Ci sono personaggi, nella storia italiana dell’ultimo secolo, che in altri Paesi sarebbero già stati celebrati da film e libri come eroi nazionali, col diritto ad entrare a vele spiegate nell’immaginario popolare. Al contrario, registriamo che figure di alta qualità umana, di spessore intellettuale e di valore etico, da noi restano emarginate, sconosciute ai più, magari anche perché marchiate a fuoco dalla loro appartenenza fascista.
Il caso di Guido Pallotta è uno di questi. Oggi lo trae dall’oblìo Aldo Grandi, col suo recente libro Il gerarca con il sorriso. L’archivio segreto di Guido Pallotta, protagonista dimenticato del fascismo (Mursia). Si tratta di un lavoro in gran parte tracciato lungo la corrispondenza privata di Pallotta, particolarmente con la madre, con cui ebbe un rapporto di intensa affettività. Eppure non si può dire certo che fosse un “bamboccione”: scappato di casa a diciott’anni – era nato nel 1901 – per arruolarsi fra i legionari dannunziani, Pallotta prese parte a tutta quella epopea. Membro della “Disperata”, la guardia personale di D’Annunzio, di Fiume colse soprattutto il lato della “festa” nazionalista, della militanza combattentistica, senza dare soverchia importanza alle disquisizioni ideologiche assai acerbe che si tennero in quei mesi nella Città Olocausta, e senza avvertire neppure quel senso di vago abbandono che dovettero registrare molti legionari, nel passaggio dall’epica dei momenti emotivi, delle liturgie di guerra, alla monotona quotidianità di una situazione sin dall’inizio priva di sbocchi politici. Animato da vigore idealistico, la sua è la tipica storia di un giovanissimo italiano dell’epoca. Figlio di un conte e di una baronessa, d’accordo, ma cresciuto con spirito indipendente e tutto il contrario del reazionario conservatore. Anzi, proprio dalla madre apprese una maniera sbrigliata di concepire l’Italianità, che poi Pallotta rielaborò con la sua concezione rivoluzionaria del Fascismo.
Il suo cursus honorum è quello classico del giovane fascista emergente: dopo l’esperienza legionaria, durante la quale aderì al Fascio di Fiume, si iscrisse a quello di Montefano, il paese marchigiano in cui si era ritirata a vivere la famiglia, poi fu squadrista d’azione e di pensiero. Fece parte, insomma, di quella non piccola schiera di squadristi intellettuali – Maccari, Malaparte, Pavolini, Bottai, Viani, Gallian, Rosai, lo stesso Marinetti e molti altri – la cui sola esistenza è sufficiente a liquidare come improvvida l’abituale definizione dello squadrismo come rozza congerie di picchiatori: magari picchiavano ed erano picchiati, davano e subivano la morte, ma rozzi e incolti non lo furono, specialmente se paragonati con le primitive “guardie rosse” europee dell’epoca. Pallotta, studente universitario, nel 1921 si trasferì insieme ai due fratelli a Torino, dove divenne collaboratore de Il Maglio, settimanale del Fascio torinese e subito dopo della prestigiosa Gazzetta del Popolo e del Popolo d’Italia, fondato da Benito Mussolini e diretto dal fratello Arnaldo. A Torino, tra l’altro, divenne amico di quell’Ather Capelli che verrà ucciso a tradimento nel 1944 dai partigiani e a cui verrà intitolata la Brigata Nera torinese.
Iniziò dunque la sua attività di “squadrista di penna”, come dice Grandi. Favorevole all’instaurazione della dittatura, Pallotta vide con favore il consolidamento del giovane regime: «Egli era – scrive Grandi – a tutti gli effetti un fascista tout court, un mussoliniano per eccellenza, convinto assertore della necessità di ricorrere anche alla forza, se necessario, pur di conquistare e mantenere il potere».
Nominato segretario del GUF di Torino nel 1931, Pallotta si dimostrò attivissimo ed efficiente. Nel ’32 fondò il periodico giovanile Vent’anni, che ebbe gran riscontro fra i giovani di quegli anni e sua fu, ad esempio, l’organizzazione, nel 1933, dei giochi mondiali universitari, evento che all’epoca fece scalpore, con giovani provenienti da tutto il mondo. Poi fu il volontariato in guerra nel 1935-36, in Africa Orientale, la nomina a segretario nazionale dei GUF, il trasferimento a Roma come “gerarca” a tutti gli effetti, l’ingresso nel 1939 nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il nuovo volontariato per la guerra in Africa settentrionale, dove infine lo colse la morte con onore, il cadavere disperso e non più ritrovato fra quelle sabbie, nel dicembre 1940, nel corso del contrattacco inglese alla modesta avanzata di Graziani dell’agosto precedente.
