La crociera della nave corsara Atlantis

L’incrociatore ausiliario Atlantis fu una delle più celebri navi corsare tedesche della seconda guerra mondiale e, fino al momento dell’affondamento, probabilmente la più fortunata.

La crociera da essa iniziata l’11 marzo 1940 durò ben 622 giorni e coprì una distanza di 112.000 miglia su tutti e tre gli oceani del globo; fu, pertanto, la più lunga fra tutte quelle delle sue consorelle. Riuscì a catturare complessivamente 22 navi mercantili alleate, per una stazza complessiva di 146.000 tonnellate, affondandole per la maggior parte, ma utilizzandone alcune per trasferirvi gli equipaggi presi prigionieri; e anche questo fu un primato.

Fra le sue prede ricordiamo la motonave norvegese Tiranna, silurata il giorno dell’entrata dell’Italia in guerra (10 giugno 1940); la Speybank, che divenne il posamine Doggerbank e che riuscì a forzare il blocco e a rientrare in Germania; e, ancora, il britannico City of Baghdad, il francese Commissaire Ramel, il sovietico Kim, il giapponese Kasii Maru, l’olandese Abbekerk ed il norvegese Tamesis.

L’Atlantis, conosciuta anche come HSK (Hilfskreuzer) 2, o Schiff 16, era in origine la nave da carico Gedenfels, della Hansa Line. Venne convertita in nave corsara fra il 1939 e il 1940, nei cantieri navali di Kiel e di Brema. Stazzava 7.900 tonnellate, era lunga 155 metri, larga 18 e pescava 8,7 metri. Poteva sviluppare una velocità di 16 nodi e godeva di un’autonomia di 60.000 miglia nautiche, viaggiando alla velocità di crociera di 10 nodi.

Come armamento principale disponeva di 6 cannoni da 150 mm., nascosti dietro false sovrastrutture ribaltabili, e possedeva inoltre quattro tubi lancia-siluri. Era dotata anche di un idrovolante per la ricognizione e l’avvistamento delle navi nemiche. L’equipaggio era formato da 366 uomini, dei quali 19 ufficiali e 347 marinai.

La comandava il capitano di fregata Bernhard Rogge, particolarmente esperto di navi a vela, uomo abile e deciso, che seppe condurre la guerra di corsa con il massimo di umanità possibile, date le circostanze. Benché la crociera dell’Atlantis non fu esente dal provocare vittime innocenti (particolarmente penosa fu la vicenda del piroscafo Zamzam, creduto inglese e, invece, appartenente al governo egiziano, che l’aveva adibito al trasporto di civili, il quale venne duramente cannoneggiato dalla nave corsara), bisogna riconoscere che, nel contesto di un conflitto spietato come fu la seconda guerra mondiale, il suo comandante fece quanto era in suo potere per diminuire le sofferenze inutili e i disagi dei prigionieri.

La maggior parte di questi gliene diede atto e volle testimoniargli, anche dopo la fine della guerra, la propria stima e riconoscenza per come si era condotto nei loro confronti.

Erano stati tempi duri: a Dresda, nel 1945, gli Inglesi rovesciarono sulla città migliaia e migliaia di bombe al fosforo liquido, al preciso scopo di bruciare viva la popolazione civile di una città indifesa e strategicamente non importante; affollata, per di più, da un gran numero di profughi delle province orientali tedesche, fuggiti davanti all’avanzata dell’Armata Rossa.

Rogge era consapevole della brutalità della guerra, ma pensava, o forse si illudeva – come molti altri uomini di mare, dell’una e dell’altra parte in lotta – che fosse ancora possibile, nonostante tutto, condurre la guerra con metodi relativamente civili, rispettando almeno i principi più elementari di umanità.

Il suo grande modello, fin da quando era ragazzo, era il capitano von Müller, che aveva comandato l’incrociatore leggero Emden nella prima guerra mondiale, conducendo cavallerescamente la guerra di corsa nell’Oceano Indiano (cfr. il nostro articolo La crociera dell’incrociatore Emden e la battaglia delle isole Cocos, 9 novembre 1914).

Nella Nota Introduttiva al libro di memorie di uno dei suoi ufficiali, Ulrich Mohr, il comandante Rogge, divenuto frattanto ammiraglio della Marina tedesca, scriveva ad Amburgo, nel 1955:

La seconda guerra mondiale non concesse un attimo di respiro agli uomini che servivano il loro paese sul mare. Il blocco inglese fu continuo; e continui furono gli attacchi tedeschi al commercio nemico. Simile alla marea, la battaglia per il controllo delle rotte marittime poté avere alti e bassi, ma non si arrestò mai.

Alcuni dei nostri antichi avversari hanno avuto la cortesia di elogiarmi per aver tentato di combattere lealmente, conservando il più vivo rispetto per loro.

