Il nome di Felice Trojani non dirà forse molto al grande pubblico odierno, che dimentica in fretta; ma esso è indissolubilmente legato a una delle pagine più altamente drammatiche delle nostre esplorazioni polari: quella della spedizione Nobile al Polo Nord del 1928.
Romano, classe 1897, ufficiale nella prima guerra mondiale, ingegnere civile, infine ingegnere aeronautico e costruttore di dirigibili, fu chiamato dal generale Umberto Nobile a far parte della spedizione del dirigibile «Italia». Dopo la caduta dell’aeronave, fu tra i superstiti, e condivise con il capo della spedizione l’angosciosa attesa dei soccorsi che, dopo una lunga e disperante stagione trascorsa sotto la «tenda rossa», giunsero infine, sotto forma di un rompighiaccio sovietico, quando già Nobile era stato trasportato in salvo da un aviatore svedese, circostanza che diede origine a lunghe ed amare polemiche dopo il suo ritorno in Patria.
Abbiamo già rievocato quella vicenda in un precedente articolo (La tenda rossa, recensione dell’omonimo film di Michail Konstantinovic Kalatozov del 1969); ne riportiamo qui i tratti essenziali, affinché il lettore possa farsi un’idea della particolare situazione nella quale vennero a trovarsi i superstiti, dopo che il dirigibile era stato trascinato a terra e poi si era risollevato, ormai fuori controllo, portando via con sé, verso la morte, una parte dello sventurato equipaggio.
Esperto di questioni aeronautiche ed esploratore polare egli stesso, Umberto Nobile nel 1926 si era unito ad Amundsen e ad Ellsworth a bordo del dirigibile «Norge», nella sua trasvolata artica.
Due anni dopo, nel 1928, egli volle ritentare l’impresa, a fini essenzialmente scientifici, col dirigibile «Italia», compiendo tre voli sulla calotta polare e portandosi al di sopra di regioni quasi inesplorate a nord della Russia, particolarmente sulla Severnaja Zemlja. Al ritorno dal terzo volo, durante il quale era stato sorvolato con successo il Polo Nord, l’aeronave, per ragioni che non sono mai state del tutto chiarite, ma assai probabilmente per il peso del ghiaccio formatosi su di essa, si abbatté sul ghiaccio nel corso di una furiosa tempesta.
Era il 24 maggio del 1928; e, mentre nove uomini venivano scaraventati a terra, con pochissimo materiale (fra cui la preziosa tenda), tosto il vento sollevò nuovamente il dirigibile, che si perdette all’orizzonte, con altri sei uomini a bordo. Né il mezzo né i suoi occupanti sarebbero mai più stati trovati; così come non venne mai ritrovato l’aereo con il quale Amundsen volle mettersi alla ricerca del suo vecchio amico e collaboratore.
A corto di viveri e con un apparecchio radio rice-trasmettitore che era stato gravemente danneggiato nella caduta, i nove uomini della «tenda rossa» attesero angosciati l’arrivo dei soccorsi, in condizioni sempre più proibitive, tanto che, alla fine, tre di essi – Zappi, Mariano e Malmgren – decisero di mettersi in cammino per cercare personalmente aiuto.
Male equipaggiati, con pochi viveri e una protezione insufficiente contro il freddo, il loro era un tentativo disperato, benché fossero quelli nelle migliori condizioni fisiche. Nobile li aveva sconsigliati di partire, ma non ritenne di poterglielo ordinare, vista l’incertezza della situazione: e, anche in questo caso, qualcuno potrebbe obiettare che un comandante, benché ferito, ha il dovere di assumersi la responsabilità di dare degli ordini, in base a ciò che ritiene più idoneo per assicurare la salvezza di tutti.
In seguito, Malmgren sarebbe morto di fatica; e nemmeno gli altri due ce l’avrebbero fatta a raggiungere le Svalbard, se non fossero stati soccorsi dai Sovietici quando le loro condizioni – con Mariano semicongelato – erano ormai chiaramente disperate.
Intanto, le ricerche continuavano da parte delle forze aeree e navali di vari Paesi.
L’idrovolante «Latham-47» con a bordo Amundsen, decollato da Tromsö il 18 giugno, non fece più ritorno alla base, perdendosi nel Mare di Barents.
Il 22 giugno due idrovolanti italiani, guidati dagli aviatori Maddalena e Penzo, avvistarono la «tenda rossa» e scaricarono numerosi viveri e materiali ai loro compagni sul ghiaccio; ma, sul momento, non poterono fare altro.
Poi, finalmente – come si è detto -, la sera del 23 giugno, il pilota svedese Lundborg avvistò la «tenda rossa», atterrò con notevole abilità e con rischio personale; e, assicurando che presto anche gli altri sarebbero stati tratti in salvo, insistette perché sull’unico posto disponibile salisse il generale Nobile, che, oltretutto, era seriamente ferito.
