Dopo quanto ho detto mi sembra che s’imponga la necessità di rifare con un criterio completamente diverso dal solito la genesi di quel movimento cui è rimasto il nome di dolce stil novo. In esso convergono molte correnti delle tradizioni medioevali. Ma anzitutto la cornice nella quale la critica ordinaria inquadra tutto questo movimento dev’essere completamente rinnovata.
La critica che parte dall’idea, dal pregiudizio possiamo dire ormai, che le donne dei poeti non siano che donne vere sublimate, ci descrive un ambiente di eleganze cortesi nel quale agisce come fattore principale un’antica tradizione cavalleresca, che ha innalzato la donna (elemento che indiscutibilmente esiste nella preparazione del dolce stil novo), ma da questa tradizione e dalla tradizione della poesia provenzale, che è per questa critica soltanto poesia d’amore, si svilupperebbe presso Corti che sono «per caso» ghibelline, l’uso di dire d’amore, favorito «per caso» dal capo del ghibellinismo e dalla sua corte, la poesia d’amore italiana che, seguendo un po’ rozzamente i modelli provenzali, celebra una donna che per ragione di moda o per paura del marito (!!) non ha mai né nome, né figura, né vita personale, e ha «per caso» il nome mistico del fiore: Rosa mystica.
In Guido Guinizelli (che sarebbe soltanto «per caso» quel fierissimo ghibellino che era) questa poesia d’amore verrebbe a combinarsi non si sa bene perché con un complesso e molto oscuro sistema dottrinale, accompagnandosi a un’ulteriore spiritualizzazione della donna e a un simbolismo che già appare ai contemporanei, e diventa sempre più in molte poesie del Cavalcanti e di Dante, assai mal comprensibile e si unisce per «ragioni di moda» a un gergo che talora apertamente mette insieme dei nonsensi e che è anche più incomprensibile. Tutta questa poesia d’amore avrebbe tanto risuonato «per caso» intorno ad Arrigo VII quando da lui si sperava l’instaurazione della vera Chiesa, e sarebbe insomma per coincidenza antipapale, mistica, apocalittica, e «per caso» tra tutti questi che cantavano donne vere (con formule e gergo che si riconoscono spesso incomprensibili) sarebbe venuto in mente a uno, a Dante, di dire che la sua donna era la Sapienza santa, e «per caso» a un altro di dire che era «l’amorosa Madonna Intelligenza» e «per caso» a un altro che l’amore era l’unione dell’intelletto possibile con l’Intelligenza attiva e via di seguito…
No, no! Tutto questo insieme di assurdità e di contraddizioni e di stiracchiature stride in ogni sua parte. Il quadro va interamente rifatto.
La poesia dei «Fedeli d’Amore» non si inquadra nello spirito tra le cortesie feudali e i canti di Calendimaggio. Si deve inquadrare tra la strage degli Albigesi e quella dei Templari; si deve incorniciare in quel fervore di tentate rivoluzioni religiose, di aspettazioni apocalittiche, di odii contro la Chiesa carnale, di ricerca della Chiesa ideale, che nei secoli XIII e XIV pervade tanto l’interno quanto l’esterno dell’ortodossia e che comprende il movimento di San Francesco, il resto dei movimenti dei Catari, dei Valdesi, dei Patarini, il movimento dei Fraticelli e forse le idee segrete dei Templari.
Dappertutto, nelle forme più diverse, nel fervore dell’ambiente politico e religioso vibra un pensiero sovrano: La Chiesa si è corrotta, ma in essa è la verità. E i «Fedeli d’Amore» dicono: «Nella Chiesa è la Sapienza santa, ma essa, la Chiesa carnale, è una turpe meretrice. Ebbene scindiamo questa corruzione da quella Sapienza incorruttibile. Noi odiamo ciò che nella Chiesa è corrotto, amiamo la sua incorruttibile Sapienza. E se ci si vieta di amarla nella Chiesa, ebbene noi l’amiamo nella setta sotto forma e simbolo di una donna purissima. La Chiesa la nasconde per servire i suoi bassi interessi. La Chiesa non diffonde più la vera dottrina; noi amiamo quella, esaltiamo quella, adoriamo quella, la sentiamo tra noi quando stiamo insieme, come una presenza miracolosa e bellissima, ne parliamo con sospiri d’amore. La Sapienza incorruttibile è tra noi cinta delle virtù più pure e più sante, coronata di divina bellezza, a essa incorruttibile ci appelliamo contro la Chiesa corrotta.
