide e Rennes Le Château come fossero attrazioni di una fiera, a Stonehenge si riesce ad alzare il velo della protostoria. Senza avere la sensazione di trovarci in un documentario della “BBC”.
Come ognuno sa, si tratta di gigantesche pietre disposte circolarmente entro uno spazio evidentemente rituale, sui cui scopi e sulla provenienza etnica dei costruttori gli studiosi si dannano l’anima da qualche secolo. Il cerchio megalitico più esterno, fatto di pietra arenaria chiamata sarsen, ne racchiude uno più interno – il Bluestone Circle – composto da megaliti di roccia vulcanica bluastra, trascinati dalle lontane montagne del Galles fin sulla piana di Salisbury: e nessuno sa esattamente come, da chi e perché.
E neppure quando, dato che gli esperti, nelle loro datazioni di Stonehenge, vagano dal 3.200 al 1.800 a. C., dal Neolitico all’età del Bronzo. Recentemente, si è giunti alla conclusione che Stonehenge sia stato un interminabile “work in progress”, un lavoro di costruzione durato dal 3.150 a. C. al 1.500 a. C.: dallo scavo delle buche per le arcaicissime henge in legno, marcite da millenni, sino all’erezione del cerchio esterno in pietre sarsen architravate e dei cinque triliti interni in pietra azzurra: due pietre verticali sormontate dall’architrave orizzontale. Il cerchio monumentale, del diametro di circa trenta metri, è caratterizzato dai sedici monoliti rimasti – sui trenta originari – e dagli architravi arcuati che ne sormontano i vertici, raggiungendo in totale un’altezza di quasi cinque metri. All’interno, i resti di altre pietre più piccole sono disposti a ferro di cavallo e al centro di tutto il sistema giace la cosiddetta Altar Stone, un blocco di cinque metri di pietra verde, oggi semisepolto dalle rovine dei triliti cadutigli sopra. Poco distante, al di fuori dei cerchi, staziona imponente e solitario il menhir chiamato Hell Stone. Ed è proprio la presenza di questa pietra decentrata che ha convinto taluni studiosi della possibilità che Stonehenge sia stato un centro di religiosità solare, basato sull’orientamento dell’architettura nel senso dei solstizi. Ma si trattava di una religiosità solare non solo astrale, ma cosmica, e posta in relazione particolare con la terra. Non quindi soltanto osservatorio astronomico, come si è ipotizzato, e nemmeno “computer di pietra” o mappa celeste. Ma luogo d’incontro tra le energie fondamentali della vita: il cielo e la terra.
Ad esempio, si è notato che all’alba del solstizio d’estate i raggi del sole giungono precisamente al centro di Stonehenge e che l’ombra proiettata da quel fallo gigantesco che è la Hell Stone, opportunamente posizionato all’esterno, sia pure con uno scarto nel frattempo intervenuto per la precessione degli equinozi, va a inondare esattamente il centro del cerchio, oltrepassando l’arco di un trilite esterno – paragonabile ad una vagina neolitica – e penetrando nelle viscere del tempio. E finendo col coprire la Altar Stone, proprio come se si trattasse di un matrimonio cosmico tra il Sole e la Terra. Come nel mito indiano del coito cosmico tra le forze genesiche – il Grande Mahituna -, a Stonehenge ritornerebbe dunque l’idea dell’ombra che, in combinazione con i raggi solari, compie opera di fecondazione.