Quest’ultimo declinò l’offerta e gli chiese di prendere a bordo Cecioni, che aveva una gamba spezzata in due punti; ma lo Svedese replicò che quegli era troppo pesante e che non avrebbe preso con sé nessun altri che l’ammiraglio, l’unico che avrebbe potuto efficacemente dirigere le operazioni di soccorso, una volta giunto in salvo. Nobile non era persuaso; ma sia lo stesso Cecioni, sia Trojani lo invitarono ad accettare l’offerta di Lundborg; e così, sia pure a malincuore, egli finì per decidersi, e salì a bordo con l’inseparabile cagnetta Titina.
L’aereo dello svedese rientrò alla base, nella Baia del Re (Isole Svalbard); ma, poi, le cose non andarono come previsto.
Nonostante la gara di solidarietà accesasi fra le varie potenze, e nonostante il governo italiano avesse inviato in soccorso la nave «Città di Milano», appositamente attrezzata, al comando del capitano di fregata Romagna, l’accampamento dei superstiti fu di nuovo perso di vista, e le avverse condizioni atmosferiche costrinsero i soccorritori a sospendere i voli di ricognizione. Quando essi furono ripresi, la deriva dei ghiacci sui cui era stata allestita la «tenda rossa» aveva reso di nuovo imprecisabile il luogo ove avrebbero dovuto concentrarsi le ricerche.
Lo stesso Lundborg, tornato alla «tenda rossa», ebbe un incidente al suo idrovolante e rimase prigioniero dei ghiacci, con gli Italiani; sarebbe stato poi salvato da un aereo dei suoi compatrioti che, però, non poté prendere a bordo nessun altro.
Solo molto più tardi il rompighiaccio sovietico «Krassin» riuscì a individuare e prendere a bordo sia Zappi e Mariano (quest’ultimo con un piede congelato che, più tardi, dovete essergli amputato), sia gli altri, rimasti in attesa nella tenda. Il salvataggio di questi ultimi avvenne il 12 luglio, dopo che il viaggio del «Krassin» era stato messo più volte in serie difficoltà dalle condizioni sempre più minacciose della banchisa artica.
Il ritorno dei superstiti in Italia fu accompagnato da roventi polemiche circa il comportamento del comandante della spedizione, che portarono all’istituzione di una commissione d’inchiesta. Nonostante fosse stato difeso da esperti sia italiani che stranieri, Nobile si vide costretto a rassegnare le dimissioni dall’Aeronautica, in seguito alla conclusioni a lui sfavorevoli formulate dalla commissione stessa (1929).
Questa, per sommi capi, la vicenda.
Come si vede, dopo la caduta dell’«Italia» sul pack, due furono i momenti più drammatici, dal punto di vista psicologico e umano, che i superstiti della «tenda rossa» dovettero affrontare: prima, quando tre di essi chiesero e ottennero di separarsi dagli altri e di avviarsi a piedi in cerca dei soccorsi, cosa che spezzò la solidarietà all’interno del gruppo; poi, quando lo stesso ammiraglio fu messo davanti alla difficile decisione se accettare o meno la perentoria offerta dell’aviatore Lundborg, mettendosi in salvo per primo, cosa contraria alle tradizioni dell’onore militare.
Felice Trojani ha scritto due libri sulla vicenda del dirigibile «Italia»: uno, La coda di Minosse, dettagliato resoconto storico che ricostruisce l’avventura della spedizione Nobile in tutti i più minuti particolari; l’altro, L’ultimo volo, che racconta in maniera divulgativa, rivolgendosi prevalentemente a un pubblico giovanile, la medesima vicenda.
Da quest’ultimo abbiamo deciso di riportare le pagine in cui l’Autore rievoca come maturò e come giunse a compimento la sofferta e controversa decisione di Mariano, Zappi e Malmgren di allontanarsi dalla «tenda rossa» per mettersi in cammino sul pack, nella remota speranza di giungere alle isole Svalbard e cercarvi aiuto presso qualche cacciatore o farsi rintracciare dalla nave «Città di Milano», centro propulsore della macchina dei soccorsi.
Dal libro di Felice Trojani, L’ultimo volo (Milano, Ugo Mursia & C. Editori, 1967, pp. 97-122, passim):
«28 Maggio. […] Mariano si rivolge a Malmgren:
– La deriva ci sta allontanando dalla zona nella quale la “Città di Milano” ci ricercherà. Non ha senso stare fermi ad aspettare gli eventi, dobbiamo levare l’accampamento e dirigerci verso la costa.
– Tutti? Trasportando i feriti? Impossibile, – ribatte Malmgren; – una marcia simile possono affrontarla solo i più validi del gruppo, e senza impedimenti.
E i due sviluppano l’argomento in un dialogo che pare concertato. Nobile li ascolta con molta calma.
Dopo il pasto usciamo dalla tenda. Mariano e Zappi rimangono a parlare con Nobile (che poi ci riferì il colloquio); naturalmente, resta anche Cecioni.
– Nella radio non si può avere più speranza, – disse Zappi.
– La deriva ci sta portando sempre più lontano dalla zona nella quale la “Città di Milano” ci cercherà, – incalzò Mariano.
