Il nuovo ordine giapponese in Asia nel 1941-42 rese inevitabile la fine del colonialismo occidentale

Non è uno sterile esercizio di retorica e non è neppure una forma di nostalgia verso la “ucronia” o “storia alternativa” teorizzata dal filosofo Charles Renouvier, in polemica con il determinismo positivista, domandarsi che cosa sarebbe accaduto se la politica giapponese in Asia, negli anni del secondo conflitto mondiale, fosse stata diversa da quella che è stata; o meglio, se avesse privilegiato alcuni elementi che pure in essa erano presenti, a scapito di altri – dettati specialmente dai militari – che finirono per prevalere nettamente.

Che cosa sarebbe accaduto, in particolare, se la “sfera di co-prosperità della grande Asia Orientale” non fosse stato un semplice slogan propagandistico, ma avesse tenuto nel debito conto le esigenze e le aspirazioni nazionali dei popoli coloniali, dalla Birmania alla Malacca, dall’Indocina alle Indie Orientali olandesi, per non parlare della Manciuria e dell’India stessa, la quale ultima, pur non essendo stata occupata dalle armate nipponiche, fu tuttavia minacciata da vicino, mentre un esercito nazionale indiano veniva armato ed istruito sotto la guida prestigiosa di Subhas Chandra Bose, già presidente del Partito del Congresso e oppositore della linea nonviolenta di Gandhi?

Che cosa sarebbe accaduto se, una volta occupato l’immenso territorio che va dalle pendici dell’Himalaya alle isole Salomone e dalla Manciuria a Singapore, le autorità giapponesi non si fossero limitate a sfruttare nel loro esclusivo interesse le forze indipendentistiche locali, ma avessero dato loro una effettiva autonomia, cointeressandole alla sconfitta finale delle potenze occidentali e stabilendo verso di esse un rapporto paritario, invece di spremere le risorse economiche ed umane di quei territori, con una spietatezza che fece loro rimpiangere, in molti casi, la precedente dominazione coloniale europea o (nel caso delle Filippine) americana?

Certo, si potrebbe rispondere che se ciò non avvenne, e l’ottuso militarismo giapponese sciupò in tal modo una straordinaria occasione di mobilitare l’immenso potenziale asiatico contro l’Occidente (si pensi solo a quel che accadde nel Vietnam dopo la guerra e il ritorno dei Francesi), ciò non fu per un caso o per una imprevedibile fatalità, ma perché le vedute politiche del governo giapponese e, in genere, della sua classe dirigente, non andarono mai oltre una visione grettamente nazionalistica e, diciamolo pure, razzista, fondata sulla presunta superiorità degli abitanti del Giappone imperiale, “stirpe divina” della dea Amaterasu, non solo rispetto ai detestati occidentali, ma anche rispetto agli altri popoli dell’Asia.

E ciò è innegabilmente vero.

Tuttavia, non si deve tacere il fatto che una minoranza di menti illuminate, specialmente fra i membri civili del governo imperiale nipponico, aveva invece compreso il grandissimo valore del nazionalismo pan-asiatico quale strumento di lotta contro l’Occidente; e, inoltre, che il processo di formazione di una moderna coscienza nazionale era già in atto, specialmente in alcuni Paesi (l’India in primis) e che, pertanto, una intelligente politica giapponese avrebbe dovuto soltanto assecondarlo e favorirlo, non già creare o “inventare” qualche cosa che ancora non esisteva, almeno nei Paesi più evoluti o dove esistevano delle élites culturalmente formate in senso europeo o americano, che avevano preso sul serio la lezione del Risorgimento italiano e, in genere, della lotta per l’indipendenza dei popoli europei prima e dopo la guerra 1914-18.

Potremmo spingere lo sguardo ancora più in là e domandarci che cosa sarebbe avvenuto se una siffatta politica, lungimirante e realistica, fosse stata adottata dalle forze dell’Asse in Europa, particolarmente dalle autorità tedesche in Polonia, Ucraina, Russia e nei Balcani, oltre che in Francia, Belgio, Olanda, Danimarca e Norvegia, invece di instaurare un regime di occupazione che deluse e disgustò quelle stesse popolazioni che, in un primo tempo, avevano accolto l’avanzata germanica con sentimenti in parte favorevoli o, comunque, ancora incerti e suscettibili di positivi sviluppi. Si pensi, ad esempio, a come sarebbero potute andare le cose sul fronte orientale, se l’armata anticomunista del generale Vlasov fosse stata dotata di mezzi adeguati e se questa carta fosse stata giocata dai Tedeschi prima e con più convinzione, e non quando ormai le sorti della guerra in quel teatro erano praticamente segnate.

