Di fantasmi, incantesimi e destino

Massimo Donà a confronto con Emanuele Severino

La filosofia di Massimo Donà nasce da un confronto serrato con il pensiero del suo grande maestro, Emanuele Severino. L’incontro con il filosofo bresciano ha segnato, nel profondo, il suo iter speculativo e la sua vita. Lo testimonia, in modalità esemplare, un suo recente volume, Di fantasmi, incantesimi e destino. Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità, nelle librerie per InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 396, euro 28,00). L’autore mette in atto un vero e proprio corpo a corpo con i plessi teoretici più rilevanti delle opere di Severino, mostrando di aver ereditato dal maestro, rigore logico, coerenza argomentativa, originalità teoretica. Dall’esegesi donaiana, il “filosofo dell’essere” appare come pensatore cruciale, distante dalle scolastiche che hanno connotato di sé il Novecento filosofico e, al contempo, latore di una visione aperta alla possibile confutazione.

Delle innumerevoli e articolate tesi di Donà, faremo menzione parziale, chiedendo anticipatamente venia all’autore e al lettore, limitandoci a presentare quelli che, a nostro giudizio, sono i plessi teorici più rilevanti del volume. Fin dall’incipit, Donà rileva come Severino fosse convinto: «del fatto che l’errore non può che crescere conformemente alle leggi della verità» (p. 19) . Il sistema severiniano matura nel seguente quadro teorico: se non ci fosse l’errore, ma solo un errare conforme alle leggi della verità, la verità non confuterebbe mai l’errore: «Ma sempre e solamente il suo fantasma» (p. 20), di cui mostrerebbe l’autotogliersi. Questa situazione lascia aperta in Severino la domanda: «se il nulla non è (stante che non può essere), da cosa mai verrà determinato l’essere?» (p. 21). È noto, il pensatore bresciano pensa la storia dell’Occidente quale risultato dell’accettazione della fede nel divenire che, fin dalla Grecia arcaica, si è strutturata sulla “falsa” certezza che le cose provengono dal nulla e a esso facciano ritorno. Concezione teoreticamente ribadita con i “generi sommi” da Platone nel Sofista e dal Liber de interpretatione di Aristotele. Essi, nel tentativo post-parmenideo di risemantizzare il divenire hanno, in realtà, ridato corpo: «a quel divenir-altri-da sé che implica […] il non essere più di ciò che era» (p. 34).

L’Occidente da allora, divenuto terra del nichilismo, tentò di far fronte all’angoscia del divenire, della vita sempre esposta alla morte, attraverso l’invenzione degli immutabili. Tale compito è oggi affidato alla Tecnica. La proposta di Severino mirata a oltrepassare tale condizione, non dipende dall’uomo: «quanto piuttosto da una originaria verità scolpita quale sfondo intramontabile dell’infinito dispiegarsi di un essente tutto costitutivamente necessario» (p. 35). La verità severiniana è, pertanto, perfettamente inscritta nell’orizzonte teorico dell’elenchos aristotelico: «Una verità che implica […] l’originario ed eterno essere identici a sé da parte di tutti gli enti» (p. 37). Ciò induce Donà a rifiutare le consuete definizioni del pensiero severiniano: la filosofia di quest’ultimo non è un’ontologia dell’immobilità neo-eleatica, in quanto in essa il divenire è reale, anzi, “necessario”: «solo non si deve intenderlo come un divenire annientante […] Il divenire […] altro non è […] che l’apparire e lo scomparire dell’eterno […] l’apparire e lo scomparire dell’eterno apparire dell’ente» (p. 39). La lampada accesa nella mia stanza, nel momento in cui si manifesta: «sarà […] l’eterna presenza di un’eterna assenza» (p. 41). Nella totalità dell’apparire sono presenti sia il cerchio che non include la lampada accesa (il passato) sia quello che la include (il presente).

Il differenziarsi dell’apparire assume in Severino tratto infinito e, pertanto, tutto ciò che comincia può essere oltrepassato in un dispiegarsi fichtiano senza fine. L’uomo vive nella dimensione della Gloria, tensione assoluta all’unità degli essenti, non realizzabile, che testimonia, nel processo, la dimensione della Gioia. Tale argomentazioni inducono Donà a rilevare delle “ambiguità” nel sistema del grande pensatore. La prima ha a che fare con l’etica. Da un lato, il destino della necessità è incompatibile con qualsivoglia “libero arbitrio”, conditio sine qua non, delle scelta tra diverse opzioni etiche: «Il Destino è […] l’eterno superamento del male e del dolore […] sempre e necessariamente connessi» (p. 54). Nulla può essere diversamente da com’è. Eppure la Gioia è una determinazione soggettiva e rinvia a una delle categorie etiche per antonomasia, l’eudaimonia. Ciò riconsegna la filosofia di Severino: «a quelle istanze di cui la medesima si pone appunto come la più radicale messa in questione» (p. 60). Il dualismo è tratto che riemerge anche nella ermeneutica dell’infinito. Tale concetto è utilizzato in due sensi: come indicatore di una totalità compiuta e come testimonianza dello svolgimento che non può mai dirsi realizzato. Per il filosofo, infatti, il cerchio infinito dell’apparire non è, sic et simpliciter, il cerchio del Destino in cui sopraggiunge la terra isolata, che è finito. Il cerchio infinito vive inconsciamente nel secondo, è il suo altrove. La filosofia dell’unità mostra di essere pensiero dell’alterità.

È il tema della “Contraddizione C”. Nel cerchio finito dell’apparire, il Tutto: «che appare non sarà mail il tutto, ma solo l’apparire formale del medesimo» (p. 223). Severino, per Donà, non riconosce il senso autentico della “negazione” che anche nel suo sistema, viene tradotta in un eteron, un positivo, in conseguenza del fatto che l’infinito è esperito alla luce della totalità, del compiuto. Egli riduce il nulla a contenuto negativo, semplice altro dall’essere, distinto dalle determinatezze e dagli enti: «cui non potrà venir consegnato che il semplice fantasma della vera infinitudine» (p. 231). Il tema dell’apparire dovrebbe esser letto in termini “temporali”: «Se, nel prima in quanto “prima”, il poi può esser già compreso solo in quanto essi si relazionano all’interno di un medesimo apparire […] allora i medesimi non possono che farsi figure di quel medesimo “presente” all’interno del quale [..] il prima può costituirsi come un “prima” e il poi come un “poi”» (p. 228). Tempi diversi proprio in quanto il loro darsi sarà il medesimo: il presente agostiniano, “contenitore” di passato e futuro.

Severino è consapevole che il linguaggio non può decifrare le tracce del Destino. Egli nel componimento musicale giovanile Zirkus Suite, sotto l’influenza di Schopenhauer e dei Romantici, pare alludere alla musica, ricorda Donà, quale: «Unica lingua capace di esprimere l’assoluto e il divino» (253). Nel suo sistema, nonostante la lettera, è possibile ascoltare l’eco di quel principio, nulla-di-ente, che “anima” ogni vita. Nella seconda parte dell’articolato volume, Donà presenta l’esegesi severininana di Leopardi (il cui nulla è ontologizzato), di Gentile, ritenuto il pensatore che ha condotto a estrema coerenza la “follia” occidentale, di Heidegger e dei neopositivisti. Le filosofie di Donà e Severino testimoniano la grandezza del “pensiero italiano” contemporaneo.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

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