Per chi, come me, si arruolò nella marina imperiale tedesca a quindici anni e fu colpito a quell’età dalla nobile condotta del capitano Müller dell’Emden, e più tardi dagli insegnamenti del grande ammiraglio Raeder, non può fare a meno di riflettere con amarezza come nella nostra epoca il rispetto verso il nemico venga considerato come qualcosa di eccezionale

Ma la guerra è un padrone esigente, un padrone che non si stanca di imporre all’uomo impegni sempre più onerosi. Quanto più si allungava la serie dei successi ottenuti dai corsari germanici, tanto più l’ammiragliato inglese insisteva affinché le navi mercantili alle sue dipendenze segnalassero per radio la presenza e la posizione del nemico; e quanto più le istruzioni dell’ammiragliato venivano seguite, tanto minori divenivano per noi le possibilità di rispettare la nostra decisione originaria, la decisione cioè di attenerci ad una condotta cavalleresca.

Di conseguenza, andarono perdute vite umane che in tempi meno duri avrebbero potuto essere risparmiate. D’altra parte, una volta accettato il principio che si doveva contribuire con ogni mezzo allo sforzo bellico del proprio paese, è difficile dire se noi o i nostri avversari avremmo potuto comportarci diversamente da come ci comportammo.

Bisogna comunque riconoscere che, sotto altri aspetti, noi dell’Atlantis fummo più fortunati degli uomini che combattevano sui sommergibili e sugli aerei da bombardamento. Infatti, per la natura stessa della nostra guerra avevamo maggiori possibilità di vite umane quando avevamo terminato il nostro compito. E queste possibilità (sia detto ad onore del mio equipaggio) non furono mai trascurate, nemmeno quando comportavano un rischio notevole.

Queste parole gettano una luce significative sull’uomo Rogge, sulla sua sensibilità umana e sui principi ai quali cercò di attenersi nel corso della guerra di corsa condotta al comando della sua nave, l’Atlantis.

Anche se alcuni studiosi di cose militari hanno criticato la sua condotta nel capitolo conclusivo della sua crociera, quando venne fermato dall’incrociatore inglese Devonshire, lasciandosi colare a picco senza sparare nemmeno un colpo di cannone, bisogna ammettere che difficilmente le sue decisioni possono essere attribuite a pavidità o codardia. Il Devonshire, infatti, ebbe l’accortezza di mantenersi costantemente fuori tiro, mentre con i suoi cannoni di calibro superiore continuava a scaricare bordate micidiali contro l’avversario inerme. Se Rogge avesse accettato il combattimento, non sarebbe stato uno scontro fra due navi da guerra, e sia pure di diversa potenza, ma un puro e semplice massacro.

Salpato da Kiel l’11 marzo 1940 con la scorta del sommergibile U-37, l’Atlantis riuscì a forzare il blocco e a passare nell’Atlantico dove, come già aveva fatto la nave corsara Möwe nella prima guerra mondiale, evitò di tradire anzitempo la sua presenza, navigando senza attaccare alcun bastimento fin oltre la linea dell’Equatore.

Solo il 3 maggio, dopo quasi due mesi di prudente navigazione, e camuffato sotto le mentite spoglie del mercantile giapponese Kashii Maru, catturò la sua prima preda, l’inglese Scientist, sulla rotta del Capo di Buona Speranza. Da quel momento, ebbe inizio la sua straordinaria carriera di corsaro, che gli consentì di affondare o catturare oltre venti navi alleate di diversa nazionalità.

Il 22 ottobre fu la volta del piroscafo jugoslavo Durmitor, sul quale vennero trasbordati ben 300 prigionieri e che venne inviato, con un piccolo equipaggio da presa, verso la colonia della Somalia italiana, dove – al termine di una navigazione oltremodo penosa – finì per approdare non lungi dal porto di Mogadiscio.

Ecco come l’episodio è stato narrato da un testimone oculare, Libero Accini, nel suo libro La rotta della morte (riportato in M. Izzo, Pirati e corsari nel XX secolo, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1972, pp. 196-97):

«Una mattina vidi un bastimento, un vecchio bastimento di 5 o 600 tonnellate, andarsi ad arenare su una secca con un fracasso infernale. Saliti sul bastimento siamo assaliti da un tanfo che sale su dalla stiva, dove 100 o 150 uomini confusi con cadaveri, topi e pidocchi invocano aria e acqua. Volti di creature emaciate scheletrite, sudicie. I sopravvissuti parlano diverse lingue, provengono da diversi bastimenti. La scena è indescrivibile. A braccia portiamo fuori molti di essi e li trasportiamo a Merka dove sono stati curati e alimentati. Molti sono morti durante il trasferimento. I marinai tedeschi guardavano e tacevano».

