I rapporti di Cecco d’Ascoli con Dante e con gli altri poeti d’amore

il-linguaggio-segreto-di-dante-e-dei-fedeli-damoreCecco d’Ascoli appartenne indiscutibilmente allo stesso movimento settario al quale appartenne Dante, ma, come abbiamo visto e vedremo meglio, Dante se ne andò per una strada sua e di questo fu duramente rimproverato dai consettari. Il movimento si disperse in molte branche ostili tra loro per l’individualismo che nasceva dal suo stesso carattere aristocratico.

Cecco d’Ascoli è un altro dei consettari che si ribella alla concezione personalissima che Dante crea nella Divina Commedia e probabilmente alla sua molto più ortodossa tendenza.

Ecco come si spiegano le parole asprissime di Cecco contro Dante, nelle quali non soltanto si dice che Dante non era mai stato in Paradiso con la «sua Beatrice», ma si aggiunge lo stesso pensiero di Cino, che cioè Dante sta veramente all’Inferno. Cino (o chi per lui) aveva detto che Dante sta all’Inferno per non avere parlato di Onesto da Boncima e per non aver riconosciuto nella «sua Beatrice» l’unica fenice che con Sion congiunse l’Appennino. Cecco d’Ascoli dopo aver parlato dei cieli aggiunge:

De’ qua’ già ne trattò quel Fiorentino

che lì lui se condusse Beatrice;

tal corpo umano mai non fo divino,

né po’ sì come ‘l perso essere bianco [1],

perché se renova sicomo fenice [2]

in quel disio che li ponge el fianco.

Ne li altri regni ov’andò col duca [3],

fondando li soi pedi en basso centro’

là lo condusse la sua fede poca; (!!)

e so ch’a noi non fe’ mai retorno

ché so disio sempre lui tenne dentro:

de lui mi dol per so parlar adorno [4].

Evidentemente in queste parole l’Ascolano nega che Dante sia mai stato in Paradiso, perché il suo corpo umano non poté mai divinizzarsi e aggiunge che il bianco non può essere come il perso, cioè la verità non può cambiar colore ed è una sola come la fenice e afferma, si noti, questo fatto importantissimo: Dante fu condotto all’Inferno (negli altri regni ove egli andò col duca) dalla sua «poca fede».

Che cosa dire di questo poeta, bruciato vivo come eretico, che dichiara che Dante sta all’Inferno per «poca fede»? È serio pensare che questa «poca fede» sia poca fede ortodossa e che Cecco d’Ascoli trovasse poca la fede ortodossa di Dante? No, certo. E allora resta evidentemente dimostrato che v’era un’altra fede che l’Ascolano riteneva d’avere in misura maggiore di Dante, un’altra fede nella quale Dante, secondo lui, era stato debole o aveva mancato o deviato, ed era evidentemente una fede che riguardava un ambiente settario, era una fede settaria, la fede dei «Fedeli d’Amore», che infatti Dante aveva superato in certo modo, come vedremo, creandosi una sua dottrina della Sapienza, una «sua Beatrice» non riconosciuta da molti dei suoi vecchi correligionari, e con ciò aveva fatto cambiar colore (il bianco in perso) a quella che è come fenice (la Sapienza), che è sempre una, l’unica fenice, e non può mai cambiare.

René Guénon, L'esoterismo di Dante E questo fatto è confermato dall’altra discussione che l’Acerba fa contro Dante a proposito del sonetto Io sono stato con Amore insieme, affermando contro Dante che l’amore è uno e che «non si diparte altro che per morte», mentre Dante aveva detto che può «con nuovi spron punger lo fianco», cioè a dire rinnovarsi nell’anima che se n’è allontanata o manifestarsi in forme nuove.

Ma chi vuole una riprova evidente dei legami che uniscono Cecco d’Ascoli ai «Fedeli d’Amore», non deve che rileggere i suoi sonetti diretti a Cino da Pistoia, a Dante, al Petrarca.

