La misteriosa donna dell’«Acerba» di Cecco d’Ascoli

Nell’alma guerra e nella bocca pace!

Cecco d’Ascoli

Nessuno si meraviglierà, credo, che nella luce di queste nuove conoscenze vengano a sciogliersi molti dei più vecchi problemi riguardanti la vita spirituale del Trecento e io non posso passare innanzi senza accennare alla perfetta coerenza che manifesta con tutto quanto è detto sopra, quella strana e innominata donna de L’Acerba di Cecco d’Ascoli, la quale si mostra immediatamente, a chi la consideri ora, come la solita personificazione della Sapienza santa.

il-linguaggio-segreto-di-dante-e-dei-fedeli-damoreOsserviamo anzitutto che nell’Acerba si parla di una donna perfettissima e poi si parla delle donne (femmine), di tutte le femmine, con odio e disprezzo inauditi.

Mentre delle donne in genere si dicono i più violenti vituperi e si consiglia di starne lontani e di non avere in esse nessuna fede, si parla di una donna con la quale il poeta si sente immedesimato e che è la generatrice e la custode di ogni virtù e di ogni beatitudine. Ricordiamo un momento come si parla della femmina in genere:

Femena che men fé ha che fera,

radice, ramo e frutto d’onne male,

superba, avara, sciocca, matta e austera,

veneno che venena el cor del corpo,

via iniqua, porta infernale;

quando se pinge, pogne più che scorpo;

tosseco dolce, putrida sentina;

arma del diavolo e fragello;

prompta nel male, perfida, assassina.

Luxuria malegna, molle e vaga,

conduce l’omo a fusto et a capello;

gloria vana et insanabel piaga.

Volendo investigar onne lor via,

io temo che non offenda cortesia [1].

Ebbene, nello stesso poemetto dove della femmina si parla in questo modo, si parla viceversa di un’innominata donna con le parole più alte e più nobili, si parla dell’amore discutendone con Dante e affermando contro di lui che esso, una volta che ha preso il cuore, non si diparte altro che per morte. Si dice che Amore:

Ardendo fa la vita el ben sentire

donna mirando nel beato loco

che pace con dolcezza par che spire [2].

E si dice apertamente, senza mai spiegare di che specie di donna si parli:

I’ son dal terzo celo trasformato

in questa donna, che non so chi foi [3],

per cui me sento onn’ora più beato.

De lei prese forma el meo intellecto,

mostrandome salute li occhi soi,

mirando la vertù del so conspecto,

donqua, io so ella; e se da me scombra,

allora de morte sentiraggio l’ombra. [4]

Perché il poeta dica «Donqua io so ella» ora si può ben intendere. Egli è immedesimato con l’«intelligenza attiva» come la figura «Moglier e marito» del Barberino e secondo la frase di Averroè «la massima beatitudine dell’animo umano è nella sua suprema ascensione. E dicendo ascensione intendo il suo perfezionarsi e nobilitarsi in modo che si congiunga con l’intelligenza attiva e siffattamente uniscasi a quella che diventi uno con essa» (vedi cap. IV, r). E si continua con evidente simbolismo mistico dicendo:

O viste umane, se fossete degne

de veder como de grazia fontana

e com’el celo in lei vertute pegne!

Costei fo quella che prima me morse

la nuda mente col disio soverchio,

che subito mia luce se n’accorse.

Onne intellecto qui quiesca e dorma,

ché non fe’ mai, sotto ‘l primo cerchio,

Deo e natura sì leggiadra forma. [5]

Si osservi che la donna morse la nuda mente, cioè l’intelletto puro e chi se ne accorse fu «mia luce», cioè quella parte dell’anima che è luce della Sapienza che vuole ricongiungersi a lei.

Mescolando la sua sapienza di naturalista con la glorificazione di questa misteriosa donna, Cecco d’Ascoli continua ora dicendo che la lumerpa è luminosa e che le sue penne continuano a far luce anche dopo che essa è morta:

Così da questa ven la dolce luce,

ch’aluma l’alma nel disio d’amore;

tollendo morte, a vita conduce.

E l’om, morendo po’ con questa donna,

luce la fama; nel mondo non more

e de sospiri fa questa lonna.

Ma chi da questa donna s’allontana,

perde la luce de le prime penne,

de soa salute onn’ora s’estrana;

ma, prego, con li dolci occhi me sguarde,

tollendo del mio cor le penne vane,

del ceco mondo che onn’ora m’arde:

e la soa forza me conduce a tanto,

che sempre li occhi gira ‘l tristo pianto. [6]

Continua, dicendo che un altro uccello, lo stellino, sale nell’aria abbandonando il dolce nido per amore della stella e aggiunge:

È simel donna questa del stellino,

che fa volar la mente nostra accesa.

Nel gran disio de lo ben divino [7].