– È presto per affermare che i nostri appelli non verranno raccolti, – rispose Nobile.- e la deriva può cambiare direzione. Ma lei, cosa proporrebbe?
– Di metterci in marcia noi due insieme con Malmgren e Viglieri. Andremo verso le squadre di soccorso; raggiuntele daremo la posizione della tenda perché vengano in vostro aiuto.
– Sarebbe una decisione grave, e mi sembra affrettata, – dichiarò Nobile. – A ogni modo, prima di prenderla, bisogna sentire anche gli altri.
– Siamo venuti insieme, dobbiamo andar via insieme, – prese a implorare, con grande agitazione, Cecioni.
Reazione, la sua, più che giustificata: era logico pensare, infatti, che se i naufraghi avessero cominciato ad ammettere l’idea della marcia, avrebbero finito per abbandonarlo sul ghiaccio con la sua gamba rotta in due punti e con Nobile che non stava meglio di lui; prospettiva, moralmente e materialmente, niente affatto piacevole.
A me quella proposta dispiacque, ma non mi sorprese. Che la solidarietà nata fra i superstiti dopo la caduta, finisse così presto, era la logica conseguenza della composizione eterogenea dell’equipaggio. Eravamo di diverse provenienze: aeronautica, marina, università, giornali; eravamo italiani e stranieri; la correttezza dei nostri rapporti, la cortesia reciproca, erano dovute alla vernice di educazione più o meno consistente che ci copriva, non erano effetto di conoscenza e stima reciproche: fuori dei nostri gruppi eravamo estranei gli uni agli altri. Ora la vernice andava scostandosi, i sentimenti veri apparivano.
Sul pack eravamo rimasti in nove: due stranieri, tre di provenienza aeronautica (dei quali solo io incolume e valido), quattro appartenenti alla Regia Marina. E ora i due ufficiali più elevati in grado dopo Nobile, proponevano la scissione del gruppo, e la volevamo immediata!
Io consideravo ormai tutto finito. Era questione di qualche giorno ancora, e avremmo seguito la sorte di Pomella e dei nostri compagni scomparsi. La situazione era disperata, senza via di scampo; e, in fin de conti, perché il nostro destino avrebbe dovuto essere diverso da quello degli altri? […] 29 Maggio. […] Tutti volevano andarsene; la nostra solidarietà pareva finita. Malmgren per la sua pratica dell’Artide, i marinai per la loro prestanza fisica, si credevano i soli in grado di intraprendere la marcia. Ma non c’era da farsi illusioni: nessuno di noi diede brillanti prove, né coloro che partirono, né quelli che restarono.
Fra di noi chi pareva veramente inadatto alla marcia era il grasso Behounek che nonostante la giovane età (30 anni) pesava 108 chili (nudo). Aveva inoltre la vista difettosissima; ma, neppure a farlo apposta, fu quello che resistette meglio alla vita sui ghiacci!
In quanto a me, io pesavo 54 chili (nudo); era quindi difficile che il ghiaccio mi si sfondasse sotto. Ero un grande camminatore, ero stato soldato, allievo a Modena, ufficiale di fanteria; non ero mai svenuto durante le marce, neppure in quelle con lo zaino affardellato. Ammettevo a priori che i marinai potessero superarmi nel nuoto, ma non nella marcia; e se si fosse dovuta raggiungere la costa, gli altri non avrebbero avuto più probabilità di me di riuscirvi. E in proposito avevo le mie idee: bisognava caricarsi il meno possibile. Le tasche piene di “pemmican” e via: o la va o la spacca.
Ma non c’era da farsi illusioni. In realtà uno solo dei superstiti possedeva la forza e la capacità di traversare i ghiacci, arrivare alla terra, percorrerla, mettersi in salvo: Titina. Peccato che non fosse provvista di un intelletto adeguato.
Venne l’ora di coricarsi. Eravamo tutti, almeno apparentemente, calmi; tranne Cecioni, che non nascondeva la sua agitazione.
Dormivo, quando verso la mezzanotte fui svegliato dalla voce concitata di Zappi:
– C’è l’orso!
Uscimmo tutti dalla tenda e portammo fuori Nobile e Cecioni.
– Datemi la rivoltella – disse Malmgren. E mentre la caricava continuò:
– Gli sparerò io, ma non fate rumore; il minimo rumore lo farebbe fuggire.
Verso la mezzanotte il sole aveva vinto lo strato di nubi, e Nobile aveva svegliato Mariano e Zappi perché facessero il punto. I due erano usciti dalla tende e, a una trentina di metri di distanza, avevano visto l’orso che stava cercando di tirar fuori dalla neve un estintore.
L’orso era grande, giallastro. Aveva le zampe anteriori appoggiate su un blocco di ghiaccio, e ci osservava allungando il collo e dondolandosi.
Io avevo paura, il cuore mi batteva da spezzarmi il petto, e mi pareva che quella figura di un altro mondo fosse venuta a mettere la parola FINE alla nostra avventura. E veramente, se ci fosse venuto addosso, con quattro zampate avrebbe sistemato tutto e tutti: doveva pesare almeno 250 chili.