Uno ve n’è diretto a Cino da Pistoia ove con lo stile proprio dei «Fedeli d’Amore» si piange per le persecuzioni della «setta che ‘l vizio mantene», alla quale pare che il cielo sia favorevole. E nella vittoria di questa gente malvagia (che per un ghibellino non poteva essere che la vittoria della Chiesa persecutrice chiamata con il suo nome in gergo «invidia») Cecco urla il dolore di dover tacere la sua verità e con un mirabile verso che riassume una grande quantità di dolori, di sforzi, di sacrifici, di artifici e di speranze, ripete il programma dei «Fedeli d’Amore» costretti a tacere, a dissimulare la verità, ma fermi nel loro odio e nella loro guerra: «Nell’alma guerra e nella bocca pace!»

La ‘nvidia a me à dato sì de morso,

che m’à privato de tutto mio bene,

et àmmi tratto fuori d’ogni mia spene

pur ch’alla vita fosse brieve il corso.

O messer Cino, i’ veggio ch’è discorso

il tempo omai che pianger ci convene,

poi che la setta che ‘l vizio mantene

par che dal cielo ogni ora abbi soccorso.

Veggio cader diviso questo regno [5]

veggio che a ogni buon convien tacere,

veggio quivi regnar ogni malegno;

e chi vi vuol suo stato mantenere

convien che taccia quel che dentro giace;

nell’alma, guerra, e, nella bocca, pace [6].

Si osservi la tragica incisività di quest’ultimo verso che riassume tanti drammi di questa vita poetica e che spiega tanti misteri di questa stranissima arte. Questo verso risponde tragicamente a quelli che nel Fiore assegnavano soltanto a Falsosembiante la possibilità di scannare Malabocca.

Ma vi è una coppia di sonetti, l’uno di Francesco Petrarca, l’altro di Cecco d’Ascoli, che rappresentano per me una delle prove matematiche dell’esistenza della setta. È una di quelle coppie nelle quali, mentre l’uguaglianza delle rime ci fa certi che i sonetti furono creati come domanda e risposta, il senso letterale dei due non s’accorda e s’accorda invece mirabilmente il senso riposto. Il sonetto di Francesco Petrarca (che doveva essere giovanissimo, perché egli aveva ventun anni quando Cecco d’Ascoli fu bruciato vivo) è alquanto oscuro per corrotta lezione, ma evidentemente egli domanda con grande reverenza a Cecco d’Ascoli, che parlando consuma il cieco errore, se egli, il Petrarca, potrà mai morire felice per l’amore di Madonna o se a questa sua felicità si opporrà «l’usato gelo», nel qual caso vuole che il sapiente astrologo gli tolga dal petto la speranza. Sembra che si tratti di una donna, ma viceversa è evidente da quel che vedremo in seguito, che si tratta della santa idea alla quale contrasta il gelo della Chiesa e che il poeta chiede se può sperare di vederla trionfare innanzi la morte,

Tu sei il grande Ascholan che ‘l mondo allumi

per gratia de l’altissimo tuo ingegno,

tu solo in terra de veder sei degno

experientia de gl’eterni lumi.

Tu che parlando il cieco error consumi,

e le cose vulghare hai in disdegno,

hora per me, che dubitando vegno

pregote che tu volgi i toi volumi.

Guarda se questo misero sugetto

descender pò giamai facto felice,

ho se madonna de l’usato gielo

esser pur mio distino il contradire

ritrarà la virtù del terzo cielo,

questo vano sperar me tra’ dil pecto [7].

La risposta di Cecco d’Ascoli (risposta per le rime) non dice neanche una parola della donna del Petrarca. Eppure risponde al suo sonetto. Come? Parlando della propria disperazione. Cecco d’Ascoli dispera. Ormai le vele del suo legno sono rotte. I tempi sono malvagi: dalla grande altezza (della Chiesa) vengono i gran tuoni (violenze e scomuniche). La guida che fu mia, la mia donna – dice l’Ascolano – la santa Sapienza nella quale speravo, mi ha fatto infelice per il suo dolce inganno, con la dolce speranza che essa potesse trionfare: oggi sotto il velo della poesia che era il velo di lei io vado traendo guai e non sono più quello che ero, tanto sono addolorato e disperato.

