Dopo i lunghi decenni di disinteresse liberale per le sorti dei nostri emigranti, che a milioni avevano lasciato l’Italia per cercare fortuna all’estero, soprattutto negli anni subito precedenti la Prima Guerra mondiale, toccò al Fascismo farsi carico del loro destino, seguirli, alleviarne le condizioni, elevarli dal rango di plebi disperate a membra di un popolo civile. E lo fece dando fondo a un’incredibile massa di iniziative.
Se persino i partiti “dei lavoratori” avevano ignorato il problema, il nuovo Governo fin dai primi anni dimostrò di voler considerare i nostri emigrati come parte integrante della comunità nazionale, e non come spezzoni di umanità allo sbando. Mentre infatti i governi liberali avevano affrontato il problema con un «carattere interlocutorio e asistematico», avviando iniziative solo «enfatiche e di circostanza»; e mentre i socialisti «rinunciarono ad esprimere una posizione articolata sulla questione emigratoria, limitandosi ad una generica condanna del fenomeno», prima del 1922 soltanto grazie agli ambienti nazionalisti della società “Dante Alighieri” e della rivista Italica Gens si ebbero decisioni intese a creare una «rete di istituti scolastici e assistenziali come lo strumento più efficace per intercettare i bisogni delle famiglie emigranti». Ma fu solo col Fascismo che si avviò da subito una «diplomazia culturale», con una «chiara e precoce consapevolezza dei suoi obiettivi» e che vide la «proiezione internazionale del regime» lavorare con metodi «di penetrazione politica connotati da una forte carica militante e agonistica». Il tutto, inteso a difendere l’italianità nel popolo espatriato, impedendone un’integrazione nei contesti stranieri che sarebbe risultata distruttiva dell’identità e costruendo dalle fondamenta una figura di emigrante italiano opposta agli stereotipi dello straccione delinquente: membro evoluto di una nazione rinnovata, efficiente, di alta cultura.
Scrive queste considerazioni Francesca Cavarocchi nel suo recente Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero (Carocci), in cui si descrive minutamente l’insieme delle iniziative che, negli anni Venti e Trenta, impegnarono l’Italia in un disegno di radicale redenzione materiale e morale dei nostri lavoratori stabilitisi oltreconfine.
Si trattò di un lavoro davvero di grandi proporzioni. Che impegnò consistenti stanziamenti di fondi a favore di una «diplomazia parallela» costruita sulla rete dei Fasci all’estero, su emissari politici, attivisti in loco, organizzatori, pubblicisti, industriali e commercianti sollecitati e aiutati dal Regime nel diffondere assistenza sociale e medica, lavoro, cultura. La sistemazione materiale dell’umile operaio, così come la penetrazione del lavoro italiano di qualità, vennero tenacemente perseguiti: le fortune del made in Italy nel mondo come marchio universalmente apprezzato, datano da quando il Governo fascista si dette a sostenere coi fatti e con metodi decisi il lavoro italiano, le intraprese dei nostri piccoli e grandi imprenditori, dando all’italianità nel suo insieme, considerata come appartenenza culturale di alto valore e moderna civiltà del lavoro, un prestigio fino ad allora del tutto sconosciuto. La storiografia recente si sta dunque accorgendo – sia pure tra mille distinguo e con una cautela narrativa ancora non priva di blocchi – che il Fascismo, anche in questo campo delicato di protezione identitaria fuori dall’Italia, si dette da fare e fece parecchio, e, diciamolo, molto spesso fece pure bene.