Il Poeta dice, riprendendo un’antica figura mistica, che il pellicano fa rinascere i suoi figli, uccisi dalla serpe, versando su di loro il sangue del suo petto e (sostituendo chiaramente questa volta all’opera della mistica donna che porta da morte a vita quella di Cristo), dice che Cristo:

Como de pellicano tene figura,

per li peccati de’ primi parenti,

resuscitando l’umana natura;

e noi, bagnati da sanguigna croce,

resuscitando da morte despenti

de servitute lassammo la foce:

si che per morte reprendemmo vita,

che per peccati fo da noi partita. [8]

E continua parlando promiscuamente o della rinascita in Cristo o della rinascita di colui che ha nel cuore questa donna.

Il piombino, per esempio, ha delle penne che rinascono in pianta quando egli è morto:

Cossì costei; chi la ten nel core,

in onne modo segue temperanza:

in cel fiorisce, poi ch’al mondo more [9].

Lo struzzo digerisce il ferro, dimentica le uova, ma poi pentito nutre i figli «guardando lor con occhi humiliati»:

Cossì, chi sente al core el dolce foco

che nasce per disio de costei,

el mal consuma e serva in suo loco;

e se de lei peccando se scorda,

piangendo con sospiri dice omei,

quando de questa donna s’arrecorda [10].

E così di seguito. Chi conosce questa donna si conforta dei peccati come la cicogna, che quando sta male va a bere l’acqua marina e «drizza il core verso il fine e il bene»: chi la porta nel cuore non finisce mai di cantare dolcemente sentendo lo splendore della luce divina, come la cicala che canta «per ardente sole».

La nocticora «vede la nocte, ma nel giorno è cieca»:

Cossì fa l’anima viziosa e rea,

quando da questa donna se departe,

la quale è de bellezza summa dea;

acceca li occhi d’onne cognoscenza

e segue la viltà in onne parte,

fin che la luce de veder non pensa;

e fin el ben de l’eterno amore

non vede, ché vivendo ella se more [11].

La solita morte di chi non ama questa sublime donna.

La pernice si dimentica del suo sesso e trasfigura la femmina in maschio e per invidia cova le uova altrui.

Cossì como l’homo for de conoscenza,

che questa donna non porta nel core [12].

La rondine ridà la vista ai figli ciechi biascicando la celidonia che porta nel ventre:

Cossì serai tu gracioso sempre,

se porti amore e caritate dentro,

de questa donna servando le tempre [13].

René Guénon, L'esoterismo di Dante Credo che sia inutile proseguire in quest’esposizione, perché non varrebbe la pena di parlare per chi non avesse già chiaramente inteso che qui si parla della santa e divina Sapienza, che al solito è la perfetta delle donne, che fa tornare da morte a vita, che dà tutte le virtù a chi la segue e lascia gli altri nella «morte» e per la quale Cecco d’Ascoli dice d’ardere d’amore, confessando poi che è la donna di tutti i buoni, la Sapienza nella quale come presso tutti i «Fedeli d’Amore» l’Intelligenza attiva della filosofia pagana si è fusa con la Rivelazione cristiana diventando mistica Sapienza che è amata dall’anima pura, che è offuscata dal peccato, restituita dal Cristo agli uomini ma nascosta e combattuta dalla Chiesa corrotta. D’altra parte egli dice con luminosa evidenza che:

Fo ‘nanti ‘l tempo e ‘nanti ‘l cel soa vista;

qui fa beata [14] nostra umanitate,

seguend’el ben che per lei s’acquista [15].

In altro passo (precisamente prima d’imprendere quella terribile diatriba contro le donne) scrive:

Non fo in donna mai vertù perfecta,

salvo in Colei che ‘nanti el comenzare

creata fo et in eterno electa.

Rare fiate, como disse Dante,

s’entende sottil cosa sotto benna [16].

Ora la sola «donna» che sia esistita «innanzi il comenzare», cioè a dire prima della creazione, non può essere se non quella per mezzo della quale la creazione avvenne e cioè precisamente la divina Sapienza e cioè precisamente l’amorosa Madonna Intelligenza, l’eterna Sofia, la mistica Sapienza che ricollega Dio all’uomo e che è fonte di ogni virtù e Beatrice dell’anima umana. Ecco che cosa si deve intendere con «sotto benna».

Lasciamo gl’interpreti realisti nella malinconia di non aver ancora potuto determinare il cognome e la paternità di questa donna amata da Cecco d’Ascoli (e questa volta, o infelici! nemmeno il nome di battesimo!). Osserveremo alcune cose abbastanza importanti: abbiamo visto che la Sapienza santa, perpetuamente rinascente negli uomini come il raggio della luce divina a essi direttamente elargita da Dio, è assimigliata alla «fenice», abbiamo visto che Cino da Pistoia rimprovera a Dante di non aver riconosciuto nella sua Beatrice «l’unica Fenice che con Sion congiunse l’Appennino». Cecco d’Ascoli parlando di questa donna la paragona ancora alla «fenice» e dice due cose importantissime: che di fenici ne esiste una sola e che viene dall’Oriente e aggiunge, cosa strana e inaudita, che questa Donna muore nel mondo per colpa di certa gente grifagna oscura e ceca!