«Se la Chiesa è corrotta, la Sapienza è rimasta purissima, se la Chiesa è disonesta e violenta essa è gentile e onesta, se la Chiesa è superba essa è piena di soave umiltà e con quella umiltà rende beato chi la vede; se la Chiesa è dura come “pietra” e combatte con l’odio, essa è dolce come un “Fiore” ed è la donna in signoria d’amore, ed essa ci conduce a Dio».
Questi poeti odiano la Chiesa corrotta e imprecano contro di essa apertamente, ché questo apertamente si può fare: si può dire (e la Chiesa per sua tradizione lo consente) che il clero è corrotto e simoniaco, che la stessa curia di Roma è corrotta dai beni mondani, che la Chiesa va rinnovata nei suoi costumi, ma quello che non si può dire apertamente è che la corruzione morale della Chiesa vela e offusca la verità santa che essa contiene, sì che il fedele è costretto a ricercarla da sé, a rievocarla con altri fedeli laici in gruppi di adepti.
Non si può dire che la Chiesa, che dovrebbe essere vita, è diventata invece morte, che essa nasconde una verità santa e pura che le fu affidata un giorno da Cristo, che la opprime in sé, la tradisce e la seppellisce, mentre propaga invece l’errore plasmato per i suoi interessi mondani.
Soprattutto non ci si può organizzare religiosamente fuori dalla Chiesa.
Ebbene tutto questo dicono e fanno invece i «Fedeli d’Amore». Sono un gruppo di anime elette, raffinate, non contrarie all’essenza della Chiesa Cattolica, ma per amore di quella che ritengono la sua santa vera dottrina, odiatori della presente Chiesa corrotta, per amore della santa Beatrice odiatori di quella meretrice che ha usurpato il posto di lei sul carro della Chiesa.
Sono spiriti còlti: leggono Virgilio e credono che egli pure parli sempre per simboli, ciò che fa dire a uno di essi, Dante, che ha rinnovato lo stile simbolico, di avere tratto il suo stile da Virgilio. Parlano continuamente di ciò che è sotto alla poesia e questa poesia è uno strano intreccio di parole esaltate d’amore per la Sapienza santa, di parole nelle quali si parla della setta, dei suoi dolori, delle sue speranze, si celebrano misteri, riti e sacramenti della setta, si mandano con parole che sembrano d’amore, informazioni settarie e insieme a tutto questo si mescola quello che chiamerei il pettegolezzo della setta, le parole con le quali questi fedeli, che sono sempre in sospetto, si sorvegliano reciprocamente tra loro, si minacciano, si lanciano anatemi, si accusano, oppure si ribellano contro la setta, cioè contro Amore, e ricorre ogni tanto l’imprecare contro una certa «Morte», che è la nemica giurata di Amore e che rappresenta indubbiamente la Chiesa corrotta.
Tra la necessità di essere uniti nella lotta e quindi di cercare, non solo di far proseliti ad Amore, ma di prender contatto con delle strane donne lontane (sètte affini, forse Catari, Valdesi, Templari) e d’altra parte la tendenza individualistica, per la quale questi spiriti eminentemente italiani e tutti di forte personalità, difficilmente si piegano senza discutere alla disciplina della setta stessa, la poesia d’amore prende movenze apparentemente strane e diversissime.
E queste diversità si moltiplicano anche perché in queste forti personalità prevale a volta a volta l’uno o l’altro dei diversi elementi spirituali che confluiscono in questo strano e convenzionale amore.