I politici fascisti si resero conto ben presto che i destinatari del loro messaggio e delle loro iniziative non dovevano essere le élites italiane integrate nelle società estere e già abbondantemente snazionalizzate, bensì il popolo minuto: «Si sottolineava spesso come proprio dagli umili, dagli sterratori, dai manovali ci si potesse aspettare una più tenace resistenza verso i tentativi di assimilazione, mentre erano più facilmente i benestanti, i parvenu, a distaccarsi dalle proprie origini…», rileva l’autrice. E sembra proprio che la risposta fosse quella giusta, se negli anni si andavano registrando manifestazioni di orientamento degli italiani all’estero in senso non meno fascista dei residenti in patria. Nel 1932, per dire, nel commemorare l’omicidio di un fascista a Marsiglia, si poterono notare le «donne fasciste» che «riempivano la sala di fiori e di nastri e bandiere tricolori», col concorso «di un gran numero di connazionali di Marsiglia». La mostra del Decennale nel 1932, che presentava il Regime corporativo come risposta mondiale al capitalismo, l’avviamento della politica del Fascismo Universale prima del 1935, con la creazione dei CAUR e il convegno di Montreux, la chiamata a raccolta del Fascismo internazionale; poi la mobilitazione dell’EIAR, dell’Istituto Luce, la creazione nel 1938 dell’Istituto per le Relazioni con l’Estero (IRCE), quella della Direzione per la Propaganda nell’ambito del MINCULPOP, l’attività di uno statuto di collaborazione fra Ministeri degli Esteri, della Cultura Popolare, dell’Educazione Nazionale, le Corporazioni, l’Accademia d’Italia, l’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, la creazione nel ’37 del Centro di studi anticomunisti, il potenziamento degli istituti culturali nelle capitali straniere, etc.,tutto questo portò a risultati che lo storico può ben giudicare sonanti, nei termini di una diffusione della nostra presenza culturale (con una mirata attenzione per l’editoria e per la programmazione radiofonica all’estero), in chiave di emancipazione civile delle minoranze italiane sparse nei quattro continenti. E pure in chiave di attrazione degli stranieri in Italia, in qualità ad esempio di studenti: l’Università per stranieri di Perugia fu appunto fondata nel 1925 dal Governo fascista, che amava farsi conoscere all’estero, aprirsi al mondo, e non trincerarsi dietro frontiere inaccessibili, come contestualmente stava facendo la “patria” sovietica dei lavoratori.
Fatte salve le diversificazioni locali – ad esempio nei casi della presenza italiana in Tunisia o in Egitto, fortemente combattuta dall’ostilità francese e inglese – e gli oscillamenti temporali, si parla (ma occhio alla terminologia, volutamente svalutativa del consenso innegabile) di «una generica infatuazione verso il nuovo regime che molto aveva a che fare con un ritrovato orgoglio nazionale e col rafforzamento di un’identità condivisa…». Un risultato, questa «generica infatuazione», al cui ottenimento aveva partecipato, è ancora l’autrice a scriverlo, «un’ampia schiera di artisti, giornalisti, studiosi, che rappresentano un’esemplificazione significativa del contributo degli intellettuali al progetto di espansione culturale all’estero, permettendo di ipotizzare come l’appello alla mobilitazione lanciato da Mussolini nel 1926 avesse trovato consensi in settori tutt’altro che insignificanti della cultura italiana…», ivi compresi personaggi di gran nome, come Carrà, Casella, Bragaglia. Detto questo, attendiamo attestati storiografici altrettanto pesanti circa una corrispondente «infatuazione» di intellettuali e lavoratori italiani, in patria e all’estero, per le storiche realizzazioni del presente regime liberaldemocratico italiano.
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Tratto da Linea del 3 ottobre 2010.
tony cuttaia
penso che in questo momento in italia ci sia una situazione simile,siamo stanieri in patria.le autorita' statali i media sono lontani dalla realta',l'italiano umile e' abbandonato al suo destino.presto la disperazione se non canalizzata diventera esplosiva.
si deve riportare l'operaio ilo contadino l'artigiano e l'umile lavoratore alla vera dignita' umana e civile.
se questo non avverra' presto saremo testimoni di violenze e distruzioni simili alla rivoluzione francese.un popolo umiliato si ribella e reprime la sua rabbia nel sangue.
siamo alla vigilia di grandi cataclismi sociali ,il titanic sta affondando ma l'orchestrina continua ancora a suonare.
giovanni fonghini
Gli articoli di Luca Leonello Rimbotti sono sempre da leggere con estrema attenzione, vanno stampati e riletti. Rappresentano per me delle vere e proprie pagine di "controstoria", che rendono giustizia alle infinite menzogne che ci raccontano da oltre 60 anni sulle grandi conquiste sociali che attuò il regime fascista, ignorate dai più. Conquiste che fino ad allora con i Savoia erano sconosciute. La Corte non aveva certo il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori tra i suoi principali pensieri.