Le nostre armi erano la rivoltella, un coltellaccio, un’accetta, una lima, un pezzo di tubo, un chiodo. Io aprii il coltello a roncola (mio compagno inseparabile di tutti i voli) che a quel bestione avrebbe potuto fare, sì e no, un salasso.
Davanti alla tenda rimasero seduti Nobile e Cecioni: dietro la tenda, in piedi, stava Behounek. Nobile aveva Titina in braccio, e le teneva stretto il muso perché non abbaiasse.
Malmgren avanzava lentamente verso l’orso; Mariano, Zappi, Biagi, Viglieri, io, lo seguivamo con le nostre ridicole armi. A una quindicina di metri dalla bestia Malmgren si fermò, e puntò con calma e risolutezza appoggiandola all’avambraccio sinistro: la belva continuava a osservarci allungando il collo e dondolandosi.
Partì un colpo: l’orso emise un verso di dolore che parve uno starnuto, scosse la testa, agitò il muso, si voltò e scappò. Dopo una trentina di passi allargò le zampe, piombò giù, immobile.
Malmgren gli corse dietro, gli si avvicinò e gli tirò altri due colpi: ma l’orso era già morto.
Noi dalla paura passammo all’entusiasmo, e ci congratulammo con lo svedese, che rispose alle nostre feste dicendoci di spellare l’orso subito, prima che si congelasse. Poi se ne andò promettendoci un bollito.
Il bello è che il giorno avanti, parlando con Nobile, Malmgren aveva affermato che con quella rivoltella sarebbe stato impossibile ammazzare un orso! E ora invece, grazie proprio a lui e a quella rivoltella, le nostre riserve di viveri erano raddoppiate: 200 chili di carne! Lo spettro della fame veniva allontanato: non più 45 giorni di vita, ma quasi 90! […] 30 Maggio. […] Intanto l’orso approntato da Malmgren bolliva, e presto fu cotto. Avemmo così il primo brodo e il primo lesso.
Il brodo si sentiva che era nutriente, ma non era buono: denso pieno di schiuma, quasi nero, dolce perché non avevamo sale. La carne era mezza cruda, coriacea, ma si capiva che, cucinata meglio, sarebbe stata ottima.
In complesso, nonostante il rispetto dovuto alle inveterate abitudini degli esploratori polari, per i quali (almeno a leggere le relazioni dei viaggi) brodo e lesso d’orso costituiscono l’ordinario, non rimanemmo soddisfatti: bisognava consumare meno combustibile e ottenere una vivanda migliore.
Alla fine del pasto, Nobile disse a Mariano che desiderava parlargli (certamente per convincerlo a rimanere). Mariano uscì dalla tenda, e da quel momento evitò di trovarsi solo con il Generale; anzi, stando all’esterno, disse a Zappi, ad alta voce perché Nobile sentisse:
– No. Dobbiamo andar via noi due che siamo molto affiatati.
(Mariano e Zappi erano stati compagni di corso all’Accademia Navale, erano molto amici).
Nobile ci chiamò sotto la tenda:
– È deciso: Mariano, Zappi, Malmgren partono. Potete procedere alla divisione dei viveri, degli indumenti di riserva, degli strumenti, degli attrezzi.
Uscimmo lasciandolo solo con Malmgren. Le dichiarazioni che lo svedese gli fece, furono improntate al più nero pessimismo: ambedue i gruppi, quello che partiva e quello che restava, sarebbero periti. […] Mentre Viglieri stava procedendo con Zappi alla divisione dei materiali e dei viveri, in Biagi cresceva il desiderio di partire: a restare si sentiva sacrificato.
In verità Zappi rinunciava malvolentieri a lui, e gli aveva proposto di accompagnarli, e io avevo sentito che diceva parlandone con Mariano:
– Un ragazzo robusto come lui farebbe comodo.
Per me, io ero convinti che tutto fosse ormai finito, e non mi interessava chi partiva e chi restava: che andassero pure tutti; la nostra sorte era comune e sarebbe stata suggellata a breve scadenza. Avevo preteso la rivoltella unicamente perché non avevo nessuna voglia di finire mangiato vivo da un orso.
A Biagi che mi aprì il suo animo, risposi:
– Se ne vada.. Anche lei ha diritto di tentare di salvarsi. Qui che ci sta a fare?
Alla fine si decise. Entrò nella tenda, si sedete vicino a Nobile, e dichiarò:
Anch’io sono buono a camminare.
Dinanzi a quella dichiarazione inaspettata, Nobile rimase meravigliato e si inquietò; ma poi si contenne e gli rispose con calma che, se voleva andare, andasse.
Biagi uscì dalla tenda e informò Mariano e Zappi che sarebbe andato via con loro. Viglieri, quando lo seppe, entrò nella tenda e dichiarò calmamente a Nobile:
– Ma allora desidero andare anch’io.»