Or questa (donna) de fenice ten semeglia,

sentendo de la vita gravitate.

Morendo nasce; scolta meraveglia:

in elle parti calde d’oriente

canta, battendo l’ale desfidata,

sì che nel moto accende fiamma ardente;

però, che conversa, dico, in polve trita,

per la vertute che spreme la luna,

reprende in poca forma prima vita:

e, pur crescendo, monta nel so stato.

Al mondo non ne fo mai plu che una;

de l’oriente spande el so volato.

Così costei, che al tempo more

per la grifagna gente oscura e ceca,

accende fiamma del disio nel core:

ardendo, canta de le iuste note;

con dolce foco la ignoranzia spreca

e torna al mondo per le excelse rote;

la guida de li cieli la conduce

ne l’alma, ch’è desposta per soa luce [17].

Tutto questo è perfettamente e limpidamente d’accordo con quanto abbiamo dedotto da altri indizi e cioè: che la Sapienza iniziatica considerata come raggio diretto della divina Sapienza, e personificata in donna da tutto questo gruppo di poeti, era assimigliata alla fenice in quanto si considerava come Sapienza unica rinascente attraverso i tempi; che si considerava rinascente perché di continuo oppressa dall’errore e dalla violenza e in questo caso speciale è condotta a morte dalla virtù che spreme la luna (Chiesa) e la donna è uccisa da questa gente grifagna oscura e ceca, che sono evidentemente gli uomini della Chiesa corrotta, e che si riconosceva la sua unicità (Al mondo non ne fo mai plu che una) non solo, ma la sua provenienza dall’Oriente, da dove infatti era venuta probabilmente come dottrina gnostico-cristiana, come «Rosa di Sorìa», come quella misteriosa donna che su la man si posa come succisa rosa e che generava figlie alle fonti del Nilo e che conosceremo nella canzone di Dante: Tre donne.

Ma non possiamo abbandonare questo interessantissimo autore senza fare un cenno del suo atteggiamento verso Dante e verso gli altri «Fedeli d’Amore».

(continua)

Note

[1] Libro IV, cap. IX.

[2] Libro III, cap. I.

[3] Non è più quello che fu perché è entrato nella «vita nuova» come Dante.

[4] Libro III, cap. I. Si ricordi che, secondo l’idea comune in questa poesia, non solo il perfetto amante è immedesimato con l’amata, ma l’uomo distaccato dalla santa Sapienza è «morto».

[5] Libro III, cap. II.

[6] Libro III, cap. IV. La forza del mondo cieco è tale che mi costringe a simulare tristemente (tristo pianto). Il pianto letteralmente contrasterebbe con la beatitudine che la donna dà.

[7] Libro III, cap. V.

[8] Libro III, cap. VI.

[9] Libro III, cap. VIII.

[10] Libro III, cap. IX.

[11] Libro III, cap. XIII.

[12] Libro III, cap. XIV.

[13] Libro III, cap. XV.

[14] Beatrice.

[15] Libro III, cap. II.

[16] Libro IV, cap. IX.

[17] Libro III, cap. II. Poiché il Codice Laurenziano pone come testata a questo capitolo «De natura fenicis asimilando ipsam virtuti» si comprende come sia nato tra i commentatori l’equivoco (forse voluto da chi scrisse quella rubrica) secondo il quale la donna misteriosa sarebbe la virtù; ma i caratteri che il Poeta le assegna rispondono tutti alla Sapienza e non alla virtù. Anzitutto essa emana dal Terzo cielo ed è quindi legata con Amore come tutte le altre donne. Essa «morde la nuda mente» dà forma all’intelletto cioè è Intelligenza attiva, dà luce e salute, prende forma del cristiano pellicano che è il Verbo. Chi se ne diparte «acceca li occhi d’onne cognoscenza». Essa fu prima della creazione, il che è perfettamente chiaro se essa sia divina Intelligenza, non se sia virtù, ecc.

* * *

Questo brano costituisce la prima parte del capitolo 10 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».

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Luigi Valli (1879 – 1930) è stato un critico letterario, docente universitario italiano. Prima discepolo poi amico fraterno di Giovanni Pascoli, si distingue come filosofo e poeta e studioso di Dante Alighieri. A lui sono dedicate tre scuole: una a Narni, un liceo a Barcellona Pozzo di Gotto e una scuola primaria a Bergamo, facente parte dell'Istituto Comprensivo Edmondo De Amicis. Tra le sue opere: * Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d’Amore", Roma 1928 * La chiave della divina commedia, Zanichelli, Bologna, 1925 * Il segreto della Croce e dell’Aquila, nella Divina Commedia Bologna, 1922. * L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922

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