Il testimone oculare [Libero Accini] affermò che quella nave corsara si chiamava Atlantis. La notizia era parzialmente vera. I prigionieri soccorsi dagli italiani erano solo una parte di quelli dell’Atlantis, mentre la nave finita sulle secche di fronte a Mogadiscio si chiamava Dormitor, catturata dall’Atlantis con il preciso intento di caricarla di prigionieri e di spedirla verso la Somalia italiana. Il viaggio fu inferno e la nave fu soprannominata ‘la nave del diavolo’. Il Dormitor finì su una secca con il suo carico di cadaveri e di uomini impazziti dalla sete e dagli stenti.

Senza dubbio questo quadro differisce di molto da quello che emerge dallo scambio di convenevoli fra il comandante Rogge e gli ex prigionieri della nave corsara, di cui si è fatto cenno più sopra. Anche di simili orrori fu fatta la guerra di corsa degli incrociatori ausiliari tedeschi, e non solo di gesta avventurose e di audaci imprese nautiche. Chissà se quei prigionieri del Dormitor, morti dopo lo sbarco a Mogadiscio nonostante le sollecite cure degli italiani, sono stati conteggiati nell’elenco ufficiale delle vittime della guerra.

Il fatto è che risulta praticamente impossibile fare la guerra senza sporcarsi le mani, e specialmente una guerra come il secondo conflitto mondiale. I civili vi erano coinvolti inevitabilmente, e il trattamento dei prigionieri era quello che le circostanze imponevano, non quello che i responsabili avrebbero voluto. Episodi come quello qui riportato costituiscono il rovescio della medaglia della guerra sul mare delle navi corsare, quello più sordido e niente affatto spettacolare. Il grande pubblico lo ignora, mentre ha presenti le scene più o meno romanzesche evocate da film come La battaglia dell’Atlantico o da libri come Atlantis di Ulrich Mohr.

L’Atlantis in navigazione

La verità è che, nella guerra sul mare così come in quella in terraferma, il comandante di una unità operativa, per quanto animato da sentimenti cavallereschi ispirati alla migliore tradizione militare, poteva cercare di limitare le sofferenze dei civili e dei prigionieri, tra i quali ultimi vi erano anche donne e bambini; non evitarle. E questo è tutto. Il resto, non è che retorica melodrammatica e cinematografica in pretto stile hollywoodiano.

Il campo di operazioni dell’Atlantis fu soprattutto l’Oceano Indiano; fu lì che realizzò i due terzi delle sue catture.

Nel corso della sua crociera ebbe anche un incontro in mare aperto con la nave da battaglia Admiral Scheer agli ordini del comandante Krancke. Poiché l’Atlantis portava con sé la petroliera Ketty Bröving, una delle sue ultime prede, la Scheer poté rifornirsi di nafta da essa, nel bel mezzo dell’Oceano Indiano.

Vi fu anche un incidente di manovra durante la sosta nelle remote Isole Kerguélen, che avrebbe potuto avere gravissime conseguenze. Nel corso del tentativo di portarsi in un ancoraggio ben nascosto, la nave si incagliò su una roccia e solo dopo molti e penosi sforzi riuscì a liberarsene. Aveva rischiato di rimanere imprigionata a tempo indeterminato e, magari, di essere sorpresa in quella drammatica situazione dal sopraggiungere di qualche unità da guerra nemica.

La fine dell’Atlantis fu drammatica, ma non eroica.

La nave corsara fu sorpresa dall’incrociatore inglese Devonshire mentre risaliva l’Atlantico per tentare di rientrare in Germania, proprio nel momento in cui era ferma per rifornire di combustibile un sommergibile tedesco, col quale aveva concordato un appuntamento.

Il sommergibile, l’U-126, si immerse precipitosamente, ma senza il suo capitano, che rimase bloccato sull’Atlantis: sfortunata circostanza, perché, se questi avesse fatto in tempo a riguadagnare il suo posto di comando, forse le cose sarebbero andate diversamente.

Così rievoca quell’ultima pagina della crociera della nave corsara il già citato Ulrich Mohr – uno dei principali collaboratori del comandante Rogge – nel suo libro di memorie Atlantis (steso in collaborazione con A. V. Sellwood; titolo originale: Atlantis, 1955; traduzione italiana di Gilberto Forti, Longanesi & C. Editori, Milano, pp. 261-271):

«Feindlicher Kreuzer in Sicht! Freindlicher Kreuzer in Sicht!».

A pochi secondi dal grido, risuonò la campana d’allarme. I sogni degli uomini fuori servizio furono brutalmente interrotti. La nave, fino a quel momento silenziosa, si rianimò di colpo. I cannonieri si avviarono ai posti di combattimento. L’Atlantis si preparava a chiudere la sua carriera.

«Feindlicher Kreuzer in Sicht! Freindlicher Kreuzer in Sicht!».

Attraverso i telefoni che collegavano i posti di vedetta al ponte di comando, il grido giunse dapprima come un concitato sussurro; poi, non appena le dita dell’uomo di guardia ebbero premuto i bottoni dell’allarme, si trasformò in una nota vibrante e angosciosa che penetrò in ogni angolo della nave.

