La concezione dantesca del dolce stil novo

Se guardiamo alla maniera con la quale Dante ci rappresenta il dolce stil novo vedremo che essa conferma pienamente tale interpretazione. Dante immagina, com’è noto, un discorso tenuto in Purgatorio proprio con Buonagiunta da Lucca. Questi gli domanda se è lui quegli che trasse fuori le nuove rime cominciando Donne ch’avete intelletto d’amore. Dante sottintende la risposta affermativa con le famose parole:

. . . . I’ mi son un, che quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentrovo significando».

«O frate, issa vegg’io» diss’elli «il nodo

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo.

Io veggio ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a riguardare oltre si mette,

non vede più da l’uno a l’altro stilo».

E, quasi contentato, si tacette [1].

Traduciamo: Io sono uno che scrivo non esprimendo dei semplici sentimenti, ma raccogliendo l’ispirazione da quella profonda dottrina che si chiama Amore ed esprimo di fuori a quel modo che questa profonda dottrina insegna di dentro.

E Buonagiunta risponde: Ora comprendo che cosa è che dà tanto vigore e tanta bellezza e tanta dolcezza a questo stile nuovo tanto più bello del nostro. Noi non seguivamo così strettamente con le nostre penne i dettami della profonda dottrina dell’amore, non il Notaio che quantunque «Fedele d’Amore» non faceva poesia dottrinale, non Guittone d’Arezzo che era completamente estraneo alla setta, non io che, pur facendo parte della setta e scrivendo in gergo, non m’interessavo d’esprimere le profonde cose che detta dentro, nel segreto, la dottrina d’amore. Questa è la sola differenza.

E Buonagiunta da Lucca si tace. In quell’immaginaria scena del Purgatorio si è conclusa in certo modo, col riconoscimento da parte di Buonagiunta del valore della nuova e più profonda maniera di poetare, la polemica che egli aveva avuto col Guinizelli quando aveva condannato l’oscurità di lui e ne aveva avuto per risposta che bisogna essere prudenti per non fare intendere quello che si pensa.

E ora viene fatto di sorridere se si torni all’interpretazione nettamente opposta che dà a questi versi la nostra critica corrente che insegna ancora nelle scuole che significare «come detta dentro amore» vuol dire esprimere in maniera più diretta e più immediata il sentimento dell’amore!

Certo non l’interpretarono così i più veri intenditori del pensiero di Dante. Tanto il Perez quanto il Pascoli quanto il Cesareo [2] rifiutarono questa superficialissima interpretazione che del resto era stata già rifiutata niente di meno che da Francesco Petrarca, il quale ci lasciò (secondo una verosimilissima tradizione) una sola chiosa dantesca e su questi versi, ma tale che vale per tutto un commento.

«Dimmi, tu pari vago e intendente di questa sua Comedia, (egli disse a un tale parlando del Poema Sacro e affermando che era opera non di Dante, ma dello Spirito Santo) come intendi tu tre versi che pone nel Purgatorio…

I’ mi son un, che quando

Amor mi spira noto e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando.

«Non vedi tu che dice qui chiaro, che, quando l’amore dello Spirito Sancto lo spira dentro al suo intelletto, che nota l’ispirazione, e poi la significa secondo che esso Spirito gli dicta e dimostra? [3]»

Or non è questo un modo evidente, se pur sempre velato, di dichiarare che Amore per Dante non significa amore di una donna, ma è amore simbolico, di carattere religioso?

Ma mi diranno che questa testimonianza del Petrarca è solo una tradizione. C’è qualche altra cosa che non è una tradizione e che la critica realista non vede per la sua ostinata cecità, ed è che quella canzone: Donne ch’avete intelletto d’amore, che in quel passo è citata come tipica e fondamentale delle Nuove Rime, cioè del dolce stil novo, invece di essere più spontanea delle precedenti e più immediatamente dettata dall’amore, è tra le più difficili, tra le più artificiose, tra le più complicate di simbolismo che siano mai state scritte e Dante stesso, dopo averle appiccicato alcune artificiosissime chiose, con le quali evidentemente non spiega nulla della sua sostanza, finisce col dire così:

«Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che son fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero audire».

Avete inteso? Questo si chiamerebbe spontaneità e immediatezza di espressione.

Questo significherebbe scrivere sotto il dettame diretto e immediato dell’amore per una donna? Bisogna essere proprio rigidamente e seriamente «positivi» per scambiare così grossolanamente il bianco per il nero [4].

Note

[1] Purg., XXIV, 52.

[2] Per quest’ultimo si veda il saggio Amor mi spira in *Miscellanea di Studi Critici in onore di A. Graf, Bergamo 1903.

[3] Papanti, Dante secondo la tradizione, p. 86.

[4] Risulta pertanto che Dante dicendo «stile» non intende quello che intendiamo noi, ma piuttosto «maniera di simbolizzare». E ora s’intende quell’incomprensibile idea di aver preso da Virgilio «lo bello stile» che era poi in fondo il dolce stil novo, idea che ha fatto strabiliare tutti. In realtà Dante come Servio, come Fulgenzio, ritenne che Virgilio simbolizzasse e aveva tolto da lui l’arte di simbolizzare profondamente, non lo «stile» nel senso nostro della parola.

* * *

Questo brano costituisce la seconda parte del capitolo 6 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».

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Luigi Valli (1879 – 1930) è stato un critico letterario, docente universitario italiano. Prima discepolo poi amico fraterno di Giovanni Pascoli, si distingue come filosofo e poeta e studioso di Dante Alighieri. A lui sono dedicate tre scuole: una a Narni, un liceo a Barcellona Pozzo di Gotto e una scuola primaria a Bergamo, facente parte dell'Istituto Comprensivo Edmondo De Amicis. Tra le sue opere: * Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d’Amore", Roma 1928 * La chiave della divina commedia, Zanichelli, Bologna, 1925 * Il segreto della Croce e dell’Aquila, nella Divina Commedia Bologna, 1922. * L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922

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