Frattanto Behounek, che aveva assistito al colloquio fra Nobile e Biagi e ne aveva afferrato il senso, era andato a informare Malmgren.
Nobile, sentita la dichiarazione di Viglieri, chiamò anche Malmgren, Mariano, Zappi:
– Lascio tutti liberi di partire.
– Ma i feriti non possono rimanere soli, – obiettò Mariano. Zappi si associò..
– Non vi preoccupate dei feriti. Ci lascerete la nostra parte di viveri; a Cecioni penserò io.
Io ero fuori della tenda, Nobile mi chiamò. Entrai, e quando fui entrato disse:
– Ho deciso di lasciare tutti liberi di andarsene. Chi vuole andare, vada; e chi vuole rimanere rimanga. Vi interrogherò uno per uno cominciando da Trojani. Lei rimane o va?
– Rimango.
– Anche se vanno via tutti?
– Anche se vanno via tutti.
– Bravo! Un ti ci facevo! – esclamò Cecioni.
– Io rimango con il Generale – disse Behounek.
– Rimango anch’io, – dichiarò Viglieri.
– Mariano, Zappi, Biagi andarono a prepararsi.
Malmgren prese a parlare:
– Bene! Biagi è l’unica vostra speranza [perché era il marconista, n. b.]; se loro se ne vanno, io rimango. Non tornerò in Svezia per dichiarare che ho abbandonato senza aiuto il capo della spedizione e un altro ferito: sarebbe indegno di un gentiluomo.
E uscì dalla tenda.
Fuori dovette aver luogo un chiarimento, perché poco dopo apparve Biagi. Aveva le lacrime agli occhi.
– Rimango anch’io. Signor Generale mi perdoni; è stato un momento di debolezza.
E così venne deciso che sarebbero partiti solo i tre. Viglieri e Zappi completarono, senza contrasti, la divisione dei viveri, indumenti, attrezzi.
– Signor Generale, – chiese Mariano – vuole affidarmi un rapporto scritto su quanto è accaduto?
– No, non ne vale la pena. Riferisca verbalmente.
– Vuole scrivere una lettera per la sua famiglia?
– Questo sì.
E tutti quelli che rimanevano si misero a scrivere.
Io non sapevo se scrivere o no. Non credevo che i tre avrebbero raggiunto la salvezza, ma pensai che loro vi si avvicinavano mentre noi ce ne allontanavamo [per via della deriva del pack, n. b.], e che loro avrebbero avuto più possibilità di essere pescati da qualcuno. Avevo in tasca 3.000 lire e decisi di affidargliele nell’incerta speranza che arrivassero a mia moglie: avrebbero fatto più comodo a lei che a me.
Quanto a scrivere un testamento piagnucoloso o le cosiddette ultime volontà, era fuori del mio temperamento: non avevo mai imposto, da vivo, la mia volontà a nessuno, figuriamoci se avrei voluto imporla da morto!
Scrissi semplicemente ciò che in quel momento era il mio unico, il mio ardente desiderio:
“State allegri, siate felici”.
Poi involsi in un foglio e legai biglietto e denaro, e passai la penna a Nobile che, dopo aver messo i suoi saluti sull’esterno del mio involto, scrisse sette paginette alla moglie.
Viglieri, Biagi, Behounek, Cecioni, scrivevano e piangevano.
Consegnammo i messaggi. Behounek che aveva una cieca fiducia nelle qualità artiche di Malmgren gli affidò le sue lettere, a me pareva che il più duro dei tre fosse Zappi, e gli consegnai il mio pacchetto.
Si avvicina il momento del distacco, e i tre oscillano fra pessimismo e ottimismo, ma è evidente che sono convinti di marciare verso la salvezza.
Malmgren ha un lungo colloquio con Nobile, e non è più tanto pessimista quanto lo era stato poche ore prima. Crede al successo della marcia, crede alla possibilità di tornare a soccorrerci. Dà a Nobile una quantità di istruzioni e di consigli, e l’ultimo consiglio che gli dà è il più importante:
– Resistete, resistete fino alla fine. Molte spedizioni sono state salvate all’ultimo momento.
Zappi, sperando forse che l’incoraggi, mi chiede cosa penso della loro impresa; io non glielo nascondo:
– La nostra è un’agonia statica, la vostra sarà un’agonia dinamica. La differenza è poca, il risultato sarà lo stesso. […] Fu così che i tre se ne andarono. Con quale animo partissero è impossibile dirlo: ciò che avevano in mente lo sapevano solo loro.
Non c’è dubbio che sarebbero stati contentissimi di tornare in veste di salvatori, ma a me parvero anche (Zappi più degli altri) agitati dall’istinto di conservazione. Il più in buona fede mi era sembrato Malmgren, ma anche lui agiva confusamente: partiva per salvarci, e contemporaneamente dichiarava che unica nostra speranza era la radio. Certamente lui solo si rendeva conto delle difficoltà della marcia; gli altri due l’avevano affrontata con disinvoltura, pensando di cavarsela in un paio di settimane.