Così rispondeva Cecco al Petrarca che gli aveva domandato se egli, il Petrarca, sarebbe mai stato felice dell’amore della sua donna. Rispondendo apparentemente tutta un’altra cosa e parlando del disinganno avuto dalla propria e del tralignare dei tempi, Cecco rispondeva perfettamente a tono e in forma tragica; gli rispondeva: «La tua donna, che è la stessa mia donna, ci ha delusi. Non spero ormai più il suo trionfo («non spero di salute ormai più segno»), quindi non avrai il felice amore della tua donna trionfante tra poco nel mondo come tu speravi!»

Io solo sono in tempestati fiumi

e rotte son le vele del mio ingegno,

non spero di salute omai più segno,

che ‘l tempo ha variato li costumi.

Di grande altezza vengono i gran tumi;

d’extremo riso vien pianto malegno;

non è fermezza nel terrestre regno,

passano gli atti umani come fumi.

La guida che fu mia sanza sospetto,

col dolce inganno m’ha fatto infelice,

e vo’ [8] traendo guai sotto il suo velo;

di lagrimar e di sospir m’aggelo,

ché più non son quel Ceccho che uom dice,

avegna che somigli lui in aspetto. [9]

Considero questa come una prova dell’identità della donna cui allude Petrarca e della donna di cui parla Cecco d’Ascoli, del carattere assolutamente mistico di questa donna che doveva ridare la salute al mondo e del carattere settario della corrispondenza tra questi due poeti.

E non si può nemmeno dubitare del carattere settario della corrispondenza che Cecco d’Ascoli aveva avuto con Dante in tempi di accordo e in un momento nel quale Dante aveva assunto delle grandi responsabilità e si riprometteva di compiere evidentemente una grande opera nella quale sarebbe andato «diritto e clodico» e si sarebbe mostrato «Francesco e Rodico», frasi delle quali riparleremo. Cecco scriveva a Dante:

Tu vien da lunge con rima balbatica,

la più che udrò per infino che vivero,

ché, se venisse ove nasce il pivero,

si basterebbe ad aste alla sua pratica (?)

se stai fra gente ch’è sempre lunatica

leggere ti convien siffatto livero,

che tu possi notar quel ch’io ti scrivero,

s’ tu vuo’ asseguir da Dio virtù Dalmatica.

Non star con lor con vita melanconica,

usa cautela e spesso la ricapita,

e sappiti mostrar Francesco e Rodico.

Va, come ti convien, diritto e clodico.

Capiterai, come quei che ben capita,

più chiaro assai che la preta sardonica.

A me la tua parola stretta legola,

e tu la mia non la tenere a begola [10].

Il sonetto contiene molte oscurità, ma anche un sordo sente subito che si tratta di oscurità artificiose e di una persona che scrive per essere intesa soltanto dal destinatario. La rima balbatica, con la quale parlava Dante, è appunto il modo di dire balbettante che dice e non dice, ambiguo, tale che fa pensare alla lingua malcomprensibile «dei tedeschi lurchi» che vengono da dove nasce il «pivero», il «bevero», il castoro. Ma la cosa si chiarisce. Cecco consiglia a Dante di essere molto prudente se sta fra gente che è sempre lunatica (cioè fra gente fedele della Luna, della Chiesa) e tra loro egli deve leggere un certo libro nel quale possa notare quello che Cecco scriverà. Si ricordi che Cino da Pistoia leggeva il libro di Gualtieri per «trarne nuovo intendimento» perché sul monte «tirava vento», cioè perché si trovava tra gente lunatica, sotto il prevalere della Chiesa. Ma il consiglio di Cecco diventa anche più esplicito e si riduce a queste parole: sappiti barcamenare, andare diritto e clodico (claudicante, zoppo). Sappi cioè dire quello che tu pensi dirittamente pur andando in apparenza come uno zoppo, e sappiti mostrare Francesco e Rodico. Questa frase è molto oscura, certo vuole indicare in Francesco e Rodico due cose opposte e in lotta tra loro. Per me l’allusione è alla lotta tra i Franceschi, (Franchi di Filippo il Bello) e qualcuno che non era proprio Rodico, non stava proprio a Rodi, ma abbastanza vicino a Rodi e che sarebbe stato pericoloso il nominare, stava cioè a Cipro, ed era l’ordine dei Templari [11].

