Immigrazione e Forma-Capitale. Un rapporto troppo spesso sottaciuto

mare-monstrumFinalmente, nell’asfittico panorama dell’editoria politologica italiana, un libro significativo che si occupa di immigrazione in termini critici, individuando in essa lo strumento utilizzato dal capitalismo transnazionale per sradicare fisicamente ed esistenzialmente i popoli. Ci riferiamo al volume di Alessio Mannino, Mare Monstrum. Immigrazione: bugie e tabù, edito da Arianna editrice (per ordini: 051/8554602, euro 9,80). Il testo sviluppa un’esegesi a tutto tondo del fenomeno migratorio dei nostri giorni ed è arricchito da brevi interviste in tema: ai filosofi Alain de Benoist e Diego Fusaro, allo scrittore Massimo Fini e al teorico della decrescita Maurizio Pallante.

Merito indiscutibile delle pagine di Mannino è da individuarsi nel suo tenersi a debita distanza sia da ogni atteggiamento xenofobo preconcetto, da ogni attacco gratuito agli immigrati, quanto dal piagnisteo generalizzato inscenato, dopo ogni tragedia delle “carrette” del mare, dai sacerdoti della religione dei diritti dell’uomo in servizio permanente effettivo. Il problema migratorio è tema chiave del nostro tempo, impossibile eluderlo ricorrendo alle frasi fatte dei buoni propositi. Per quanto attiene all’Italia, i dati ufficiali del 2012 dicono che nel nostro paese risiederebbero oltre cinque milioni di stranieri, il 9,4% della popolazione complessiva. Nonostante i morsi della crisi economica abbiano, negli ultimi anni, calmierato gli arrivi, o determinato un numero considerevole di partenze dal nostro territorio, il problema “immigrazione” rischia di divenire esplosivo sia per gli ospitanti che per gli ospitati. Tale fenomeno epocale si accompagna ai processi di globalizzazione, la cui: “caratteristica fondamentale è l’abbattimento dei confini” ( p. 9). La fase estrema della prassi e del pensiero global, richiede l’abbattimento dell’ultimo limes: quello culturale ed esistenziale. Al mondo uniformato, deve far seguito un’umanità altrettanto unica, costruita sull’endiadi del produrre-consumare, esclusivo progetto di vita riconosciuto dal senso comune delle società opulente. L’immigrato è preparato al nomadismo culturale già a casa propria, dalla pervasività dei mezzi di comunicazione di massa. I loro messaggi descrivano i paesi capitalistici, il modello di vita “moderno”, quale nuovo Eden materialistico, da raggiungere quanto prima.

clandestiniCosì, giunto nel “migliore dei mondi possibili”, lo straniero acquisisce nuove modalità comportamentali: “si estrania da sé, vivendo una situazione esistenziale schizoide: rincorre gli standard economici della terra ospitante e contemporaneamente cerca, se cerca, di difendere l’identità di partenza” (p. 8). Come ricordato da Fusaro, i migranti rappresentano “l’esercito di riserva” del capitalismo mondialista che lì sfrutta per sostituire, dapprima nelle occupazioni più gravose e a costi ridotti, i lavoratori “tutelati” d’Occidente. Correlata agli spostamenti di massa dal Terzo mondo, è l’emigrazione della “generazione liquida”, dei nostri giovani, dai paesi avanzati ma economicamente più deboli, verso quelli maggiormente strutturati in questo ambito, al fine di trovarvi un’occupazione adeguata al titolo di studio. Tutto ciò accade mentre insorgono le banlieues d’Europa per la prossimità ambientale in cui sono costretti a convivere il sottoproletariato europeo e quello d’importazione. Scopo della Forma-Capitale è disintegrare, tramite i migranti, gli ospitanti “riducendo anche questi ultimi al rango dei primi” (p. 85). E così, gli immigrati “i proletari del Terzo millennio, gli inscatolati dei barconi, i figli destinati a rinnegare i padri, i neo sudditi della comunità finanziaria mondiale, sono loro stessi a fottersi con le proprie mani, abboccando all’amo del falso benessere del Primo Mondo” (p. 73). L’apolide-nomade, prima o poi, sarà costretto a rinunciare a se stesso, all’ethos nel quale è cresciuto ed è stato educato, per adattarsi infine, a un modus vivendi, insostenibile per le stesse popolazioni occidentali.

L’immigrato-reietto dei nostri giorni è il prodotto e la predestinata vittima sacrificale della trionfante cultura del profitto e del consumo, nonché dell’equivoco ideologico che le sostiene: l’idealizzazione del meticciato. Il “buonismo” non comprende che, far interagire in un corpo sociale due culture e due mentalità, è possibile solo a condizione che esse non rinuncino alla loro specifica identità. Ma l’identità, come insegna Alain de Benoist, non esiste senza la tutela delle differenze: “Il dialogo con l’Altro implica che ci sia l’Altro…la differenza è un concetto che rimanda a realtà umane estremamente concrete” (p. 57). A realtà quali la tradizione, modi diversi di esperire la vita e costumi incancellabili che, certo, non vanno pensati staticamente, ma in termini dinamici.

Quest’appartenenza destinale è da contrapporsi, ricorda Mannino, alla “società liquida” del mondo global. Il differenzialismo, dice Giovanni Damiano in Elogio delle differenze (Ar, 1999), presuppone la reciprocità del riconoscimento tra popoli e culture. Solo la posizione differenzialista consente di dare soluzione al problema immigrazione. Il multiculturalismo anglosassone ha fallito in quanto modello elaborato per il fenomeno migratorio allo stato embrionale. Esso prevedeva la possibilità di far convivere tradizioni e pratiche religiose diverse sullo stesso territorio, attraverso il rispetto della legge. L’assimilazionismo USA, invita, invece, l’immigrato a mantenere il retaggio tradizionale d’appartenenza, pur in un crogiolo di etnie e culture diversificate. Ma i fatti hanno chiarito che, già alla seconda generazione, i migranti assorbano l’american way of life, il che significa “…introitare e consumare come gli americani benestanti” (p. 61). Per non parlare della caratterizzazione schizoide dell’ integrazionismo francese, centrato sulla pretesa giacobina di neutralizzare le peculiarità antropologico-religiose, proibendole nella dimensione pubblica.

Il differenzialismo, può essere secondo l’autore, declinato in alcune proposte pratiche: riconoscere lo ius soli alla prole di immigrati già cittadini, abbassando la soglia di attesa da dieci a cinque anni, previo test appurante la conoscenza linguistica e storica-giuridica di base del richiedente “Il tutto nella cornice di una politica pragmatica e inflessibile di ingressi e permanenze” (p. 65). Esattamente ciò che oggi manca, soprattutto in Italia, come attestano i drammatici eventi che turbano ogni giorno la nostra pace sociale. Il comunitarismo presuppone il costruirsi di una relazione rispettosa, organizzata gerarchicamente, tra le comunità ospitate e quella ospitante. Le prime sono tali in conseguenza di una scelta politica che conceda loro tale status.

Il problema prioritario è quello di recuperare la nostra identità-dignità di italiani ed europei, in quanto come migranti, inseguiamo da decenni il solo vitello d’oro della Forma-Capitale.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

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