Nelle sue memorie di famiglia pubblicate nel 1998, Nike Wagner, pronipote del grande musicista – nata da Wieland, che era figlio di Siegfried, terzogenito di Richard – ricordava la cordialità con cui Hitler veniva accolto nell’entourage dei Wagner a Bayreuth. Lo “zio Wolf”, come veniva chiamato, era idolatrato tanto da Winifred – nonna di Nike – quanto da suo marito Siegfried. Lo avevano conosciuto nel 1923 e ne erano rimasti affascinati. Quando il futuro Führer languiva nella cella di Landsberg dopo il fallito putsch, la coppia andò spesso a trovarlo, e furono loro a fornirgli la carta su cui fu vergato il Mein Kampf. E quando nel 1930 Siegfried morì, Winifred diventò la direttrice del Festival wagneriano di Bayreuth: Hitler, che fin da ragazzo conosceva a memoria le opere di Wagner, finì col diventare di casa a villa Wahnfried, vi dormì più volte, vi tornò in pompa magna da capo dello Stato… ci sono famose fotografie che lo ritraggono insieme alla nuora di Richard Wagner in situazioni di grande amicizia e confidenza. Insomma, tra i Wagner e il Terzo Reich si operò una saldatura che agli occhi di molti, all’epoca, riassumeva alla perfezione il mito nazionale. La saga familiare dei Wagner e l’epopea dell’opera d’arte totale wagneriana si fusero intimamente con i miti nazionali interpretati dal Nazionalsocialismo. La grande musica e la grande politica unite per la rinascita della Germania: questo il messaggio ideologico che veniva esibito. L’annuale Festival wagneriano si può ben dire che fosse il più prestigioso evento culturale tedesco, e ancora oggi lo è: qui il vecchio e il nuovo Reich celebrarono allora i loro fasti maggiori. La musica, in effetti, nel Terzo Reich venne considerata il bene culturale più importante, e non solo in quanto espressione del genio nazionale ma, soprattutto, in quanto massima espressione di cultura popolare.
Da un certo punto di vista, si può anche comprendere che, per quanti consideravano il pantheon musicale tedesco e la cultura musicale il patrimonio più prezioso – secondo un’antica tradizione che risaliva a Lutero – i moderni sperimentalismi, del tipo della musica atonale o dodecafonica, non giungessero graditi, ma suonassero oltraggiosi nei confronti dell’estetica classicista. Secondo quella mentalità “purista”, non si potevano mettere sullo stesso piano Bach, Beethoven, Schubert o Wagner da una parte e Strawinsky o Schönberg dall’altra: si trovava impossibile la conciliazione dell’armonia e della melodia con le asprezze dissonanti della più recente musica dell’avanguardia sperimentale.
Quest’ultima, relegata senz’altro tra le più caratteristiche espressioni dell’“arte degenerata”, veniva accusata di demolire il senso classico e tradizionale della musica: che si diceva chiamare al sublime e al creativo, più di quanto non dovesse spingere alla ricerca del suono innovatore e scoordinato, estraneo alla tradizione musicale europea. Per questo motivo, dopo il 1933 un gran numero di musicisti, compositori e strumentisti, lasciò la Germania per trovare lavoro altrove. E non furono soltanto ebrei. Molti di coloro che seguivano canoni estetici modernisti – come nella pittura o nell’architettura – non trovando in patria occasione per esprimersi, si risolsero ad emigrare. Tra i compositori che guadagnarono l’esilio, per la verità, ve ne furono pochi che erano conosciuti: se escludiamo Arnold Schönberg, nessun musicista di fama lasciò la Germania nel 1933. Darius Milhaud e Béla Bartòk (che era ungherese) raggiunsero “per protesta” gli Stati Uniti soltanto nel 1940, mentre Paul Hindemith, dopo un periodo di ambiguità, in cui rimase indeciso se accettare le offerte di lavoro di Goebbels (e per un periodo fu addirittura nel consiglio direttivo della Reichsmusikkammer), si decise alla fine a trasferirsi in Svizzera, ma solo nel 1938. Tra i direttori d’orchestra più famosi, lasciarono la Germania Bruno Walter e Otto Klemperer.