La quasi totalità dei rimasti era convinta che partire volesse dire salvarsi; rimanere morire. Che la salvezza dei tre avrebbe generato automaticamente la nostra, era un assurdo: noi, se la radio non fosse stata sentita, avremmo potuto essere ritrovati solo per caso, come dimostrarono i fatti che seguirono.
A ogni modo, partiti i tre, cessò l’agitazione provocata dalla loro iniziativa, e respirammo, nonostante che la nostra situazione fosse disperata. Disperata più di prima, perché ci venivano a mancare due ufficiali validi, esperti nel fare il punto, e perché non era più con noi lo svedese, unico membro della spedizione pratico dell’Artide.
I quattro rimasti con i feriti erano restati di loro volontà, e sapevano cosa li aspettava: la morte a breve scadenza, con un filo assurdo di speranza: la radio.
Cosa ci fosse veramente nell’animo dei miei compagni non lo sapevo, ma Nobile mostrava una serenità e una calma ammirevoli, il suo contegno era perfetto. Conservando, almeno in apparenza, una fiducia incrollabile nella radio, dispose che le chiamate fossero continuate regolarmente agli orari prefissati, e asseriva:
– Prima o poi, qualcuno ci sentirà.
Ci esortava a essere sereni, ad aver fiducia in Dio, a credere nell’efficacia della preghiera.
– Milioni di persone stanno pregando per noi, e tante preghiere non possono restare senza effetto.
Cecioni era ancora disperato, non poteva persuadersi di dover morire, piangeva; ma almeno non era più terrorizzato dall’idea di venire abbandonato solo con Nobile.
Viglieri era un bravo ragazzo: buono, educato, sarebbe stato impossibile non volergli bene. Gentile, calmo, sereno, era nei rapporti con noialtri sempre cortese, e assolveva al suo compito di fare il punto con sicurezza e perfetta padronanza del mestiere.
Behounek era per me un enigma. Con la vista assai difettosa, pesante, inetto a qualsiasi lavoro fisico, incapace di fare dieci passi senza sfondare il ghiaccio, trascurato nel vestire come un vero scienziato, già quasi a piedi nudi, cercava di compiere nel modo migliore le sue mansioni. Suo punto debole era la carne dell’orso: non gli piaceva, e quando cominciò a frollare gli divenne intollerabile. Ma non si lamentava: si faceva forza e mandava giù.
Dimostrava una grande serenità, una serenità tale da far dubitare che capisse la nostra situazione. Ma se non la capiva, come giustificare la decisione con la quale era intervenuto affinché uno degli ufficiali di marina restasse?
Biagi valeva un tesoro. Sereno, quasi allegro, trasmetteva e stava in ascolto alla radio giorno e notte senza scoraggiarsi, senza stancarsi. E se nei primi giorni potemmo dubitare delle sue qualità tecniche, alla fine capimmo quanto grande fosse la sua capacità professionale.
Premuroso e pronto, non si rifiutava a nessun servizio. Era quasi sempre lui che accudiva ai feriti, che vuotava la cassetta di legno e l’involucro di un grosso thermos che Nobile e Cecioni, non potendo muoversi, erano costretti a usare per le loro necessità.
Di Titina, povera bestiola, non si poteva proprio dir male. Era affettuosa con tutti, non dava noia a nessuno, si accontentava degli scarti dell’orso.
In quanto a me, io non sapevo cosa fare, non sapevo cosa pensare. Non ero pentito di essere rimasto, ma temevo di non reggere.
Una distesa di ghiacci che non finiva mai, e su di essa un cielo plumbeo o un sole sfolgorante. E quella distesa che pareva immobile andava, andava e ci trascinava non sapevamo dove. E una luce continua, accecante, senza un filo d’ombra, senza il refrigerio di una notte vera.
Ancora un’ottantina di giorni, e i viveri sarebbero finiti. E dove ci saremmo trovati? In una regione ancor più desolata? In mare libero?
Avremmo potuto forse uccidere un altro orso e aumentare le nostre riserve. Ma ne valeva la pena? A che cosa sarebbe servito? Sarebbe venuta la notte polare, con la notte il freddo, e il freddo ci avrebbe ammazzati come mosche.
La morte avanzava lenta, inesorabile: pareva di vederla, pareva di toccarla. Pareva di essere già in un altro mondo. Del nostro sentivamo e sapevamo tutto; ma il nostro mondo non ci sentiva e, forse, non ci ascoltava più.
La morte non mi metteva paura. Pensavo che la morte per fame, in quel deserto, sarebbe stata una morte placida. Quella che era tremenda, era l’attesa. Che fare?
I proponimenti più disperati mi si affollavano alla mente, ma, uno a uno, li respingevo.
Pensavo ai mie compagni perduti, pensavo alla mia famiglia, e provavo un grande struggimento.
Ma, in fin dei conti, perché impressionarsi? Prima o dopo dovevo pur morire e vivere ottanta giorni o vivere ancora quarant’anni era la stessa cosa.
Così, gradualmente, vinsi la lotta interna, cominciò a entrare in me la rassegnazione, e mi rassegnai.
