La sottile arte del doppio gioco

Herbert Lottman, fine critico letterario scomparso dieci anni fa che nel nostro Paese è conosciuto soprattutto per la voluminosa e controversa biografia dedicata ad Albert Camus, nel suo saggio La Rive Gauche, apparso in Italia per i tipi della Sylvestre Bonnard, casa editrice di altissimo profilo che purtroppo ha cessato da tempo l’attività, ci ha regalato un ritratto a tutto campo della Parigi ai tempi dell’occupazione tedesca, contribuendo in maniera determinante a sfatare il falso mito resistenziale che vorrebbe gli intellettuali engagés impegnati in una lotta senza quartiere contro il nuovo ordine imposto sugli Champs – Elysées dal passo cadenzato dei soldati della Wehrmacht.

Seguendo la lezione illustre di Vercos e Irène Némirovsky, Lottman rivela, documenti alla mano, come gli esponenti più in vista della Parigi letteraria che conta, quella per intenderci di André Gide e Jean Paul Sartre, Louis Aragon e Maurice Merlau – Ponty, onde poter continuare a scrivere, insegnare e mettere in scena le proprie opere teatrali indisturbati, abbiano assunto nei confronti dei nuovi signori della guerra giunti dall’altra parte del Reno un atteggiamento tutt’altro che ostile se non perfino connivente, collocandosi per calcolo lungo quella linea grigia dove il confine tra ciò che si ritiene sia giusto e ciò che è facile diventa irrilevante. Comodamente seduti ai tavolini del Café de Flore e dietro le cattedre della Sorbona ammiccano alla Rivoluzione nella quale, secondo lo sprezzante giudizio espresso su di loro da Dmitrij Merezkovskij, “vedono solo un esperimento d’ingegneria sociale, interessante perché si svolge in un luogo lontano ed esotico” che quindi, in fin dei conti, non li riguarda davvero e tuttavia non disdegnano di partecipare, su invito di Otto Abetz, alla mostra intitolata “Le Juif et la France”, organizzata nel settembre del 1941 a Palazzo Berlitz dall’Istituto di ricerca sulle questioni ebraiche, ritrovandosi così gomito a gomito con Georges Montandon, Louis Ferdinand Céline, Lucien Rebatet, Robert Brasillach e Pierre Drieu La Rochelle, vale a dire il fior fiore dell’intellettualità collaborazionista del tempo.

Un tema, quello dell’ambiguità degli scrittori sedicenti democratici con i totalitarismi novecenteschi che anche dalle nostre parti ha offerto alle cronache mondane, giornalistiche e letterarie esempi eclatanti. Se la notizia della collaborazione di un giovanissimo Giorgio Bocca alle pagine de “La Difesa della Razza” di Telesio Interlandi (figura di poliedrico animatore culturale alla quale Giampiero Mughini ha dedicato un libro straordinario edito da Marsilio) è ormai di dominio pubblico e non fa più sensazione, una certa eco ha avuto negli anni scorsi la polemica, rimbalzata sui principali quotidiani nazionali, seguita al ritrovamento da parte degli storici Mauro Canali e Dario Biocca del fitto carteggio intercorso almeno fino al 1931 tra Ignazio Silone e il commissario dell’OVRA Guido Bellomo, dal quale risulta che lo scrittore abruzzese, celato sotto lo pseudonimo di Silvestri, abbia fornito alla polizia politica del regime fascista notizie sugli affiliati al Partito Comunista clandestino al quale lui stesso appartiene. I pasdaran dell’antifascismo militante si sono precipitati a fare quadrato intorno ad una delle figure simbolo della lotta partigiana, dando la stura ad una dietrologica querelle di accuse, controaccuse, rivelazioni e smentite che, in un profluvio di pagine scritte è ben lontana dall’essersi appianata, ma il sospetto rimane. Intervenendo sulla questione in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2015, Sergio Romano ha con acutezza osservato come il caso Silone mostri più di qualche assonanza con la vicenda occorsa ad una altro scrittore dell’epoca, Dino Segre (1893 – 1975), meglio conosciuto come Pitigrilli, del quale la casa editrice milanese Oaks ha da poco riproposto, in una bella edizione a cura di Fabio Andriola, la gustosa autobiografia apparsa nel 1949 per Sonzogno.

Nato a Torino in una famiglia di origini ebraiche dalle solide disponibilità economiche, Pitigrilli fa parlare di sé nel periodo a cavallo tra le due guerre per una serie di racconti a sfondo erotico come Cocaina e Mammiferi di lusso (entrambi disponibili nel catalogo Bompiani) nei quali, con uno stile apparentemente scanzonato e frivolo, mette a nudo senza mezzi termini la doppiezza morale di quella buona borghesia che si ripara all’ombra del Fascismo solo per poter coltivare indisturbata i propri vizi inconfessabili, la stessa che poi, negli Anni Settanta, non avrà remore di sorta a flirtare con le frange più radicali della Sinistra extraparlamentare. Benché il diretto interessato si periti di farci sapere, con uno studiato snobismo dal sapore malapartiano, di non aver mai avuto interesse per la politica, preferendo sempre, al più sciocco dei propri sodali il più intelligente dei nemici, dal saggio che Domenico Zucaro gli dedica nel 1977, Lettere di una spia (Sugarco Edizioni), apprendiamo che Pitigrilli non disdegna di offrirsi come confidente dell’OVRA in cambio di un assegno mensile di cinquemila lire, cifra per l’epoca davvero ragguardevole.

L’Agente 373 (questo il suo nome in codice) si rivela così efficiente nella propria attività di delazione che Mussolini decide di mandarlo a Parigi per prendere contatto in prima persona con i capi dell’opposizione in esilio, guadagnandosi la loro fiducia. Le rivelazioni contenute nei suoi rapporti minuziosamente dettagliati risulteranno essenziali per procedere all’arresto di personaggi del calibro di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi e Leone Ginzburg, come pure nella pianificazione dell’attentato in cui nel 1937 trovano la morte i fratelli Rosselli. Un’eredità senza dubbio ingombrante, soprattutto per un figlio disperso d’Israele, che spiega in gran parte la coltre di silenzio sollevata intorno a lui nel dopoguerra. Un ostracismo che tuttavia non sminuisce le sue qualità di scrittore. Maestro insuperato del paradosso, Pitigrilli finisce per trovare il suo più attento esegeta nientemeno che in Umberto Eco, altro nume tutelare della cultura dominante il quale, in virtù di uno di quei cortocircuiti ideologici ai quali il Novecento ci ha resi avvezzi, lo definisce prosatore “sapido e rapido, fulminante”. Riproponendo nel 1976 l’edizione critica di alcune sue opere, è proprio l’autore de Il nome della rosa a fornirci il ritratto dello scrittore torinese che, a mio giudizio, meglio si attaglia alla sua sulfurea personalità. “Amareggiato da nemici reali, Pitigrilli si affanna contro nemici immaginari per coltivare la sua dolente bizzosità, sanculotto che attacca la Bastiglia nella speranza di essere invitato a cena da Maria Antonietta e che, una volta invitato, fa arrossire le signore presenti, convinto di aver fatto il suo 14 luglio, ma si lamenta poi di essere un incompreso quando viene bastonato dai servi”. Non so che cosa ne pensiate ma, visto così, sembra un tipaccio che vale la pena conoscere.

A cura di Fabio Andriola, Pitigrilli parla di Pitigrilli, Oaks Editrice, Sesto San Giovanni 2023; pag. 276, € 28,00.

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