Ciò equivarrebbe a domandarsi se la seconda guerra mondiale, nel suo complesso, fu davvero combattuta tra le forze del “nuovo” e quelle del “vecchio”, ossia, come recitava la propaganda fascista, tra “il sangue” e “l’oro”; o se non fu, invece (e salvo alcune eccezioni) l’ennesimo scontro fra potenze, vecchie e nuove, interessate solo a uno sfruttamento miope ed egoistico delle risorse mondiali, secondo gli schemi collaudati nei secoli della modernità, dall’avventura dei “conquistadores” spagnoli in avanti.

In questo senso, si potrebbe anche dire che l’unico membro del Tripartito le cui vedute andavano, almeno in parte, al di là di tale visione grettamente obsoleta della politica estera, era proprio l’Italia; e i maligni potrebbero aggiungere che ciò avveniva proprio perché, essendo la potenza più debole, non aveva forze bastanti per condurre una vera politica imperiale e doveva necessariamente puntare più a destabilizzare gli imperi avversari, facendo leva sui nazionalismi dei popoli soggetti. Così si può interpretare la politica filo-islamica e filo-araba di Mussolini, finché la valle del Nilo e il Canale di Suez furono a portata delle forze italo-tedesche del Nordafrica; e così le simpatie del Gran Muftì per l’Italia, almeno fino a che le vicende della guerra, a noi sfavorevoli, non lo indussero a rivolgersi piuttosto verso la Germania.

Inoltre, per far leva sui nazionalismi dei popoli coloniali sarebbe stato necessario mostrare la capacità militare di aiutarli validamente a scrollare il giogo delle potenze alleate; mentre l’esito disastroso della rivolta anti-inglese irachena scatenata da Rashid Ali el Gaylani nell’aprile-maggio 1941, e la palese incapacità dell’Asse di supportarla in maniera adeguata, mostrarono al mondo arabo che non vi erano margini concreti per una azione coordinata con la Germania e l’Italia per colpire in modo decisivo l’Impero britannico in quell’area.

Anche in Europa, è noto che la politica italiana prima della seconda guerra mondiale era stata piuttosto quella di aggregare una coalizione danubiano-balcanica in funzione antifrancese e antibritannica, piuttosto che quella di sottomettere direttamente quelle nazioni. Tale politica era culminata con la firma del cosiddetto protocollo di Roma, il 17 marzo 1934, fra Mussolini, Dollfuss e Gömbös, primo ministro magiaro, che in pratica includeva l’Austria a l’Ungheria nella sfera d’influenza italiana; ma si era poi sgretolata con l’abbandono del “fronte di Stresa” e con il riavvicinamento italo-tedesco del 1936, all’epoca della guerra d’Etiopia, quando (per usare l’espressione dello storico Gordon Brook Shepherd) l’attenzione di Mussolini fu spostata dal bacino del Danubio all’alto corso del Nilo.

Nei primi mesi del 1943, dopo la duplice sconfitta di El Alamein e di Stalingrado, un nuovo blocco fra l’Italia e gli scoraggiati alleati minori dell’Asse (Ungheria, Romania, Bulgaria) stava potenzialmente riformandosi, con l’obiettivo a breve termine di persuadere Hitler, d’accordo col Giappone, a giungere ad una pace negoziata con l’Unione Sovietica; o, in alternativa, ad uscire dal Tripartito e abbandonare l’alleanza con la Germania. Ma le vicende del 25 luglio e, poi, dell’8 settembre, fecero abortire il tentativo: e si noti che ancora la mattina dopo il voto del Gran Consiglio e poche ore prima di essere arrestato, Mussolini si incontrava con l’ambasciatore giapponese a Roma, Hidaka, per concertare la pressione da svolgere su Hitler in vista dell’apertura di una trattativa coi Sovietici.

Ma torniamo al Giappone e al suo mancato sfruttamento della politica panasiatica basata sugli slogan della “co-prosperità” e della “più grande Asia orientale”.