Decisi di essere sereno, di essere tranquillo, di essere calmo. Di resistere fino all’ultimo, di aiutare i miei compagni fino all’ultimo. Di non ammainare la mia bandiera, di non macchiare la mia cravatta.
Rinuncia a ogni desiderio, a ogni rimpianto, e una grande serenità entrò nel mio animo. I giorni che seguirono furono i più belli della mia vita.
Solo due cose mi turbavano perché minacciavano di togliermi dallo stato di rassegnazione così penosamente raggiunto: i “gne gne” dell’emittente che lanciava i suoi inutili appelli, e i pianti e i lamenti di Cecioni. La trasmittente l’avrei presa a calci, l’avrei distrutta. A Cecioni dicevo:
– Perché piangi? Perché ti dispiace morire? Credi di valere tanto? Pensi che con la tua morte la terra cesserà di girare? Sta’ tranquillo, che il mondo non finirà per così poco.
Ma lui non gustava quel mio modo di consolarlo.
I miei compagni mi videro sempre con gli occhi asciutti, ma non è vero che io non abbia pianto mai.
Quando ero di guardia la notte e mi trovavo solo, pensavo a mia moglie e al mio bambino e piangevo. Piangevo di tenerezza».
Non si può dire che Trojani possieda delle vere qualità di scrittore, però il suo stile asciutto e vigoroso ha un certo fascino, tipico dell’uomo d’azione che deve impugnare la penna per raccontare una grande esperienza vissuta ai confini della morte.
Le pagine che abbiamo scelto sono notevoli per lo sforzo di verità psicologica che le pervade: è come se l’Autore, giunto a guardare in faccia la fine, getti ogni ipocrisia dietro le spalle e scavi nell’animo suo e dei suoi compagni, per riconoscervi i sentimenti più intimi: disperazione, angoscia, smarrimento, speranza, ostinato spirito di conservazione.
Lucida e obiettiva è l’analisi dei motivi che hanno portato all’incrinarsi, e, infine, al dissolversi dello spirito di solidarietà all’interno del gruppo eterogeneo dei naufraghi, così come la capacità di leggerne le motivazioni più profonde come in filigrana, attraverso le cose dichiarate ai compagni e, forse, sinceramente credute, ma non sempre altrettanto sentite.
I tre che decidono di partire lo fanno sostanzialmente spinti dall’istinto di sopravvivere: Mariano e Zappi dicono di voler cercare soccorsi, ma desiderano salvare se stessi, convinti come sono che rimanere nella «tenda rossa» equivalga a un suicidio. Malmgren appare come il più idealista: lui, il più esperto dell’Artide, finisce per convincersi che la loro marcia può recare la salvezza anche agli altri; e, comunque, è sempre stato persuaso che, senza di lui, gli altri non ce la farebbero. È quindi il senso del dovere che lo sprona, più che lo spirito di conservazione.
Viglieri e Biagi sono due figure un po’ sbiadite, anche se volonterose; hanno un momento di debolezza quando accarezzano l’idea di partire anch’essi, ma poi ci ripensano e restano coi compagni ferirti. Biagi, specialmente, appare come il compagno ideale con cui condividere una situazione così altamente drammatica, quasi disperata.
I due feriti sopportano la sventura in modo molto diverso. Cecioni, grosso e pesante, è una figura patetica: il terrore di essere abbandonato lo domina e lo rende lamentoso; poi, anche dopo la partenza del terzetto, non fa che piagnucolare sulla propria sorte. Le rudi parole con cui Trojani lo affronta, forse per scuoterlo mediante l’ironia, ricordano quelle di Achille al supplicante Licaone: «Perché ci tieni tanto a vivere? Altri, migliori di te, sono morti: tutti dobbiamo morire; ti credi forse più degno di vivere?».
Nobile, invece, appare sereno e dignitoso, grande anche nella sciagura; si vede che l’Autore ha un’autentica venerazione per lui. La sua decisione di lasciare tutti liberi di decidere se partire o se rimanere appare stoica e generosa al tempo stesso. Ci si può domandare, peraltro, se tale democraticismo sia quello che ci si aspetterebbe da un capo nel momento del pericolo e delle supreme decisioni. Non avrebbe egli forse il compito di imporre la propria volontà, una volta che abbia valutato la giusta condotta da tenere per la salvezza di tutti? Nobile, tuttavia, è ferito e non può camminare; forse quella sua condizione lo fa sentire a disagio nel ruolo di capo: forse teme che, se impedisse agli altri di partire, essi potrebbero giudicare la sua decisione come dettata da motivi egoistici, dal timore di restare solo con il povero Cecioni, ad attendere – inerme – la morte sul ghiaccio.
È solo un’ipotesi. Ma il carattere amletico di Nobile sarà confermato, di lì a non molto, dal suo contegno davanti al pilota svedese Lundborg: in quella circostanza, e sia pure con le migliori intenzioni e con l’approvazione dei compagni, egli, probabilmente, prenderà la decisione sbagliata: quella di partire da solo. Certo, con la speranza di tornare entro poco tempo per salvare tutti gli altri: ma un comandante non deve sperare, deve tenersi alla realtà. E la realtà è che, nelle situazioni di pericolo, un comandante non dovrebbe mai accettare di mettersi in salvo per primo, e sia pure sotto la pressione di circostanze esterne.