Così venimmo a sapere che la fine dell’Atlantis era prossima: la fine che tutti sapevamo inevitabile, la fine che prima o poi doveva venire, sebbene ci sforzassimo, durante il nostro eterno vagare sull’oceano, di non pensare che ai problemi immediati, contenti di poter vivere giorno per giorno.

L’alba del 22 novembre 1941 si era presentata grigia, ma con visibilità quasi perfetta. Era la data fissata per il nostro incontro con l’U-126. Fermate le macchine, avevamo incominciato a rifornire il sommergibile perché potesse proseguire la sua missione. Tutto era tranquillo, quella mattina, sull’Atlantico meridionale: la stessa tranquillità che regna nelle vie della città prima che si muova il traffico; la stessa quiete, la stessa tristezza, la stessa luminosità dell’Unter den Linden in autunno, avanti che i primi passanti calpestino le foglie cadute a terra. Sbadigliando, ero salito sul ponte e mi ero guardato intorno.

L’U-126 galleggiava al nostri fianco, e il tubo della nafta pareva quasi un cordone ombelicale tra l’Atlantis, grande e grossa, e il sommergibile, sottile e nervoso, che si affidava a noi per ricevere una buona trasfusione di sangue.

Dalla cabina di Rogge giunse al mio orecchio un dialogo sommesso. Il comandante dell’U-Boot era salito a bordo, e i due ufficiali stavano evidentemente scambiandosi informazioni e facevano quattro chiacchiere con l’aiuto di un buon bicchiere di sherry (nessuno avrebbe mai pensato, ascoltandoli, che quei due uomini si facessero una spietata concorrenza sui mari di mezzo mondo) Da un’altra parte della nave si udiva l’eco di una canzone sentimentale. Era proprio una mattinata tranquilla, anche se faceva piuttosto freddo. Oppure ero solo io a che avevo freddo, dopo un sonno troppo breve e agitato? Per la decima volta, forse, avevo fatto un sogno che sembrava tormentarmi da quando avevamo lasciato gli atolli del Pacifico. Premonizione o subcosciente in stato d’angoscia? So soltanto che il sogno era sempre lo stesso: la visione di un incrociatore inglese a tre fumaioli che appariva improvvisamente a babordo. Il sogno era tutto qui. Possibile che non avessi mai la soddisfazione di sapere come andasse a finire?

L’ufficiale di guardia mi guardò con un sorriso. «Grazie a Dio, la paura di ieri è passata», disse riferendosi al panico e alla confusione che avevano accompagnato la perdita del nostro idrovolante. Dopo uno dei soliti giri d’osservazione, l’aereo aveva tentato l’ammaraggio, ma era stato tradito dal mare agitato ed era affondato. In una zona pericolosa come quella in cui si trovava l’Atlantis, era un gran guaio non poter disporre dell’osservazione aerea. Nessuna meraviglia, quindi, se Rogge appariva preoccupato: il comandante non ci aveva mai nascosto i suoi dubbi circa la pretesa «sicurezza» di quelle acque.

«Ormai non possiamo farci niente, amico. Comunque, sembra che tutto sia tornato perfettamente tranquillo», risposi. Una leggera brezza spirava sul ponte, occupato soltanto dai pochi uomini di servizio. Il mare, appena mosso, indossava la solita livrea grigia del mattino. Per alcuni istanti (non era certo la prima volta che mi capitava) dimenticai la guerra per abbandonarmi al godimento degli aspetti più piacevoli della vita sul mare. Era uno di quei rari momenti in cui era possibile apprezzare le «piccole cose che troppo spesso perdono il loro intimo valore nello scorrere monotono dell’esistenza. Il caffè mi sembrò eccellente, e perfino l’odore della nafta era quasi piacevole (a patto di non pensare all’U-Boot e alla sua missione).

A questo punto suonò l’allarme. «Feindlicher Kreuzer… Freindlicher Kreuzer in Sicht!».

Tutto si mise in moto immediatamente. In un attimo, il tubo della nafta venne ricuperato. Un altro attimo, e il comandante del sommergibile attraversò di corsa il ponte per raggiungere il suo posto. Ma per lui era già troppo tardi. Il giovane sostituto aveva reagito così fulmineamente all’allarme, che soltanto qualche bolla d’acqua e un po’ di schiuma segnavano adesso il punto in cui era stato l’U-Boot. Il comandante, abbandonato dalla sua unità sul ponte dell’Atlantis, diede libero sfogo alla sua collera. Non avevo mai visto una situazione più grottesca.

«Bastardi! Maledetti bastardi! Immergersi prima ancora di aver visto il nemico!». Ma c’era un altro nemico per l’U-126, un nemico molto più pericoloso dell’incrociatore: un idrovolante che, decollato dalla nave inglese, volava sopra le nostre teste e si abbassava ogni tanto per fotografarci e seguire ogni nostra mossa.