Non si dimentichi che la guerra del Pacifico è tuttora considerata, dai Giapponesi, come una episodio a sé stante, staccato dal contesto che gli storici europei e americani chiamano, genericamente, la “seconda guerra mondiale”; e che essa incominciò non dopo l’attacco di Hitler alla Polonia, e cioè con il bombardamento di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, ma alcuni anni prima, e cioè con l’incidente al ponte Marco Polo di Pechino e con l’inizio della guerra sino-giapponese, il 7 luglio 1937.

Al tempo stesso, essi la considerano – e non del tutto a torto – come una guerra sostanzialmente difensiva, cui il Giappone fu tirato per i capelli dalla politica statunitense mirante ad accerchiarlo e metterlo in ginocchio con il blocco delle importazioni di materie prime. Anche la strategia giapponese fu originata essenzialmente da esigenze economiche: in particolare, la campagna delle Indie Olandesi fu dettata dalla necessità di impadronirsi del petrolio necessario all’industria bellica e specialmente alla flotta (più o meno come il petrolio romeno era indispensabile alla macchina bellica tedesca); e la campagna di Malacca, culminata nell’attacco a Singapore, non fu che la sua necessaria premessa tattica.

Tali esigenze economiche spiegano, almeno in parte, la diversità di trattamento riservata dal Giappone alle forze indipendentiste indonesiane (ma sarebbe meglio dire giavanesi, dato che un sentimento nazionale indonesiano ancora non esisteva) rispetto a quelle indiane, birmane o allo stesso governo fantoccio cinese. Infatti, Giava, Sumatra, Borneo e Celebes dovevano restare delle semi-colonie nipponiche, di cui la madrepatria non avrebbe potuto fare a meno senza dover rinunciare a tutta la sua politica imperiale; mentre gli altri Paesi, una volta divenuti indipendenti, avrebbero anche potuto essere trattati come soci alla pari, o quasi.

Il potenziale rivoluzionario dell’India, in particolare, era immenso; e fu certo un grave errore quello di non aver sostenuto in maniera convinta il movimento di Chandra Bose, lesinandogli i mezzi e trattandolo con malcelata diffidenza. Una rivolta indiana alle spalle del fronte birmano avrebbe potuto avere conseguenze incalcolabili e far crollare il dominio coloniale britannico; mentre in Birmania, nel 1944, l’ultima offensiva giapponese si risolse in un disastro, quando già l’Assam e il Bengala sembravano a portata di mano, cosa che provocò la fine del sogno di Bose (che aveva stabilito la sede provvisoria del suo governo, l’Hazad Hind, a Port Blair, nelle Isole Andamane). Per inciso, di Bose si parla ancor oggi poco e malvolentieri, fra gli storici occidentali: un po’ perché gli si preferisce l’immagine più rassicurante del Mahatma Gandhi, e molto perché Bose fu amico di Mussolini e Hitler, ciò che lo rende politicamente impresentabile nel salotto buono della cultura democratica odierna, tutta miele e buone intenzioni.

Generalmente, poi, in Occidente si pensa che la guerra doveva finire come è finita, data la sproporzione delle forze in campo; e la tenacissima resistenza delle forze armate giapponesi a Tarawa, Okinawa, Iwo Jima, viene immancabilmente presentata come un esempio di fanatismo folle e irresponsabile, dettato dal disprezzo della vita umana. Per un Occidentale, è cosa ovvia che, quando la superiorità materiale del nemico si delinea schiacciante, non resta altro da fare che arrendersi; ma ciò deriva dalla concezione materialistica della storia, e più in generale della vita, tipica dell’Occidente.

Per la cultura giapponese, e più specificamente per la religione scintoista, quel che conta non è un preventivo puramente materiale delle forze in campo, ma la capacità del singolo individuo di sacrificarsi fino all’estremo, se necessario, per la salvezza comune (della squadra, del gruppo, della patria): solo così si può entrare nella giusta ottica per comprendere il fenomeno dei “kamikaze” o quello dei soldati che rifiutarono di arrendersi e continuarono a resistere, nella giungla di qualche sperduta isola del Pacifico, per molti e molti anni dopo che la guerra era cessata.

