Viaggiando al mattino su un qualunque treno affollato di studenti, fino a qualche anno fa non sarebbe stato difficile imbattersi in ragazzine adolescenti immerse nella lettura di uno dei romanzi di Stephenie Meyer, la scrittrice americana, oggetto di una vera e propria forma d’isteria collettiva, che ha riportato in auge la figura del vampiro, privandola però dei tratti caratteristici che ne hanno fatto una delle icone più celebri e perturbanti del nostro immaginario orrorifico: giovani dai tratti efebici, sensibili ed introversi, i suoi pupilli sembrano divi del cinema, più propensi a far palpitare i cuori che a popolare di incubi il sonno. Ennesimo sortilegio del politicamente corretto, la cultura dominante è riuscita nell’intento di spuntare i canini perfino a Dracula: declassato a feticcio pop, l’algido Principe delle Tenebre è stato derubato della funzione simbolica alla quale deve la sua intramontabile fortuna letteraria. Eroe prometeico per antonomasia, che si ribella all’ordine naturale delle cose e rifiuta di sottomettersi alle leggi divine ed umane, Dracula è innanzitutto un Mito, la proiezione plastica del sogno ancestrale dell’uomo di poter vincere la morte, di rinunciare al cielo per conseguire con le sue sole forze una via immanente alla palingenesi, anche a scapito della propria anima, anche a rischio della dannazione eterna, il che ne fa un personaggio naturalmente novecentesco, trasposizione drammatica efficace ed oltremodo evocativa di quel cuore di tenebra che affligge noi moderni. A difendere il suo onore scalfito, restituendogli la posizione che gli spetta nel nostro orizzonte simbolico, interviene oggi, con provvidenziale tempestività, Francesco Paolo de Ceglia con il suo Vampyr. Storia naturale della resurrezione.
Nel ponderoso saggio apparso in libreria per Einaudi poco prima di Natale, il giovane studioso, docente di Storia della Scienza presso l’Università di Bari, si è assunto l’onere di indagare il vampirismo alle radici per rintracciarne le ragioni storiche ed etnoculturali, scandagliando nel profondo i fondamenti antropologici di quella febbre vampirica che, a partire dalla fine del Seicento, si è diffusa in Europa come un’epidemia, alimentando le paure e le pulsioni nascoste del nostro inconscio molto prima che Bram Stoker e Joseph Sheridan Le Fanu intervenissero a dare al Vampiro quella solidità archetipica che poi, nel Novecento, ha fornito materia narrativa alla fantasia barocca e visionaria di registi del calibro di Werner Herzog e Francis Ford Coppola. Con scrupolo enciclopedico e profluvio di dotte citazioni, l’Autore ci rende partecipi del fatto che secondo le culture tradizionali l’ematofagia, vale a dire l’atto, insieme reale e simbolico, di nutrirsi del sangue (poco importa se umano o animale), appartiene alla nostra memoria ancestrale e prefigura immancabilmente, seppur in luoghi e tempi diversi e seguendo modalità di volta in volta differenti, l’anelito umano all’immortalità.
Se nell’antica Roma gli affiliati al culto del dio Mithra sono soliti ricevere abluzioni di sangue sacrificale atte a testimoniare la loro “rinascita” come iniziati ai misteri del nume, nel canto XI dell’Odissea l’indovino Tiresia beve avidamente il sangue che Ulisse gli offre sula porta dell’Ade onde poter recuperare quel contatto con i viventi necessario a proferire il proprio vaticinio e nella Sacre Scritture il Cristo ci rammenta durante l’Eucarestia che chi berrà il suo sangue avrà la vita eterna. Non senza una punta di divertita ironia positivista verso la quale possiamo mostrarci indulgenti, de Ceglia osserva che, per una sorta di curiosa legge della compensazione, mai come durante l’Illuminismo, epoca del razionalismo trionfante che con Voltaire ha ridicolizzato le manifestazioni del sovrannaturale, si è assistito ad un proliferare di inquietanti fatti di cronaca relativi all’improvvisa violazione da parte dei cosiddetti revenants del confine (presunto invalicabile) tra i due separati domini della vita e della morte. Nel 1732, ad esempio, Johannes Fluckinger, ufficiale medico di Maria Teresa d’Austria, viene inviato dall’augusta sovrana a Medvedja, oscura località della Serbia da poco strappata al controllo degli Ottomani, per indagare sulla morte sospetta di tale Arnold Paole, un mercenario locale che, entrato in contatto con del sangue infetto, sarebbe risorto iniziando a nutrirsi nottetempo dei terrorizzati abitanti del luogo. Ad amplificare lo sgomento la notizia che il suo corpo, riesumato per l’autopsia, sarebbe stato trovato incorrotto. I raccapriccianti racconti circa l’abitudine dei Turchi di impalare i propri prigionieri privandoli così di una sepoltura onorata si saldano allora alle antiche leggende popolate di mostri del folclore slavo, contribuendo ad alimentare una paura, quella della morte per mano di un nemico invisibile, che, come testimoniano le cronache sanitarie di questi ultimi anni, è giunta inalterata fino a noi se è vero quanto sostiene David Quammen nel suo Spillover (edito in Italia da Adelphi), secondo il quale l’epidemia di covid avrebbe avuto origine – guarda caso – da una colonia di pipistrelli annidati a migliaia nelle grotte della Malesia. Verità o suggestione? La linea di demarcazione è impercettibile, ma sufficiente a condizionare la vita di tutti.
Francesco Paolo de Ceglia, Vampyr. Storia naturale della resurrezione, Einaudi, Torino 2023; pag. 416 € 34,00.
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