«Diamo un bel colpo a quel porco», gridò uno dei cannonieri. Ma Rogge scosse il capo. Sebbene l’aereo continuasse a girarci attorno con il suo petulante ronzio, simile ad una vespa terribilmente curiosa e pronta a pungerci con il suo veleno mortale, il nostro comandante diede ordine di non reagire in nessun modo.

Rogge ci chiamò immediatamente a rapporto, e anche questa volta riuscì a mascherare le proprie preoccupazioni. In breve, il suo piano non era altro che un disperato bluff. «Cercheremo di guadagnar tempo», disse. «Non c’è altro da fare. Tenteremo di farci passare per inglesi». Un’idea pazzesca? Non troppo. C’era sempre la possibilità che l’incrociatore, ingannato dal nostro bluff, si decidesse a venire più vicino per proseguire le sue indagini; e in questo caso noi avremmo potuto fare un tentativo con i nostri siluri.

«Abbiamo anche l’U-Boot dalla nostra parte», disse Rogge, «e possiamo contare sul suo aiuto. Cercherò di guadagnare tutto il tempo possibile, ma per adesso ricordatevi bene: non uno dei nostri cannoni dev’essere visibile al nemico».

Guardato al binocolo, il Devonshire appariva davvero imponente. Le onde sollevate dalla prua agitavano il mare, altrimenti immobile, dandoci un’idea dell’alta velocità sa cui navigava l’incrociatore. Certo, non era il momento più adatto per ammirare la linea elegante e classica del Devonshire: infatti, se non riuscivamo quasi a scorgere le canne dei suoi pezzi, ciò significava che essi erano puntati contro di noi e che soltanto un miracolo poteva salvare l’Atlantis dalla resa dei conti.

Il nostro avversario presentò il suo biglietto di visita, con un tiro isolato. Evidentemente non aveva intenzione di sprecare il suo tempo. Una fiamma arancione si levò dallo scafo grigio, e una grossa bomba passò sopra gli alberi dell’Atlantis con il rumore di un treno espresso, prima di tuffarsi in mare alle nostre spalle. Un’altra vampata, e un’altra bomba, ma questa volta a prua, dove alzò un enorme getto d’acqua. L’avvertimento era fin troppo chiaro, e la nostra reazione fu altrettanto rapida.

«Fermate le macchine!».

Cessato il pulsare dei motori, una strana calma scese sull’Atlantis, una calma che sembrava stringere nel suo abbraccio ognuno di noi… Non che avessimo perso la parola: anzi, continuavamo a parlare. Non che fossimo paralizzati dalla paura: anzi, eravamo piuttosto indaffarati. Ma la nostra voce, i nostri gesti, i nostri passi sembravano tutti subordinati a un processo mentale al quale nessuno di noi poteva sfuggire. C’era veramente qualche probabilità di farla franca? Non potevamo farci troppe illusioni. Eppure, anche questa volta una speranza si affacciò alla nostra mentre: la nostra fortuna, la buona stella dell’Atlantis, quel qualcosa che ormai faceva parte della nostra esistenza ed era un fatto accettato da tutti come il sorgere del sole o il calare della luna. Che cosa poteva succederci? Non eravamo quelli dell’Atlantis?

Se non fosse stato per lo sciacquio delle onde e per il fruscio dei piedi degli uomini che si muovevano inquieti dietro i cannoni, il silenzio sarebbe stato completo. Mi vennero alla mente le nostre ventidue vittorie. Provai a ricordare che giorno fosse. Ventidue vittorie e ventidue del mese. Senza dubbio era una strana coincidenza. O forse un presagio. Buono o cattivo?

Con una lampada di segnalazione catturata su una nave inglese, indicammo al Devonshire il nostro nome: Polyphemus. Contemporaneamente, la nostra radio fece quello che avrebbe fatto qualsiasi nave inglese nelle nostre condizioni, annunciando al mondo intero: «Qui Polyphemus… Nave non identificata ci ha ordinato di arrestarci. Qui Polyphemus…».

Avevamo ben poche probabilità di farcela. Lo sapevamo benissimo ma era l’unica soluzione possibile. Continuammo a ripetere il nostro appello con quella disperata serie di punti e linee. Se doveva essere il nostro ultimo bluff, sarebbe stato un capolavoro nel suo genere: in quel messaggio, che adesso stava facendo il giro del mondo, avevamo tutta la sacrosanta indignazione e tutta l’angoscia che attanagliano il cuore di un povero capitano di marina mercantile quando si trova alle prese con una nave corsara. Adesso non rimaneva altro che attendere.

«Sarei curioso di sapere che cosa ne pensa il nostro Tommy», disse un cannoniere. Non tardammo a scoprirlo.