Dunque, se il Giappone fosse stato in grado di mobilitare a fondo le forze nazionaliste dell’India, della Birmania, della Malesia, delle Filippine e delle Indie Orientali olandesi, non è scontato che la guerra sarebbe finita come è finita; del resto, la guerra del Vietnam e, poi, quella dell’Afghanistan, hanno mostrato cosa può fare un piccolo popolo, privo di armi moderne e di una moderna industria, contro una superpotenza mondiale, purché la coscienza nazionale sia salda e le condizioni del terreno siano favorevoli alla guerriglia.

Fra parentesi, lo stesso ragionamento si può fare a proposito dell’Europa, se la Germania avesse saputo giocare meglio la carta russa, mobilitando tutte le forze anticomuniste, ma non offrendo a Stalin – come invece accadde – la possibilità di presentarsi come il difensore del sacro sentimento nazionale e di ricevere perfino la benedizione della Chiesa ortodossa, da lui così crudelmente perseguitata fino alla vigilia dell’invasione tedesca. Oppure – già vi abbiamo accennato – se l’Italia avesse saputo giocare meglio la carta araba, per colpire gli Inglesi nel Mediterraneo e per minacciare le loro posizioni nel Medio Oriente.

Siamo proprio sicuri che la seconda guerra mondiale doveva necessariamente finire come è finita, solo perché il potenziale industriale e militare degli Alleati superava di molto quello del Tripartito? Non è forse vero che, coordinando la loro azione politico-militare (non diciamo: coordinandola meglio, perché non la coordinarono affatto), i Paesi del Tripartito sarebbero stati in grado di vincere: in particolare, se i Giapponesi avessero attaccato l’Unione Sovietica nell’autunno-inverno del 1941, quando la Wehrmacht era giunta alle porte di Mosca?

La politica giapponese in Asia orientale durante la seconda guerra mondiale è stata così sintetizzata dall’inglese Richard Storry, studioso del nazionalismo giapponese, nel suo libro Storia del Giappone moderno (titolo originale: A History of Modern Japan, Penguin Books, 1960; tradizione italiana di Laura Messeri, Firenze, Sansoni, 1962, pp. 268-71):

«I tedeschi, esperti nel genocidio nei loro rapporti con gli ebrei e i popoli della Russia e dell’Europa orientale, nel complesso si comportarono correttamente verso i prigionieri di guerra americani, inglesi e francesi caduti nelle loro mani. I giapponesi che non arrivarono mai agli abissi di spietatezza in cui piombarono le SS tedesche nel loro programma di sterminazione [sic] scientifica, inasprirono i loro nemici per il modo brutale e disordinato con cui sfruttarono e abbandonarono i prigionieri. Simili crudeltà si manifestarono nei riguardi del grosso dei popoli asiatici che caddero sotto il controllo giapponese; e ciò oltre che immorale fu pazzesco. Ciò significò che i Giapponesi ben presto dissiparono il rispetto e la simpatia con cui erano stati accolti in molte parti dell’Asia sudorientale dopo le prime grandi vittorie. Gli amministratori o consiglieri civili inviati da Tokyo in certe località, vi venivano trattati in modo da sentirsi inferiori alle autorità militari; e fra queste, nelle aree occupate, nessuna era più potente dell’odiato “kempei”, o polizia militare, che dominava col terrore seminando la paura e guadagnandosi così l’odio di coloro che avevano sperato nei Giapponesi come amici piuttosto che come conquistatori. Il risultato fu che i Giapponesi rovesciato il vecchio ordine, fecero in modo, col loro folle comportamento, che il popolo dell’Asia sud-orientale non accettasse mai volentieri il programma di “sfera di prosperità comune” sostenuta dal Giappone, dal momento che questo pratica significava passare da un colonialismo a un altro. Il movimento di resistenza sviluppatosi in paesi come le Filippine, la Birmania e la Malacca fu fortemente soggetto, come in Europa, all’influenza comunista, e in realtà lo sviluppo del comunismo fu un importante retaggio del malgoverno giapponese nell’Asia sud-orientale. Inoltre i rigori dell’occupazione giapponese specialmente nelle Filippine, creano un pregiudizio che rallentò il rientro del Giappone come esportatore nei mercati dell’Asia sud-orientale dopo la guerra.