Risplende sì, su tutti, l’idea e l’immagine della Sapienza santa, identificata nel linguaggio convenzionale con la setta che raccoglie tutti i «Fedeli d’Amore»; ma in Guido Guinizelli, in Guido Cavalcanti, in Dante, in Cino, la poesia di finto amore aderisce più strettamente all’immagine della Sapienza santa, in altri più all’idea della setta con la quale carteggiano per mezzo della poesia d’amore. E i primi due hanno dinanzi agli occhi più specialmente l’aspetto filosofico della Sapienza divina, soprattutto Guido Cavalcanti che definisce l’amore come prendente loco nell’intelletto possibile e quindi come raggio dell’Intelligenza attiva. Dante invece nella Vita Nuova dà a Beatrice il carattere vero della Sapienza mistico-iniziatica e vedremo come il suo amore per essa si svolge in gradi successivi di iniziazione, ma egli pure ha la parentesi filosofico-intellettualistica del Convivio e dopo di essa la sua donna riappare in forma assai più limpida col carattere di Sapienza già affidata alla Chiesa e della quale ora sul Carro della Chiesa è stato usurpato il posto.
Ma come l’idea pagana dell’Intelligenza attiva viene a confondersi e unificarsi con quella della santa Sapienza rivelata alla Chiesa? È chiaro. Secondo la dottrina agostiniana il peccato originale aveva offuscato l’intelletto umano togliendogli lo scire recte, immergendolo in una fondamentale ignorantia e quindi togliendogli di potersi ricongiungere all’Intelligenza attiva che rivela le verità eterne. La Redenzione aveva appunto sanato questa fondamentale ignorantia e la Rivelazione che essa aveva portato e consegnato alla Chiesa era precisamente la nuova capacità per l’intelletto possibile di ricongiungersi con l’Intelligenza attiva e quindi di attingere le verità eterne. Ecco come nella figura della misteriosa donna amata si confondono l’idea dell’Intelligenza attiva e quella della Rivelazione cristiana.
Ma questo movimento dei «Fedeli d’Amore» si svolge tempestosamente, si rompe, si sfalda, si ricostruisce attraverso mille tempeste sulle quali è disteso il velo di molti dolci versi, di poche parole commosse e delle molte formule oscure o freddissime.
Orbene, quando si è detto tutto questo, si è detto forse qualche cosa di molto strano e di molto inatteso?
Strano e inatteso per la critica «positiva», che si è impossessata delle nostre scuole e le ha chiuse nella considerazione puramente letteraria di questa poesia e del suo senso superficiale, ma semplicissimo e logicissimo per chi conosca la vera, intera anima medioevale e le grandi correnti che l’agitarono.
E quando si è detto questo, si è detta anche un’altra cosa assai ovvia: cioè che vi è una continuità tra la poesia mistica della Bibbia ove si invoca la «Sposa del Libano», le idee mistiche di Sant’Agostino che esalta la mistica Rachele come santa Sapienza e il misticismo della Divina Commedia ove la donna è semplicemente la Sapienza santa, Sposa del Libano e compagna di Rachele; si è detto che Dante non reinventò di testa sua il gioco di presentarsi come amante della mistica Sapienza e non mascherò, per una sua originale trovata, da mistica Sapienza la moglie a tutti nota di un suo concittadino (il quale, sia detto per incidente, era tra l’altro un noto mascalzone e traditore della Patria) (*), ma proseguì nel linguaggio, nel pensiero, nello stile di una tradizione profonda e antica.
Tra quella tradizione e il canto sublime della Divina Commedia, nel quale l’oggetto dell’amore è indiscutibilmente la Sapienza santa, non vi è un’incomprensibile parentesi di realismo; nessuna povera femmina vera si è cacciata in mezzo a interrompere questo limpido dramma di passione e di fede religiosa!
Una continuità mirabile e limpidissima lega il pensiero della Commedia all’amore giovanile di Dante e quest’amore giovanile a quello dei suoi compagni e tutti questi amori (che sono sempre lo stesso amore) alla secolare tradizione del mistico amore dell’umanità, che si spinge indietro nei tempi fino a inesplorate lontananze.
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Nota
(*) Dino Compagni scoprì le lettere da lui scambiate con i nemici del Comune per proporre il complotto contro Firenze e lo fece condannare in grave pena. D. Compagni, Cronaca, I, cap. XXXIV. Ma secondo la critica «positiva» costui poté leggere nel Poema di Dante che la propria moglie se ne andava per il Paradiso Terrestre scarrozzata da Gesù Cristo in persona.
Questo brano costituisce la quarta parte del capitolo 6 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».
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