Le polemiche conseguenti a quella sua decisione gli avrebbero amareggiato il resto della vita e avrebbero condizionati anche la sua carriera professionale, nonché la sua vicenda umana. Anche se Nobile, in tutte le sue memorie, ha sempre ribadito di aver fatto la cosa giusta e allontanato con sdegno anche solo il sospetto che la sua decisione possa essere scaturita da motivazioni men che nobili e totalmente disinteressate, la ferita per quei sospetti, che lo accompagnarono sempre da allora in poi, non si è più rimarginata. La commissione governativa istituita all’uopo, del resto, gli diede torto; e chi può sapere se quella sentenza, da lui vissuta come una grave ingiustizia e come una macchia immeritata sul suo onore di militare, non abbia contribuito a spingerlo, nel dopoguerra, verso posizioni politiche apertamente comuniste?
Behounek, lo scienziato cecoslovacco, è forse quello il cui profilo appare più lineare, nelle pagine di Trojani: grasso, inadatto alle marce e al lavoro fisico, sopporta con ammirevole serenità la difficile situazione e si comporta con perfetto cameratismo, senza mai lamentarsi e senza mai disperare. Egli stesso ha scritto, in seguito, le proprie memorie; ci riserviamo di riparlarne in un’altra occasione, per confrontare i due punti di vista.
Infine, l’Autore stesso. Egli ci apre il suo cuore con estrema franchezza, ci confessa le sue debolezze e le sue lotte interiori, e ci appare come il più coerente e solidale del gruppo: avrebbe potuto unirsi a Mariano, Zappi e Malmgren, perché in buone condizioni fisiche e sperimentato ufficiale in guerra, ma vi rinuncia senza un solo pentimento. Ammira il generale Nobile e vuole restargli vicino; inoltre, giudica indegno abbandonare i compagni feriti. Quanto alle possibilità di salvezza, dice di non essersi mai fatto illusioni, e di aver ribadito a Zappi che andare o restare era la stessa cosa, poiché, tanto, sarebbero morti comunque.
Poi, però, ci racconta di aver scritto alla famiglia e di aver consegnato la lettera a Zappi, che, sembrandogli il più duro, gli dava l’idea di potercela fare. Non è questa una contraddizione? Affidare una lettera e una cospicua somma di denaro allo stesso uomo che ritiene destinato alla morte, e sul quale insinua il sospetto di una motivazione egoistica, sia pure ammantata di buone intenzioni e di belle parole. Ecco, questo è un punto che non convince, e che – bisogna proprio dirlo? – spiace un poco al lettore, perché getta un’ombra sul conclamato sforzo di obiettività da parte del Narratore.
D’altra parte, il fascino di quella vicenda, dal punto di vista psicologico e morale, sta proprio in questa ambiguità di fondo, in questa impossibilità di separare nettamente, con un tratto di penna, le motivazioni altruistiche da quelle egoistiche. Ne abbiamo già discusso nella recensione del film di Michail K. Kalatozov, per cui non insisteremo oltre su questo aspetto.
Pirandello e altri scrittori, tra i quali il giapponese Akutagawa (dalla cui opera è tratto il celebre Rashomon di Akira Kurosawa) ci mettono in guardia circa il problema della molteplicità dei punti di vista e della indecidibilità della verità, anzi, dell’assunzione di un qualsiasi criterio di verità, specialmente quando le nostre uniche fonti sono dirette parti in causa in una determinata vicenda, e non osservatori esterni e spassionati.
Difficile dire, pertanto, fino a che punto la pretesa di Trojani di porsi come narratore obiettivo e attendibile possa venire accolta, anche se la sua buona fede è fuori discussione. Del resto, questo è un problema inestricabilmente connesso a qualsiasi tipo di memorialistica, e specialmente alla memorialistica storica. Chi potrebbe prendere interamente per buona la versione della guerra gallica fornitaci da Giulio Cesare, e chi potrebbe usare il Memoriale di Sant’Elena quale unica fonte per la vicenda napoleonica?
Sia come sia, il funereo pessimismo di Trojani risulterà eccessivo, dopo tutto; perché tanto gli uomini rimasti sotto la «tenda rossa», quanto Zappi e Mariano (ma non il povero Malmgren, che sarebbe morto di fatica e di stenti) verranno salvati, alla fine, e sia pure attraverso lunghe, complesse e, in parte almeno, penose vicende, accompagnate anche da furiose e impietose polemiche sia in Italia, sia all’estero; e senza dimenticare che le operazioni di soccorso sarebbero costate la vita ad uno dei più grandi esploratori polari di tutti i tempi: Roald Amundsen, una leggenda vivente, colui che aveva conquistato per primo il Polo Sud.
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Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
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