Detto ciò, sarebbe nondimeno erroneo liquidare come completamente insincero e inefficiente il motto di guerra del Giappone “un’Asia orientale più grande!”. Sebbene i militari sul luogo si comportassero nel complesso con scarso riguardo per la suscettibilità delle razze asiatiche sotto il lotro controllo, il governo di Tokyo era abbastanza in grado di comprendere il nazionalismo asiatico. Lo stesso Tojo aveva sufficiente immaginazione per accorgersi che, promettendo l’indipendenza ai territori coloniali e semi-coloniali dell’Asia sud-orientale, il Giappone aveva un’arma di propaganda di incalcolabile potere. Non mancava l’idealismo nella visione di un Giappone come forza liberatrice dell’Asia, come socio più vecchio, piuttosto che come dittatore di un gruppo di nazioni da poco indipendenti. Questo era il nobile sogno degli uomini migliori della vita pubblica; e la maggior parte di essi videro malvolentieri entrare in guerra; per molti di loro poi la guerra fu giustificata solo in misura che questo sogno potesse divenire realtà. Ma fra i comandanti civili e militari, non c’era cooperazione su base di parità. Le forze armate avevano la preminenza e fra di loro, più specialmente nel’esercito, predominavano persone dalla mentalità ristretta e grossolanamente interessata. Per esempio, gli ufficiali giapponesi con un po’ più di immaginazione si erano ben accorti che i capi del cosiddetto “esercito nazionale indiano (un esercito costituito di vecchi prigionieri di guerra indiani e residenti indiani nell’Asia sud-orientale) andavano trattati come alleati, non come dei semplici fantocci; dopotutto, l’arrivo dall’Europa di Subhas Chandra Bose per capeggiare il governo della “India libera” poteva essere considerato un importantissimo punto di vantaggio per la causa giapponese. Eppure l’atteggiamento della maggior parte dei giapponesi verso l’esercito nazionale indiano, può essere riassunto da Terauchi, il generalissimo del’Asia sud-orientale, il quale fece sapere come egli disprezzasse alquanto Chandra Bose e i suoi seguaci. Parlando con altri Giapponesi, Terauchi notò che suo padre, che egli rispettava grandemente, quando era governatore generale della Corea, non aveva affatto tempo per i movimenti coloniali d’indipendenza. Così la conferenza dell’”Asia Orientale più grande” tenuta a Tokyo nel novembre 1943 e indetta dal Primo Ministro, con la presenza di Wang Ching-wei in rappresentanza della Cina, e i capi politici del Manchukuo, del Siam, delle Filippine, della Birmania e della “India libera”, fu una faccenda alquanto priva di significato. Esser festeggiati a Tokyo non compensava gli schiaffi ricevuti a Rangoon o a Manila.

Tuttavia, la concessione di una sia pur apparente indipendenza ai paesi occupati d’Asia (nelle Indie Orientali olandesi ciò non avvenne fino agli ultimi giorni di guerra) significava che sarebbe stato moralmente impossibile per le nazioni coloniali occidentali rifiutare loro una indipendenza effettiva una volta sconfitto il Giappone. Là dove nel dopoguerra l’indipendenza fu calorosamente richiesta, e poi rifiutata, i popoli asiatici in questione ebbero abbastanza fiducia in sé da conquistarsela con la lotta; così le vittorie giapponesi distruggendo la mistica della supremazia bianca, e la politica giapponese accordando ai territori occupati almeno una forma esteriore di indipendenza, accelerarono moltissimo la nascita nel dopoguerra delle nuove nazioni dell’Asia meridionale e sud-orientale.»

In conclusione, il Giappone non seppe sviluppare le potenzialità offerte dalla presenza, nei territori asiatici da esso conquistati o minacciati durante la seconda guerra mondiale, di movimenti nazionalisti più o meno sviluppati, che avrebbero potuto dare un contributo decisivo alla sconfitta degli Alleati e all’instaurazione di un “nuovo ordine” in Asia orientale.

Ciò fu una conseguenza del fatto che la politica giapponese, e specialmente la politica estera, erano virtualmente nelle mani di una casta di generali e di ammiragli dalle vedute corte, imbevuti di un nazionalismo gretto e di un senso di superiorità razziale che li portava a guardare ai popoli della Corea, della Manciuria, della Cina, dell’Indocina, delle Filippine, delle Indie Orientali e della stessa India, con un disprezzo mal dissimulato.