Tommy ci disse di stare fermi lì dov’eravamo. E chi aveva voglia di muoversi? Qualcuno si ricordò della vecchia preghiera blasfema che gli uomini di Nelson recitavano aspettando l’arrivo di una bordata nemica: «Per quello che stiamo per ricevere, voglia il Signore darci il modo di mostrare la nostra sentita riconoscenza».

Era giunto il momento di far tacere la radio perché nemmeno il più miope e ignorante marinaio di questo mondo avrebbe potuto scambiare il Devonshire per una nave tedesca. Sebbene il nostro stratagemma avesse costretto il nemico a una battuta di arresto (il vero Polyphemus era partito dalla Spagna a una data che ne poteva benissimo giustificare la presenza nella nostra zona) il Devonshire non mostrava alcuna intenzione di fare il nostro gioco. Il nemico stava controllando il nostro messaggio, ma non veniva di persona a controllarselo portandosi più vicino all’Atlantis, come avevamo sperato: chiedeva invece all’ammiragliato, via radio, quale fosse la posizione del vero Polyphemus. Senza dubbio gli inglesi sospettavano che il nostro vello di pecora nascondesse le affilate zanne del lupo.

Senza allentare per un attimo la sorveglianza, il nemico diede inizio a una serie di complicate evoluzioni a grande distanza: correva a zig-zag e non diminuiva di un nodo la sua velocità, mantenendosi a quasi dieci miglia, cioè fuori dalla portata dei nostri pezzi.

Frattanto l’idrovolante non voleva andarsene da sopra le nostre teste. La sua esasperante curiosità ci costringeva alla massima cautela nei nostri movimenti sul ponte e suscitava in noi quel penoso senso di imbarazzo che uno scolaretto prova quando si muove sotto gli occhi di un maestro severo.

Mi domandai se un giorno avrei potuto raccontare ad altri l’ultima giornata della nostra crociera. Tutti i personaggi della vicenda erano di scena: il comandante, l’ufficiale puntatore, l’ufficiale siluratore, l’ufficiale di rotta ed io. Tutti insieme sul ponte dell’Atlantis, una scelta adunanza di brillanti uomini di mare, ottimamente addestrati, ma impotenti (salvo un miracolo) di fronte al nemico, come tante pecore davanti al loro carnefice. E adesso i nostri occhi erano fissi sulla luce intermittente che partiva dal potente riflettore del Devonshire. Il segnale, evidentemente in cifra, non avrebbe mai ricevuto da noi la giusta risposta.

Alle nostre spalle, dividendo la nostra ansia di fare qualcosa, erano tre siluristi, tre cannonieri, tre segnalatori e un telemetrista. Ma il più turbato di tutti era certamente il comandante dell’U-126: incapace di rassegnarsi all’idea di essere bloccato sulla nostra nave mentre il suo sommergibile era tornato negli abissi, innervosito maggiormente dalla completa inattività cui era costretto, non smetteva un istante di camminare su e giù per il ponte. Lo doveva tormentare soprattutto la sensazione che, senza di lui, l’U-126 non sarebbe mai riuscito a farsi onore in quella splendida occasione. Nonostante le preoccupazioni del momento, non potemmo fare a meno di ridere sotto i baffi del suo comportamento, che d’altra parte sembrava comune a tutti gli ufficiali degli U-Boot.

«Proprio a me», borbottava il sommergibilista, «proprio a me doveva capitare di rimanere in trappola su questo maledetto mercantile. Sta a vedere che mi farò affondare in emersione, dopo tutto quello che ho passato in questi anni. Giuro che in vita mia non mi sono mai sentito così avvilito».

E adesso che cosa sarebbe successo? Rogge lesse la domanda nei nostri occhi e cercò di dare una risposta. «Tra poco gli inglesi avranno la certezza che non siamo il Polyphemus e si toglieranno i guanti. Comunque sia, noi non spareremo».

Nemmeno un colpo? Eravamo sbalorditi. Certo, nessuno di noi ignorava che i proiettili dell’Atlantis non avrebbero raggiunto il Devonshire fino a quando il nemico avesse avuto l’accortezza di tenersi a quella distanza. E sapevamo altrettanto bene che, anche a distanza ravvicinata, non avremmo avuto alcuna possibilità di scampo di fronte a un incrociatore armato di pezzi tanto più potenti dei nostri.

«Nemmeno un colpo?», parve implorare Kasch. «Nemmeno per salvare il nostro prestigio?».

«No» disse Rogge. «Forse il bluff può ancora riuscire, e noi possiamo affidarci a questa speranza. Se loro sparano e noi rimaniamo zitti, rimane la possibilità che ci prendano per una nave ausiliaria. In questo caso potrebbero anche avvicinarsi tanto da rendere il loro errore irrimediabile».