Un “gerarca”, abbiamo detto. E lo fu. Decorazioni, soddisfazioni, riconoscimenti in vita. E, alla memoria, la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Pallotta fu però un “gerarca” molto speciale, del tipo opposto a quello che di solito si richiama alla mente: umile, anziché arrogante, semplice nei modi, colto e serio, entusiasta in tutto. Consapevole delle disfunzioni del Regime, che qua e là non gli sfuggiva di osservare, ma mai lassista, sempre propositivo. Ciò si ricava dalla lettura dei documenti pubblicati da Grandi, dalle sue carte, appunti, note, lettere. Al contrario di molti alti papaveri, seppe far seguire sempre i fatti alle parole. Non facili medaglie e facilissimi avanzamenti per via di conoscenze, ma vita dura e impegno quotidiano. Gli tessé un elogio il famoso giornalista Ermanno Amicucci, per molti anni Direttore della Gazzetta del Popolo: «Fu immediatamente riconosciuto come un Maestro, che tutti amavano ed ammiravano, che tutti ardevano di avere come guida». Effettivamente sembra proprio che Pallotta avesse questo goliardico e sempre positivo carattere di trascinatore, che sapeva guadagnarsi la stima e l’affetto dei giovani: in questo ricorda un po’ il tedesco Baldur von Schirach, il leader della Hitlerjugend, giovane tra i giovani, una specie di “fratello maggiore”. Anche qui, il suo essere “gerarca” si differenziava da tanti altri che, appena indossato il cappello con l’aquila imperiale, si atteggiavano a sprezzanti, grotteschi “duci” di provincia.
Il momento ideologico più alto raggiunto da Pallotta fu a Milano nel febbraio 1940, all’importante Convegno in occasione del decennale della Scuola di Mistica Fascista, fondata nel 1930 da Arnaldo e da Niccolò Giani. Qui Pallotta, che pronunziò una lunga relazione, dette il meglio di sé, dando fondo alla sua ideologia del Fascismo come fede assoluta, come mitizzazione della figura quasi sovrumana del Duce, come etica ascetica che chiedeva soltanto il sacrificio, serena nel morire per ciò che si chiamava l’Idea. Egli interpretava così il fondamentalismo ideologico di un gran numero di giovani fascisti, che per rilanciare la Rivoluzione, irretita dalla burocrazia e dall’imborghesimento di tanti vecchi capi, abbracciarono tutte le estreme iniziative di Mussolini, dall’antisemitismo alla polemica antiborghese, dalla militarizzazione della vita civile alla politica estera aggressiva e bellicista.
Grandi scrive che Pallotta fu lungi dall’essere un “frondista”: egli «era, invece, un ortodosso, ligio alle direttive, veemente nella sua carica antagonista nei confronti di chi, nel fascismo, cercava solo onori e prebende, ma sempre in nome e per conto di una purezza ideologica che andava di pari passo con la sua mistica dell’azione». Questa sua ortodossia venne bene alla luce nel convegno milanese, quando ad esempio Pallotta parlò della mistica fascista come uno “stato di grazia”, una ricerca della “vita sublime”, aggiungendo che «la nostra fede deve essere ragionata», che «per il mistico del fascismo è addirittura nauseante lo spettacolo di dirigenti d’aziende, amministratori, consiglieri delegati e via dicendo che si pappano alla fine dell’anno colossali emolumenti». Poiché secondo lui il Fascismo era essenzialmente un’etica del rigore e della serietà nelle scelte: «Chi non ha dato nulla non vale nulla. Noi non vogliamo godere la vita: soltanto vogliamo adoperarla, scagliarla verso un obiettivo ben più alto di qualsiasi utile personale». Altri tempi, certamente, ma soprattutto altri uomini. Il 9 maggio 1943, nella ricorrenza della proclamazione dell’Impero, quando questo era già perduto insieme a tutte le colonie d’Africa, Ferdinando Mezzasoma celebrò il ricordo di un eroe italiano rimasto per sempre laggiù.
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Tratto da Linea del 29 gennaio 2011.
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