La fede spiana le montagne

“Quegli uomini hanno un sola scelta, le pallottole tedesche o le nostre. Ma c’è un’altra via: la via del coraggio, la via dell’amore per la Madrepatria. Dobbiamo pubblicare di nuovo il giornale dell’Armata, dobbiamo raccontare storie meravigliose, storie che esaltino il sacrificio, il valore. Dobbiamo far sì che loro credano nella Vittoria. Dobbiamo dar loro speranza, orgoglio, desiderio di combattere. Abbiamo bisogno di dare degli esempi, ma esempi da seguire. A noi servono i nostri eroi”. Nello splendido film Il nemico alle porte, uscito nelle nostre sale ormai una ventina di anni fa, il regista Jean Jacques Annaud fa pronunciare questo memorabile monologo al Commissario del Popolo Danilov, magistralmente interpretato dall’attore inglese Joseph Fiennes, chiamato da Nikita Sergeevic Cruschev, futuro titolare del Cremlino che qui, con il volto di Bob Hoskins, veste i più modesti panni di portavoce dell’Uomo d’Acciaio Iosif Vissarionovic Dzugasvili, a dare conto della migliore strategia per sottrarre Stalingrado alla morsa dell’assedio da parte della Wehrmacht.

Una curiosità nota solo ai cinefili più incalliti è che, nel delineare la riuscitissima fisionomia del coprotagonista, lo sceneggiatore Alain Godard si è ispirato ad un personaggio in carne ed ossa, lo scrittore Vasilij Grossman (1905 – 1964) testimone diretto dell’uragano di ferro, fuoco e sangue che ha travolto la città sul Volga tra il luglio del 1942 ed il febbraio dell’anno successivo. Quando, all’alba del 22 giugno 1941, le divisioni corazzate tedesche oltrepassano il confine dell’Unione Sovietica dando inizio all’Operazione Barbarossa che in breve tempo le porterà ad occupare stabilmente ampie porzioni dell’Ucraina e della Bielorussia spingendosi fino alla periferia di Mosca, Vasilij Grossman si offre come volontario per essere mandato in prima linea ma, complice la grave miopia che lo affligge, la sua richiesta viene respinta. Ottiene allora di essere aggregato al seguito delle truppe come corrispondente della “Krasnaja Zvezda” (Stella Rossa), periodico ufficiale dell’esercito russo, incarico che gli consentirà di partecipare, nelle vesti di osservatore e cronista, alle principali battaglie lungo il fronte orientale e di passeggiare infine tra le macerie della Cancelleria nella capitale del Reich espugnata.

“Chi scrive – afferma nei diari redatti in quei giorni – “ha il dovere di raccontare una verità tremenda e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità”. Fedele in tutta evidenza ad un proponimento esistenziale prima ancora che letterario, del conflitto di cui è sismografo attento Grossman non nasconde nulla: la ferocia dei combattimenti, le privazioni, le violenze, lo strazio indicibile dei corpi mutilati ammassati negli ospedali da campo, il sacrificio dei sodati; in altre parole l’eroismo e l’infamia che sono, in egual misura, ordito e trama di un ciclopico affresco storico articolato in due romanzi, Vita e Destino e appunto Stalingrado.