Cecco d’Ascoli ripetendo così ancora una volta tutti i consigli di Falsosembiante, prometteva a Dante una gloriosa riuscita e intanto, quel che più importa, stringeva con lui un patto di reciproco consiglio.

Abbiamo visto come e perché quest’alleanza si ruppe.

Ma intanto è prezioso riconoscere in questa lirica l’angoscia che egli esprime di non poter dire la verità, di essere oppresso nell’obbligato silenzio di ciò che arde dentro, angoscia che grida anche più apertamente nel secondo dei due sonetti di Cecco al Petrarca, nel quale il poeta freme nella rabbia di doversi fare cieco mentre sa di non essere cieco, di vivere nell’«empio laccio» (della Chiesa) di essere distrutto dal «freddo ghiaccio» e di essere condotto a soffrire dal «negro manto», cioè dalla simulazione dell’errore, col quale egli ha dovuto nascondere la sua verità, ma restando però fedele alla «bella vista coverta dal velo», alla Sapienza santa che deve essere costretta sotto il velo perché non si può propalare e che per questo fa tanto soffrire il poeta! È veramente un potente grido d’angoscia!

I’ non so ch’io mi dica, s’io non taccio:

cieco non son, e cieco convien farme;

per mia salute io ho renduto l’arme;

ché meno stringo quanto più abbraccio.

Ma io vivendo [ognor?] nell’empio laccio,

levando gli occhi [mie] i non so guidarme,

né posso omai del bene contentarme,

sì m’arde e strugge sempre il freddo ghiaccio.

Sì ch’io ridendo vivo lagrimando,

come fenice nella morte canto.

Ahimè! Sì m’ha condotto il negro manto!

Dolce è la morte, po’ ch’io moro amando

la bella vista coverta dal velo,

che per mia pena la produsse il cielo [12].

Questo stretto ricollegarsi di Cecco d’Ascoli con i «Fedeli d’Amore» e il supplizio inflittogli dalla Chiesa gettano su tutto questo movimento una luce tragica, o meglio, mettono in luce uno dei molti elementi tragici che dovettero accompagnare la vita di questa poesia e dei quali non mancano tracce nelle opere di Dante. Forse (come qualcuno ha supposto da tempo, indipendentemente da queste nostre indagini) il vero titolo dell’opera strana e oscura di Cecco è La Cerba ossia La Cerva. Ed è il nome del mistico animale nel quale più tardi anche Francesco Petrarca doveva raffigurare proprio la setta dei «Fedeli d’Amore». E questo vero titolo è forse volutamente nascosto nella parola L’Acerba.

Certo è che colui che, per ragioni non mai troppo perfettamente chiarite (sì che oggi ancora si discute sulle vere cause della sua condanna), or sono appunto sei secoli, fu arso vivo dalla Chiesa fra Porta Pinti e Porta a la Croce, fra Affrico e Mensola, era un «Fedele d’Amore», amico e corrispondente di tutti i «Fedeli d’Amore», era un amante della stessa mistica donna che avevano amato Dante e Cino, della stessa «Amorosa Madonna Intelligenza» che aveva amato Dino Compagni, egli che ruggiva d’angoscia sotto il «negro manto» della simulazione, ma che proclamava di morire felice perché moriva per «la bella vista coverta dal velo» che era l’eterna Beatrice di Dante e lasciava queste sue grandi parole a Francesco Petrarca! [13]

Note

[1] Mutar colore.