Costretti a giocare il tutto per tutto per guadagnare ancora tempo, ci assoggettammo alla più dura delle discipline, una disciplina che ci impediva perfino il puerile sollievo di indirizzare ai nostri avversari qualche volgare gesto di scherno. Passò così una mezz’ora. A un tratto, il mio attendente mi si avvicinò con la sua solita deferenza: «Vuole la sua divisa migliore, signore?».

La mia migliore divisa? … In un momento come questo? Osservo il visto onesto ed ansioso, che mi sta di fronte. Ho una strana sensazione di disagio, ma infine mi decido a recitare, sino in fondo, la parte assegnatami. Non c’è soltanto il bluff verso gli inglesi; c’è anche un altro bluff da giocare, sul quale tutti siamo tacitamente d’accordo. Infine, esclamo: «Naturalmente, la mia miglior divisa!»

Se cominciavo a rendermi conto che la filosofia di trarre, da ogni contingenza della vita, il meglio, ha solide e valide basi, bisognava allora che mi organizzassi immediatamente. E così mi feci dare dall’ufficiale pagatore la mia parte di dollari tenuti in cassa per i momenti di emergenza. Se dovevamo proprio andare a fondo, c’era sempre il caso (piuttosto problematico, a dir il vero) di raggiungere la costa, o quello (ancor più problematico) di essere tratti in salvo da qualche nave neutrale, o…Insomma, il denaro non poteva certo darmi fastidio! Ma dove nascondere quei dollari? Sistemai fra la scarpa e il piede quel tesoro che, in migliori circostanze, mi sarebbe potuto servire parecchio, sempre a condizione che esistesse ancora al mondo un posto per me dove spenderlo! Stai attento, mi avvertì subito qualcuno, che nuotare con le scarpe addosso è un gramo affare. E poi, aggiunse qualche altro, come fai esser convinto che avrai ancora bisogno di quei dollari?

E l’U-Boot dov’era andato a cacciarsi? Le osservazioni che, in proposito, andava facendo il suo comandante, sono irripetibili, ma sarà bene che autocensuri le nostre. Eppure, tutti sapevamo che quell’ira non era che un debole tentativo di mascherare la nostra umiliante impotenza di fronte al nemico. Nessuno meglio di noi poteva sapere che le velocissime manovre del Devonshire sembravano studiate apposta per impedire al nostro sommergibile qualsiasi efficace intervento.

Fra quanto tempo gli inglesi avrebbero ricevuto la conferma dei loro evidenti sospetti? L’attesa era per noi così angosciosa, che non vedevamo l’ora di essere smascherati e di vederci precipitare addosso la furia del nemico. Tornando indietro con la memoria a quei momenti, ammetto che per conferire un tono letterario alle mie riflessioni, adesso dovrei dire che la scena «stava tingendosi di colori altamente drammatici». Direi una bugia: eravamo infatti troppo preoccupati per concederci il lusso di mostrarci drammatici o emotivi. C’erano tante cose a cui pensare…

Nove e trentacinque: il nostro gioco è finito! Una fiammata rosso-arancione esplode dalle torrette del Devonshire. Kasch si sporge dal ponte superiore e, guardandoci con uno strano sorriso, non si trattiene dal commentare quella prima bordata con aria professionale: «Fra venti secondi ci siamo, ragazzi!».

Le prime bombe inglesi esplodono in mare alzando attorno a noi uno scenario di fontane e di spruzzi da cui piovono micidiali schegge d’acciaio. Sopra il tuonare e lo scoppio delle bombe, sento l’ordine di Rogge:

«Avanti, a tutta forza!».

L’Atlantis incomincia a muoversi, ma i cannoni inglesi non ci mollano.

«Alzate la bandiera di combattimento!» urla Rogge.

Per l’ultima volta il rosso, il bianco e il nero sventolano sull’Atlantis ch’è tornato a essere la magnifica nave di sempre, pronta a sfidare qualsiasi nemico: una nave da guerra pronta a battersi fino alla fine per l’onore della sua bandiera.

Le bombe ci colpiscono. È la prima volta che vedo la mia nave sotto il fuoco nemico; è la prima volta che sento il ponte tremare sotto i piedi; è la prima volta che odo il fasciame gemere e contorcersi fino allo spasimo sotto i colpi.

«I nebbiogeni!». Un’acre nuvola biancastra si alza intorno alla nave, formando una cortina protettiva tra noi e l’incrociatore. Ciò nonostante, le bombe continuano a pioverci addosso da quasi dieci miglia di distanza. Ci giriamo quasi su noi stessi e puntiamo disperatamente verso sud-est. Se il sommergibile non potrà impegnare in combattimento il nemico, forse potremo noi convincere l’incrociatore ad andare incontro all’U-Boot. Il comandante del Devonshire, purtroppo, è molto astuto. La nostra manovra rimane infruttuosa. Non sono passati che pochi minuti e già siamo costretti a usare i nebbiogeni per permettere all’equipaggio di abbandonare la nave; il fumo serve a confondere il tiro dell’incrociatore, e a risparmiarci qualche bordata; almeno una o due, quel che basta a impedire il massacro dei nostri ragazzi, che salgono sulle scialuppe con la stessa calma di una normale operazione di salvataggio. La velocità è ridotta a un nodo e mezzo, manovriamo appena il timone e cerchiamo di rimanere al di qua dello schermo di nebbia. Non potremmo, nemmeno volendo, andare più veloci. Siamo colpiti a morte, questa è la verità, benché non sia riuscito a rendermene conto subito.