Ciò spinse la stragrande maggioranza di quei popoli ad astenersi dalla collaborazione attiva con i Giapponesi, i quali, da parte loro, li trattarono con stupida ed inutile durezza, un po’ come fecero i Tedeschi in Europa e specialmente in Europa orientale. Le premesse ideologiche dei regimi nipponico e germanico erano simili, così come erano simili alcuni tratti dello sviluppo economico-sociale dei due Paesi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento; anche se i due sistemi politici erano molto diversi perché, nel Giappone scintoista dominato dal culto della divina persona dell’imperatore, una figura come quella del Füher sarebbe stata impensabile.

Qualcuno ha detto che non si può versare del vino vecchio in otri nuovi e, in questo senso, la politica giapponese (e tedesca) negli anni della seconda guerra mondiale fu vecchia nella sostanza, nel senso che ricalcava i moduli classici del nazionalismo e dell’imperialismo, anche se talune trovate propagandistiche avevano, in effetti, l’apparenza del nuovo.

Nuova, semmai, era la politica del fascismo, o almeno suscettibile di elementi di novità, dato che essa faceva appello non a un cieco egoismo nazionale, ma a valori e riferimenti di portata trans-nazionale; tanto è vero che ad essere imitato nel mondo fu il modello fascista italiano, non quello nazista tedesco e meno ancora quello imperiale giapponese. Cade, perciò, il mito che fa parlare gli storici occidentali di “nazifascismo” come di una categoria perfettamente logica ed omogenea, persino ovvia. L’alleanza tra fascismo e nazismo era, in origine, tattica e non strategica; quello che la trasformò in un abbraccio mortale furono la stupidità e la miopia della politica francese e soprattutto inglese, fra il 1935 e il 1940.

Comunque, se si vuol capire qualcosa dei Paesi asiatici e africani dopo il 1945, bisogna ricordare questo: che l’Italia fascista, più della Germania e più del Giappone, fu un modello per una intera generazione di giovani nazionalisti, i quali, dopo la fine della guerra, andarono al potere nei rispettivi Paesi, una volta raggiunta l’indipendenza.

Tanto per citarne uno, tale è il caso di Anwar el Sadat, imprigionato dai Britannici durante la seconda guerra mondiale per essersi rivolto alle potenze dell’Asse allo scopo di ottenere l’indipendenza dell’Egitto. Non tutti, ad Alessandria e al Cairo, facevano il tifo per il maresciallo Montgomery, quando i carri armati di Rommel si erano spinti fino ad El Alamein, come agli storici occidentali piacerebbe credere far credere; e meno che meno gli Egiziani, ossia i più diretti interessati all’esito della battaglia.

Di Chandra Bose abbiamo già detto, così come abbiamo accennato al Gran Muftì di Gerusalemme; e lo stesso si potrebbe dire di molti altri. Certo, alcuni di questi leader non piacciono all’Occidente, ad esempio – come nel caso del Gran Muftì – a causa del loro conclamato e virulento antisemitismo. Ma questo è un altro discorso; e, in ogni caso, è un problema inerente alla visione del mondo occidentale; un problema nostro, insomma.

Comunque, tornando al Giappone, un risultato importantissimo la sua politica panasiatica lo ottenne, indipendentemente dal fatto che quella politica rimase allo stato di abbozzo o di mera propaganda: e cioè che essa rese inevitabile e quasi immediata la partenza delle potenze coloniali occidentali, a guerra finita.

Chi avrebbe potuto immaginare, ancora pochi anni prima, che già nel 1947 l’India sarebbe diventata una grande nazione indipendente, sia pure a prezzo della secessione del Pakistan; e che, nel 1949, la stessa cosa sarebbe accaduta per l’Indonesia, altro gigante mondiale: i quali sono, oggi, rispettivamente il secondo Stato del pianeta (l’India), il quarto (il Pakistan) e il quinto (l’Indonesia), per numero di abitanti?

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Gianni Fodella
    | Rispondi

    E' un ottimo articolo e la sua lettura è uno stimolo alla riflessione su temi che si danno ormai per scontati e che meritano invece di essere riconsiderati. Grazie!
    Gianni Fodella gianni.fodella@unimi.it

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