[2] Che è sempre una.

[3] Inferno.

[4] Libro I, cap. II.

[5] È il regno d’Amore che cade per le persecuzioni e per le scissioni della setta.

[6] Ediz. Rosario, p. 154.

[7] Le Rime del Codice Isoldiano pubblicate a c. di Lodovico Frati, Bologna, presso Romagnoli Dall’Acqua, 1912, p. 221.

[8] Il sonetto è riportato con le giuste varianti introdotte dal Rosario, Ediz. cit.

[9] Le Rime del Codice Isoldiano, p. 221.

[10] Ediz. Rosario, p. 155.

[11] Vedremo in seguito come in una strana novella del Boccaccio un certo poeta della famiglia Elisei (Dante) tornò in patria perché aveva sentito cantare una sua canzone a Cipro, il che vuol dire probabilmente che aveva avuto l’aiuto dei Templari.

[12] Ediz. Rosario, p. 156. Poiché il sonetto risponde al Petrarca e par difficile che sia rivolto a un giovane che avesse meno di vent’anni, questo sonetto non può essere scritto che nel 1326 o 1327, quando Cecco aveva già settant’anni. Dunque «la bella vista coverta dal velo» non è una donna vera.

[13] Mentre rivedo le bozze di questo libro viene alla luce l’interessante opera di Achille Crespi, Francesco Stabili, L’Acerba, Ascoli, Cesari, 1927. Benché in alcuni punti l’erudito commentatore del libro dell’Ascolano appaia ancora legato alla vecchia tradizione critica e divida non so perché in più simboli la donna della quale si parla nell’Acerba come di unica donna, mi piace vedere che egli pure ha riconosciuto (p. 15) che la dottrina dell’Amore esposta nell’Acerba è «conforme agli insegnamenti di Platone e di Aristotele e del dolce stil novo e che la donna misteriosa è simbolo dell’“intelletto attivo”» (libro III).

* * *

Questo brano costituisce la seconda parte del capitolo 10 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».

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Luigi Valli (1879 – 1930) è stato un critico letterario, docente universitario italiano. Prima discepolo poi amico fraterno di Giovanni Pascoli, si distingue come filosofo e poeta e studioso di Dante Alighieri. A lui sono dedicate tre scuole: una a Narni, un liceo a Barcellona Pozzo di Gotto e una scuola primaria a Bergamo, facente parte dell'Istituto Comprensivo Edmondo De Amicis. Tra le sue opere: * Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d’Amore", Roma 1928 * La chiave della divina commedia, Zanichelli, Bologna, 1925 * Il segreto della Croce e dell’Aquila, nella Divina Commedia Bologna, 1922. * L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922

3 Responses

  1. Giovangualberto Ceri
    | Rispondi

    CONFRONTARE CON il DVD:

    YOUTUBE, GIOVANGUALBERTO CERI,

    Interpretazione autentica di Dante,

    unitamente a “DANTE E L’ASTROLOGIA”,

    con presentazione di FRANCESCO ADORNO.

    Intervista TV, “CANALE 10″ – FIRENZE –

    del 11.03.2008 alle 12h.00?

  2. Giovangualberto Ceri
    | Rispondi

    UMBERTO CECCHI su TV Canale 10 sul DANTE autentico. Dunque: su internet vedi: “SU DANTE e DINTORNI” in omaggio a quella CULTURA che vuole essere autentica. Intervista TV di Umberto Cecchi a Giovangualberto Ceri su Canale 10, ESPOSTA IN TRE PARTI che andranno ricercate (YOUTUBE su Google. Sono TRE PARTI staccate.
    Copia e incolla LINKEM su Internet):
    http://www.youtube.com/watch?v=wV4vEG15yjA.

  3. Giovangualberto Ceri
    | Rispondi

    A) da Ruggero Sorci.

    https://www.youtube.com/watch?v=H7w8NGdsDaM

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