Mentre i marinai abbandonano l’Atlantis (e ne vedo uno che si tiene stretto tra le braccia un cagnolino impaurito) scendo in cabina a prendere i codici e la macchina fotografica, perché ho deciso di ritrarre la fine della nostra nave. Sto giù un minuto o due, cerco il rasoio di sicurezza e uno o due ricordi da mettere in tasca. Poi, con la macchina e le pellicole in mano, risalgo sul ponte.

L’Atlantis è diventata irriconoscibile! I ponti, giù così ordinati e puliti, sono ridotti a un caos, mentre un odore nauseante di bruciato ristagna sulla nave. Un fumo nero avvolge come un sudario l’albero maestro. Almeno una dozzina di fuochi ardono qua e là sul ponte. Dove fino a ieri c’era l’idrovolante, ora è tutto un rogo. Tutti sono in salvo; rimaniamo io, Rogge, Pigors e gli uomini di Fehler che debbono preparare le cariche di esplosivo per far saltare l’Atlantis. Non riesco a tenermi bene in equilibrio, sento qualcosa di scivoloso sotto i piedi. Guardo. È sangue. La quarta bordata ci ha regalato il nostro «primo caduto in azione»… ma adesso i morti sono saliti a otto.

Pigors è un vecchio amico e compagno di scuola di Rogge. Cerca di persuaderlo ad abbandonare la plancia di comando. «Senza di te, Rogge, non me ne vado», esclama il brav’uomo.

Un’altra bomba ci colpisce in pieno. Poi un’altra. La nave s’inclina paurosamente sul fianco sinistro. Ci siamo!

L’Atlantis è destinata a morire senza aver sparato un solo colpo. Le bombe hanno aperto enormi buchi dai quali si vedono adesso i nostri magnifici cannoni. Non resisto a guardare quelle formidabili canne puntate beffardamente mute, verso il cielo. Tutta la nostra potenza è svanita, il nostro bluff è miseramente fallito; invisibile e remoto come lo steso cielo, il Devonshire continua a tenerci sotto il suo tiro.

Fehler e i suoi uomini hanno terminato il loro compito. Si sono già tuffati in mare. Pigors s’è convinto che né io né Rogge tenteremo di morire sul ponte dell’Atlantis e si butta in mare anche lui.

Non guardo Rogge, ma lo sento gridare al di sopra degli scoppi: «Salta, Mohr! Salta presto! Mi butto dopo di te!».

Ed io mi tuffo nell’oceano…

Abbiamo già accennato alle critiche che alcuni storici hanno rivolto al comportamento del capitano Rogge in quell’ultima circostanza della sua carriera di corsaro.

Un autore italiano ha osservato ironicamente che, dopo aver colato a picco con tanta disinvoltura una ventina di inermi navi mercantili, allorquando si trovò di fronte, per la prima e unica volta, ai cannoni di una nave da guerra, mostrò di quale stoffa fosse fatto realmente allorché diede l’ordine di abbandonare la nave in tutta fretta, senza tentare la benché minima reazione.

Sono critiche, forse, eccessive e un po’ ingenerose; perché, come già si è osservato, il Devonshire aveva avuto cura di tenersi costantemente a una distanza di oltre 10.000 metri, ossia fuori della portata dei pezzi da 150 mm. dell’Atlantis, mentre continuava a colpirlo implacabilmente con i suoi grossi calibri.

Pur senza aver combattuto, la nave tedesca riportò un pesante bilancio di perdite a causa del bombardamento subito in quei pochi minuti di fuoco: dieci morti e quaranta feriti. Se Rogge avesse deciso di combattere, forse sarebbe stato criticato per l’inutile spreco di vite umane del suo equipaggio, dato che si sarebbe battuto esclusivamente per l’onore e non per la sia pure minima speranza di vittoria.

È una questione di punti di vista, e non riteniamo il caso di addentrarci in una simile polemica a posteriori; che, come tutte le altre dello stesso genere, presenta l’insanabile difetto di essere la classica discussione a tavolino, che non tiene conto dei fattori concreti esistenti in guerra, quelli psicologi e morali non meno di quelli strettamente tecnico-militari.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. giovanni
    | Rispondi

    il libro atlantis scritto da rogge e' molto bello, una lettura facile, scorrevole e non impegnativa. avvince e fa partecipare

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