Ci sono autori del cosiddetto mondo accademico le cui opere i lettori della nostra rivista sarebbe bene che conoscessero ed i cui libri non dovrebbero mancare nelle biblioteche dei cultori della tradizione romana; uno di questi è senz’altro Francesco Sini. Autore del quale ci piace, tra gli altri, ricordare Documenti sacerdotali di Roma antica (Dessì, Sassari 1983, pp. 234) e Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico” (Dessì, Sassari 1991, pp. 304). Sini(1), professore ordinario di Storia del diritto romano nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, benché sia uno specialista non è chiuso nel suo particolare né un arido citatore di “testi”, ma profondo conoscitore anche di autori come il comparatista Dumézil e storici delle religioni come Sabbatucci, Piccaluga e Montanari, riesce a vivificare la religione romana di propria luce tramite i documenti.
Nel presente volume Sini raccoglie cinque dei suoi lavori più recenti – alcuni dei quali avevamo avuto il piacere di poter leggere come estratti dagli Atti dei relativi Seminari e che speravamo potessero avere un maggiore pubblico – dedicate a problematiche significative della religione romana e del diritto pubblico di Roma. Già nel titolo, citando Cicerone (Pro Flacco 28), l’Autore ha voluto ricordare che “il solo principio religioso accettato e rispettato dai Romani, e dalla maggior parte delle altre organizzazioni politiche del mondo antico, era il principio politeistico e multireligioso: “sua cuique civitati religio, Laeli, est nostra nobis” (p. 4).
“Per comprendere appieno la religione politeista romana, risultano del tutto inadeguati – afferma giustamente il Sini e non possiamo che sottoscrivere – concetti moderni come “ostilità naturale”, “libertà individuale”, “isolamento”, “laicizzazione”; né appare metodologicamente corretto assumere a parametri d’indagine categorie quali “tolleranza” o “intolleranza”, sebbene la dottrina più recente sostenga, quasi all’unanimità, la tesi che la religione romana sia stata nel complesso una religione tollerante. Era piuttosto la concezione teologica (e giuridica) di pax deorum a garantire di fatto la “libertà religiosa”: dovendosi salvaguardare il diritto di ciascun Dio ad avere il proprio culto, si legittimava contestualmente il diritto del singolo di adorare la divinità secondo la propria coscienza e nelle forme che a lui sembravano necessarie. Grazie a questa peculiare concezione della pax deorum, la religione politeista romana fu in grado di far coesistere nel suo ambito sia le esigenze cultuali particolaristiche del popolo romano (cioè, legate a tempi e luoghi determinati), sia le tensioni universalistiche della teologia sacerdotale e dello ius divinum” (pp. XI-XII).
Il primo capitolo è dedicato ad universalismo e “tolleranza” nella religione romana: del resto il rispetto per gli Dèi di tutti i popoli del mondo era considerato una caratteristica peculiare della religione e dell’Impero romani. Non a caso “teologia e ius divinum spiegavano che la volontà degli dèi aveva concorso alla fondazione dell’Urbs Roma; ne aveva sostenuto la prodigiosa e costante “crescita” (…) infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine (pp. 7-8).
Tuttavia la tolleranza romana aveva un limite invalicabile nelle superstitiones: “Era superstitio ogni religione che implicasse un timore eccessivo degli dèi, particolarmente pericolosa poi se il culto suscitava forti emozioni (morbus animi) e se i fedeli si riunivano in privato o di notte” (pp. 60-61). L’attendibilità e la rilevanza della tradizione documentaria degli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani che costituiscono il nucleo più risalente e affidabile della storiografia latina, sono discusse nel secondo capitolo, dove sono ricordati i sacerdoti che “con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano, procedevano nel contempo all’aggiornamento linguistico dei testi riguardanti regole rituali e forme di culto. Così, di generazione in generazione, si vennero accumulando negli archivi sacerdotali numerosi documenti – per la maggior parte costituiti da decreta e responsa – che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell’età repubblicana” (pp. 82-83).
L’importanza delle formule religiose nel mondo romano può essere riassunta con quanto è affermato del carmen Arvale(2): “Questo vetustissimo carmen, l’unico che, per una fortunata combinazione, siamo in grado di leggere in forma assai vicina a quella originaria, conferma l’antichità dell’impiego della scrittura a scopo rituale da parte dei sacerdoti romani; testimonia inoltre la persistenza tenace delle forme arcaiche, sia nelle pratiche cultuali, sia nel linguaggio religioso. La religione romana tradizionale, nel corso della sua storia secolare, ha sempre condizionato la validità di un rito, o l’efficacia di una formula, all’esatta pronuncia delle parole solenni, al preciso compimento degli atti prescritti. I sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, in genere rifuggivano dall’attualizzare gli antichi documenti giuridico-religiosi nella forma linguistica; anche col rischio di non comprendere, come è stato già detto, gli antichissimi carmina che recitavano per i propri culti” (pp. 121-122).
E proprio agli aspetti giuridici ed alle problematiche rituali della religione romana nonché alle interpretationes sacerdotali è dedicato il terzo capitolo. L’Autore parte dall’ultima codifica contro “de paganis sacrificiis et templis” promulgata da Giustiniano nel 534 dell’e. v. per affermare che “si tratta, a ben vedere, di una attestazione autorevolissima, quanto involontaria, della sotterranea e tenace resistenza di sentimenti religiosi popolari, che avevano bisogno per esprimersi delle pratiche cultuali elaborate dall’antica religione politeista romana” (p. 160).
Questo, come il successivo quarto capitolo dedicato alla negazione di frase, che caratterizza in maniera tipica il linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, sono talmente ricchi di materiale raccolto ed esaminato con la sua consueta abilità da Sini, che farne una cernita ci sembrava riduttivo, ma ne caldeggiamo la lettura diretta.
Forse di contenuto più specialistico, ma di non meno utile lettura, è il quinto capitolo dedicato allo studio di alcune interpretazioni degli antichi giureconsulti romani intorno all’inviolabilità dei tribuni e degli edili della plebe; tema assai controverso e, tuttavia, cruciale per la comprensione della “divisione dei poteri” nel sistema giuridico-religioso romano. L’Autore, nella prefazione, è conscio di aver raccolto saggi che “risultano assai diversi per tempi di elaborazione e per occasioni di ricerca” (p. XVI); in qualche caso sono stati trattati i medesimi argomenti, ma mai come adesso troviamo giusto affermare: repetita iuvant. Senz’altro i risultati conseguiti hanno trasceso le esigenze contingenti che avevano determinato quelle occasioni di ricerca.
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Tratto da “Arthos” 10 n.s. (2002), pp. 119-122.
Francesco Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Giappichelli, Torino 2001, pp. 356, euro 30,99.
(1) Per una completa biblio-biografia vd. in internet a questo indirizzo.
(2) Su i fratelli Arvali vd. I. Paladino, Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 1988, cfr. anche R. Del Ponte, «e nos Lases iuuate». I Lari nel sistema spazio-temporale romano, relazione presentata al XXII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla terza Roma” (Campidoglio, 21-23 Aprile 2002), pubblicata nel presente numero di “Arthos”.
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