Opera dalla gestazione editoriale quantomai complessa, la prima parte della dilogia, uscita in Svizzera nel 1980 nel catalogo della casa editrice L’Age d’Homme dell’esule serbo Vladimir Dimitrijevic, sarà data alle stampe in Russia solo nel 1989, mentre Stalingrado, che vanta due diverse edizioni in lingua russa pubblicate con l’Autore ancora in vita (nel 1952 a puntate sulla rivista “Novij Mir”, quindi in volume nel 1954), approda oggi sugli scaffali delle nostre librerie grazie ad Adelphi, nella sontuosa traduzione della slavista Claudia Zonghetti, che ci ha già fatto dono a suo tempo della versione italiana di Vita e Destino, apparsa nel 2008 presso il medesimo editore. Nel presentare Stalingrado al pubblico di casa nostra, spesso e volentieri digiuno di letteratura russa, la critica paludata si è profusa senza riserve, secondo un cliché ormai consolidato e tornato in auge in questi tempi di contrapposizioni manichee, nello sforzo di dipingere il romanzo come un atto d’accusa nei confronti del totalitarismo. Approccio che, se da un lato non manca di una sua ragion d’essere, rischia tuttavia di travisare il portato ideologico dell’opera. E’ vero che Grossman relega i grandi protagonisti sullo sfondo, raccontandoci l’intreccio di innumerevoli esistenze minute che dalla Storia sono travolte, ma questa chiave di lettura, non risponde ad un afflato individualista o, peggio, banalmente umanitario. Si dimentica con troppa leggerezza che Vasilij Grossman è, prima di ogni altra cosa, uno scrittore sovietico, convinto in maniera indefettibile della giustezza della Causa per la quale il suo popolo è stato chiamato a combattere e lo sguardo che lui getta sugli eventi non tiene conto delle necessità dei singoli, in quanto questa sarebbe – per usare una frase tipica dell’epoca – un’imperdonabile debolezza borghese. Al contrario è corale perché, seguendo la lezione di Tolstoj, vuole farsi interprete dello sforzo di tutta la nazione.

Incredibile dictu, il suo essere ucraino e perfino la sua appartenenza alla comunità ebraica sono poste da Vasilij Grossman in secondo piano rispetto alle superiori istanze della comune patria sovietica minacciata dall’incombere del nemico. Patria sovietica le cui sorti sono considerate inscindibili da quelle della Russia, tanto che, nel linguaggio grossmaniano, l’una diventa sinonimo dell’altra. “Nei primi mesi di guerra – scrive – l’avrebbero pronunciata sempre con amarezza quella parola: eh, noi russi…i nostri usi russi…la fortuna di noi russi…il fatalismo russo. Impresse nel cuore di Novikov insieme al dolore della ritirata, all’amarezza e all’angoscia, quelle parole già diventavano parte del suo destino e della sua vita, si riempivano di linfa, tendevano fili verso il cuore e il cervello e aspettavano il giorno del trionfo per tramutarsi nel loro contrario positivo”. Russia, Ucraina e Unione Sovietica sono per Grossman una cosa sola. La dialettica tra individuo e potere, il confronto costante, ossessivo, sfibrante con quella Camera di Tortura a suo tempo evocata da Lidija Cukovskaja nei dialoghi con Anna Achmatova che è, come sappiamo, un motivo conduttore della letteratura russa a cavallo tra Ottocento e Novecento, non si traduce in Grossman in un disconoscimento dei fondamenti del Sistema all’interno del quale si trova a vivere ed operare: l’Idea è per definizione giusta e le storture, le inefficienze, gli errori anche tragici sono semmai da ascrivere al fattore umano, per sua natura imperfetto, o alle contingenze della Storia, che nell’urgenza del momento hanno reso inevitabili determinate scelte. La Rivoluzione d’Ottobre, evento cardine attraverso il quale la Russia ha fatto il proprio ingresso nella Modernità, non è mai messa in discussione dallo scrittore come elemento costitutivo del patrimonio storico del popolo e anzi, affidando all’anziano Michail Sidorovic Mostovskoj il compito di rievocare i concitati giorni dell’insurrezione, con “le montagne di neve e ghiaccio lungo le strade, il silenzio della morte e il suo boato, il cielo grigio squarciato dai proiettori di ricerca, le macchie rosa degli incendi notturni sui vetri delle finestre, gli ululati delle sirene, i sacchi di sabbia intorno al monumento a Pietro il Grande”, Grossman non può esimersi dal constatare che “la nuova Russia sovietica era balzata avanti di un secolo, mutando quello che per secoli era sembrato immutabile (…). Persino ora, nel momento più cupo della guerra, vedeva chiaramente che la potenza del regime sovietico era di molto superiore a quella della vecchia Russia, e capiva che i milioni di lavoratori che costituivano le fondamenta della nuova società traevano la propria forza dalla fiducia, dalla conoscenza e dall’amore per la Patria sovietica. Era certo che avrebbero vinto”. Chi tra i lettori si aspettasse di trovare in Grossman un fautore della Democrazia liberale d’impronta anglosassone, oltre a dimostrare di non aver colto l’essenza del russkij mir, rischierebbe di rimanere deluso.

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi, Milano 2022; pag. 884 € 28,00.

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