Il grosso dei musicisti rimase in Germania e non mostrò di avere problemi nel collaborare col nuovo regime. Per dire di un caso assai noto, la Camera Musicale del Reich, creata nel 1933 come corporazione professionale, vantava alla sua presidenza nientemeno che il nome di Richard Strauss – il maggior compositore tedesco del Novecento – e alla vicepresidenza quello di Wilhelm Furtwängler, il direttore d’orchestra più prestigioso. Lo stesso che, nel dopoguerra, ebbe non poche noie per essere stato in amicizia con Goebbels e per aver diretto grandi concerti alla presenza di Hitler, ed anche per aver svolto una densa attività di promozione musicale tra le fabbriche tedesche nel periodo della guerra: famose fotografie lo ritraggono sul podio davanti a enormi ritratti del Führer e a bandiere del Terzo Reich. L’allontanamento di Strauss dalla presidenza nel 1935 – episodio al quale si aggrappano di solito i non richiesti “vendicatori” della buona memoria del compositore, morto nel 1949 – fu notoriamente dovuto a motivi burocratici, dato che l’anziano musicista non era per nulla versato nell’attività organizzativa. Ma fuori discussione è il suo leale appoggio al Nazionalsocialismo, come testimoniano numerosi particolari. Che ritroviamo nel recente libro di Lorenzo Lorusso, Orfeo al servizio del Führer. Totalitarismo e musica nella Germania del Terzo Reich (Edizioni L’Epos). Ad esempio, nel 1933 Strauss donò una sua composizione a Goebbels, nel 1935 diresse davanti a Hitler un suo Inno olimpico composto in previsione delle Olimpiadi dell’anno seguente, mentre in seguito offrì in dono per le nozze di Goering il manoscritto della sua ultima opera Arabella e poco dopo inviò al Cancelliere una lettera di ammirazione e di auguri per il compleanno… Ma Furtwängler e Strauss non furono certo i soli. Per dare un’idea della situazione, basta pensare che il Festspielhaus di Bayreuth, negli anni del Terzo Reich, potè vantare la collaborazione di direttori del rango di Karl Böhm, Eugen Jochum, Hans Knapperbutsch, Clemens Krauss, Leo Borchardt, Hermann Abendroth (che nel dopoguerra verrà premiato anche nella DDR)… e finanche del giovane Herbert von Karajan, per altro regolarmente iscritto al Partito: come dire, il meglio di quanto in Europa ci fosse allora in materia di direzione orchestrale…
Quanto ai compositori, ricordiamo il caso famoso di Hans Pfitzner – amico personale di Hans Frank –, autore post-romantico dell’opera Palestrina, in cui il musicista rinascimentale italiano viene visto come il «salvatore della musica sacra polifonica» dall’interdetto papale che, durante il Concilio di Trento, intendeva sopprimere il corale a vantaggio del canto gregoriano puro. Dietro a questa scelta di Pfitzner di rievocare quelle lontane polemiche c’era un intento ideologico: la volontà di difendere, così come aveva fatto Palestrina dinanzi ai padri conciliari, l’antica dignità del coro popolare. Una tendenza che il Regime nazionalsocialista fece sua in senso “socialista”, attivando le “giornate musicali” popolari e potenziando la cultura dello Sprechchor, l’antica “recitazione corale musicata”, che era un momento comunitario tradizionale dell’area germanica. Questa scelta del Regime, tra l’altro, anni fa venne sottolineata da Enzo Collotti, in un suo importante saggio sulla musica nel Terzo Reich (contenuto nel libro a più mani La musica nella Germania di Hitler, atti del Convegno Internazionale tenuto al Teatro alla Scala di Milano nel 1989 e pubblicati dalla Libreria Musicale Italiana di Lucca nel 1996), rilevando che proprio lo Sprechchor si inseriva in una tradizione – ripresa anche dalla cultura operaia socialdemocratica tedesca agli inizi del Novecento – che comprendeva l’alta cultura e la cultura popolare: era in questo quadro che si inserivano gesti simbolici, come ad esempio la collocazione del busto di Bruckner nel Walhalla di Ratisbona il 6 giugno 1937 alla presenza di Hitler, oppure gli eventi di massa, come i Reichsparteitage. Collotti, infatti, coglieva proprio in questi nessi la centralità del ruolo sociale della musica nella concezione nazionalsocialista: «la funzione sociale e politica attribuita alla musica a tutti i livelli e in tutte le sue forme espressive… potrebbe essere messa in evidenza da uno studio del ruolo attribuito alla musica nel rituale ufficiale del Partito…». La sessione del congresso di Norimberga del 1935, ad esempio, fu aperta dall’ouverture dell’Egmont di Beethoven, sotto la direzione di Peter Raabe, che era il nuovo presidente della Reichsmusikkammer succeduto a Strauss, e venne chiusa dalla Quinta Sinfonia… Questa socializzazione della musica viene rilevata anche da Lorusso, che rimarca come, accanto ai valori “neo-wagneriani”, fermentasse «un crescente interesse verso la musica popolare e gli studi etnomusicologici», secondo metodi di ricerca oggi attualissimi.