Effettivamente, da molte parti è stato riconosciuto il fatto che, nelle epoche preistoriche che vanno dal Neolitico al Bronzo, in Europa si praticavano culti solari e che taluni di questi culti – tra cui, appunto, quello di Stonehenge – erano legati alla celebrazione delle nozze mistiche tra il Cielo e la Terra. I miti legati al ciclo della Grande Madre pre-indoeuropea, incentrati sul culto primitivo della fertilità, venivano reiterati con statuette e intagli grossolani che rendevano con immutabile maniera gli organi genitali femminili sovradimensionati. A questa pratica si sovrappose, con l’espansione indoeuropea databile nelle sue varie fasi tra il 3.000 e il 1.200 a. C., la celebrazione delle divinità uraniche. Il Padre Cielo che ad ogni stagione solstiziale si accoppia alla Madre Terra, fecondandola e rinnovando i cicli esistenziali. Gli Indoeuropei non celebravano solo il Padre dominatore, ma anche la Madre come scrigno della nascita, della discendenza e dell’eredità. E questo è proprio il caso di Stonehenge: il Cielo che feconda simbolicamente la Terra, rendendola matrice di vita. Tra gli altri, è stato Mircea Eliade a sottolineare che i miti e i riti comunitari delle società europee storiche rimontavano ad archetipi primordiali, al centro dei quali, come massima solennizzazione, si aveva l’evento l’evento delle Nozze Cosmiche, la ierogamia tra Cielo e Terra che simboleggiava la ricreazione dell’Universo attraverso la Nascita. Come sostiene il ricercatore Terence Meaden, il segreto di Stonehenge andrebbe individuato proprio tra queste pratiche in uso nell’Europa arianizzata, quando i culti solari si unificarono a quelli tellurici, creando una religione della vita e delle energie della natura che poi sarà al centro anche della religiosità classica.
Basta pensare a quanto dice Eschilo. «Il sacro Cielo esiste per congiungersi alla terra/ e la Madre-Terra nutre un amore coniugale…». Divinità solari fecondatrici – a cominciare dal greco Zeus – recavano i segni del potere della luce, la folgore e l’ascia. E su alcune pietre di Stonehenge si sono trovate, per l’appunto, raffigurazioni di asce e di pugnali tipicamente micenei. Questo lascia pensare che, con ogni probabilità, la civiltà megalitica nord-europea fosse una diramazione di quella mediterranea. O, meglio, che entrambe derivassero da un unico ceppo irradiatosi. Sarebbe cioè ipotizzabile che le popolazioni del Neolitico dedite a queste costruzioni solari fossero le medesime in tutta Europa: e soltanto gli Indoeuropei hanno lasciato tracce di sé ovunque. Costruzioni e allineamenti geometrici di pietre sul tipo di Stonehenge ne sorgono un po’ dappertutto: dalla Gran Bretagna (Inverness, Castle, Rigg, Barbrook) alla Francia (Carnac), dalla Germania (Gollenstein) all’Italia (menhir di Bisceglie). Si trattava di popolazioni evolute, per nulla assimilabili ai cavernicoli.
Nel museo di Salisbury sono esposti manufatti di pregevole fattura provenienti dalla zona di Stonehenge: oggetti d’oro lavorato, else levigate, punte di freccia e ceramiche decorate. Probabilmente, è giunto il momento di ripensare scientificamente il Neolitico come qualcosa di completamente diverso dall’età della pietra come l’intendiamo di solito. Queste popolazioni avevano approfondite conoscenze di geometria e astronomia alcuni millenni prima di Pitagora, sapevano misurare il terreno, possedevano una tecnologia adatta a trasportare e innalzare blocchi di pietra da cinquanta tonnellate. Sapevano di architettura e di carpenteria, come si osserva nel caso delle connessioni tra le pietre, unite tra loro da speciali incastri a linguetta. Tutto questo non poteva essere appannaggio di energumeni primitivi. È evidente che l’Europa, già nel 3.000 a. C., era popolata da genti ad alto grado di civilizzazione. Questa evidenza ha fatto parlare di Stonehenge come del capolavoro di una “scienza megalitica olistica” e come di “un’icona di Albione”. Una terra strettamente legata, sin nel nome, ai miti della Terra di Thule e della Urheimat aria e ai cicli delle divinità iperboree, che sono l’immediato antefatto della nostra civiltà storica.
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Tratto da Linea del 4 settembre 2006.
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