La sapienza nascosta di Dante

Nell’anno appena trascorso, in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante, un profluvio di libri ha fatto torcere i torchi delle più diverse case editrici. Si sa, l’universo dantesco è immenso, infinito. Le porte d’accesso al  mondo ideale del Sommo poeta sono molteplici. Un ruolo rilevante, nell’ermeneutica della produzione dell’Alighieri, lo ha certamente svolto la scuola di indirizzo tradizionale che, nello specifico dantesco, ha prodotto, tra le altre, le esegesi di Valli, Rossetti e Guénon. In tale ambito, una posizione di primo piano, tra gli studiosi contemporanei, crediamo debba essere riconosciuta a Nuccio D’Anna, storico delle religioni ed esperto di simbolismo, del quale è da poco nelle librerie per i tipi di Iduna editrice il volume La Sapienza nascosta di Dante. Linguaggio e simbolismo dei Fedeli d’Amore (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp.142, euro 12,00).

D’Anna muove dalla constatazione che, nella sterminata letteratura su Dante, gli studi  significativi dedicati al De vulgari eloquentia siano davvero pochi. La maggior parte di essi, riduce quest’opera  a esempio medioevale di “teoria del linguaggio”. Tale atteggiamento interpretativo, parziale e limitante, mostra fino a che punto la modernità sia riuscita ad obliare, in forza della marcia trionfale della ratio calcolante, atta a cogliere solo gli aspetti quantitativi della realtà, il mondo valoriale dell’Età di mezzo, vero e proprio ubi consistam della produzione del grande fiorentino. Solo il recupero di uno sguardo qualitativo, segnato dalla spiritualità medievale, apre alla polisemia, alle molteplici dimensioni, presenti nel De vulgari eloquentia. Oltre la dimensione letterale del testo, si schiude, allora, quella allegorica, morale e anagogica. D’Anna ricorda che si deve, innanzitutto, ai lavori eruditi del De Lubac, aver mostrato come: «il simbolismo e i suoi significati molteplici e gerarchicamente ordinati […] fanno parte del patrimonio spirituale e culturale medievale in una misura che i dantisti stentano ad afferrare» (p. 10). Più in particolare, precisa l’autore, tale esegesi simbolica risulta essere stata patrimonio della teologia monastica del periodo, che ebbe in Bernardo di Chiaravalle il proprio tedoforo: essa fu altro, in termini intellettuali e realizzativi, rispetto alla teologia scolastica. Il riferimento alla mistica monastica è di assoluto rilievo, in quanto D’Anna, in molti luoghi del saggio, sviluppa confronti e comparazioni con la spiritualità d’Oriente.

Del resto: «la considerevole quantità, presente in ambito monastico di trattati […] su alcuni elementi simbolici come l’Arca, la Nave [….] che nella teologia scolastica venivano considerati secondari, non può non portare ad una visione spirituale diversa del mondo medievale» (pp. 10-11). I personaggi del narrato dantesco vengono così letti quali paradigmi di stati contemplativi che poco hanno a che fare con effusioni bassamente sentimentali. L’intera opera è un intrecciarsi e rincorrersi di motivi diversi. Gli intenti politici e la difesa dell’Impero si legano alle polemiche contro la Roma dei papi. Le indicazioni relative ai Fedeli d’Amore rinviano al ruolo che Eros svolse in tale confraternita realizzativa. Linguaggio e simboli vengono determinati dai diversi gradi di profondità comunicativa che il poeta voleva presentare. I riferimenti al sapere indiano o islamico servono a D’Anna per chiarire e illustrare i principi fondamentali del mondo ideale di Dante. In tal modo, il lettore è indotto a recuperare lo sguardo sul mondo proprio degli uomini delle civiltà tradizionali, adusi a: «compenetrarsi con l’essenza del creato» (p. 12). Il trattato dantesco in questione si struttura, quindi, sul simbolismo. Le sue pagine alludono alla spiritualità dei Fedeli d’Amore, come fece rilevare, tra i pochi, Gaetano F. Scarlata, in un suo studio.

Dante muove rilievi significativi all’operato della Chiesa ma le sue critiche: «scaturiscono dall’interno della tradizione cattolica, fatte da chi riteneva di non scostarsi in nulla dalla dottrina tradizionale» (p. 23). I Fedeli d’Amore costituivano una élite che esprimeva, non diversamente da Dante, la vitalità spirituale del Medioevo. La loro presenza: «si sviluppava attorno ad una   molteplicità di personalità che erano collegate fra di loro dalla stessa dottrina» (p. 24). Sono stati avvicinati ai Cavalieri dell’Ordine del Tempio. Come questi ultimi, essi svolsero la funzione di vigilantes in preghiera che mostravano l’essenza spirituale dalla quale trae consistenza ogni determinazione temporale. I viaggi in Sicilia e a Parigi del poeta non furono, quindi, semplici tappe dell’esilio del Priore fiorentino, ma il tentativo: «di intessere una complessa rete di legami fra personalità che orami avevano da temere persecuzione e morte […] quasi a preservare quanto restava degli organismi derivati dall’Ordine del Tempio» (p. 25).

I Fedeli d’Amore, come gli iniziati delle tûruq islamiche, utilizzavano un linguaggio convenzionale. L’uso del simbolismo fonetico rinviava ad una condizione spirituale nella quale  la “Donna”: «viene ad impiantarsi nel cuore dell’amante fino a trasformarne l’intera struttura percettiva» (p. 26). La concezione dell’Amore dell’Alighieri  prefigura l’unione della creatura con la Casa Eterna: «uno stato di grazia che permette di superare lo stato umano e di integrarsi nella Sapienza divina» (p. 41). Tale tematica sapienziale nel, De Vulgari eloquentia, si lega al tema politico dell’Impero. Tutta la trattazione è centrata sull’elogio degli Staufen e del sapere di Federico II. Non è casuale che, proprio presso la corte palermitana di tale casa imperiale, fosse sorto il primo centro che coltivava la tradizione dei Fedeli d’Amore: «Né bisogna dimenticare il ruolo avuto dai Provenzali […] nella formazione e nei contenuti simbolici di quella che si è convenuto chiamare scuola poetica siciliana» (p. 27).

Questi sono solo alcuni degli aspetti dell’ampia analisi condotta da D’Anna sul testo di Dante. Consigliamo il lettore di soffermarsi sui capitoli in cui l’autore discute il simbolismo linguistico e la geografia sacra. Essi concedono le chiavi necessarie per aver accesso alle profondità dell’universo dantesco.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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