Del resto, il Terzo Reich non fu solo Wagner o Bruckner. Per dire, anche in campo musicale si operò, sotto quel Regime, secondo l’idea di una “modernità temperata”. Ne fanno testimonianza, a titolo d’esempio, le sperimentazioni di musica elettronica che videro la Telefunken e la AEG produrre i primi organi sintetizzatori, come il Warbo Formant Orgel o il Grösstonorgel, che fu usato durante le cerimonie delle Olimpiadi del 1936… strumentazioni che, con qualche modifica computerizzata, sono ancora oggi usate dai moderni musicisti rock… Non solo tradizione, dunque, ma anche avanzata ricerca tecnologica.
Uno degli scopi che si prefisse il governo nazionalsocialista in campo musicale fu il lancio di giovani o misconosciuti compositori e strumentisti: e tali furono Paul Graener, che successe a Furtwängler alla vicepresidenza dell RMK, Gustav Havemann – membro del Kampfbund für deutsche Kultur di Rosenberg -, oppure Otto Besch, Johannes Rietz, Paul Juon, Heinrich Spitta…tutti autori ben conosciuti dai musicologi e in taluni casi, come quello di Graener, rivalutati di recente da studi scientifici. Accanto al lancio di nuovi talenti e all’assorbimento della disoccupazione dei concertisti, si provvide a costituire innumerevoli nuovi complessi, orchestre, scuole, affiancando gli storici e prestigiosi ensemble ad altri amatoriali. Una socializzazione musicale, come ha scritto Collotti, pensata per «dare un’immagine a largo spettro della Volksgemeinschaft musicale: dalle fabbriche alle forze armate, dalla musica colta a quella militare, dalla musica da camera alla musica corale».
Tra i musicisti di fama che collaborarono con il Terzo Reich, e che furono vicini alla sua ideologia, non possiamo non ricordare Carl Orff – l’autore dei Carmina Burana -, che scrisse anche un metodo popolare di insegnamento musicale per bambini, lo Schulwerk, in cui si prevedeva l’utilizzo unitario – “olistico” direbbero le più recenti tendenze di eguale segno… – di musica, danza e parola… Ma un cenno va infine speso anche per il celebre musicista Anton Webern, capofila della “Scuola di Vienna”. A lungo assegnato alla “emigrazione interna”, questo talento di prima grandezza, a seguito della recente pubblicazione del suo epistolario, deve essere indicato, tutto all’opposto, tra i maggiori sostenitori del Nazionalsocialismo in area austro-tedesca. E questo, ad onta del fatto che la sua musica dodecafonica – obiettivamente lontana dai canoni classici – fosse considerata “bolscevismo culturale” ed avesse qualche difficoltà ad essere rappresentata. Lo studioso Paolo Petazzi (nel libro La musica nella Germania di Hitler sopra menzionato) ha ricordato lo stato di “illuminazione” che colse Webern alla lettura del Mein Kampf, ne ha riportato le parole di esaltazione per la Germania nazionalsocialista «creata da questo unico uomo!», ne ha sottolineato il “fanatismo nazionalista” vicino alle posizioni del poeta Stefan George e la devozione per la «übergebene Erbe», l’eredità trasmessa… e insomma «l’aperta simpatia» che il famoso musicista manifestò per Hitler e per le sue realizzazioni politiche e culturali, e tutto ciò nonostante l’ostracismo riservato al suo lavoro… Alla fine Webern fu sì esule, ma nel 1945, in fuga dall’Armata Rossa… Per queste vie sogliono crollare tenaci e artificiosi miti come quello della “emigrazione interna”. Uno slogan grazie al quale numerosi intellettuali di valore che si identificarono nel Terzo Reich, nel dopoguerra si videro rifatta – o si rifecero essi stessi – una verginità fragile, presto deflorata alla prima seria indagine storica.
Michele Fabbri
Su questo tema segnalo un importante libro con la traduzione italiana degli scritti di Wagner sui rapporti fra ebraismo e musica:
Richard Wagner, GLI EBREI E LA MUSICA, effepi, Genova 2008, pp.90